TRA CALCIO E GUERRA FREDDA

Questa è un fola che viene da un tempo che sembra antico, ma che tanto antico poi non è.  
Giusto per intenderci: c'erano ancora le “mèla frànc” (e ne va: il malefico ed invincibile marco tedesco), i palloni di cuoio legati con lo spago, la Democrazia Cristiana, e la più subdola di tutte le battaglie mai combattute: la Guerra Fredda, quella che a scuola non fanno mai studiare e che tutti hanno imparato MALE dai film americani, dove i russi sono poveri sprovveduti bariaghi-zucchi di Vodka, circa un milione di missili nucleari è puntato su ogni possibile sito strategico nemico, e alla fine vincono gli X-Men (oppure un qualche ragazzino capo dei nerz, a seconda del regista).  

In ogni caso questo blog parla di calcio per cui non m'attarderò a disquisire dell'ignoranza statunitense nella materia storica, con la quale hanno da sempre avuto un rapporto infausto, avendoci probabilmente questionato da bambini, non so, di sicuro il fatto che non abbiano avuto  uno ieri, li ha inevitabilmente resi impreparati sull'oggi e sul domani, specie se le locations erano in terra europea, mediorientale o asiatica (in pratica, se erano fuori dai loro paralleli e meridiani di competenza).  

C'è chi dice che il calcio goda di una popolarità mediatica ingiusta.  
È sicuramente così. Però ogni tanto si sdebita con chi lo ha reso così celebre senza che ne avesse mai avuto veramente onore, saldando il passivo con una favola, se non bella almeno interessante. 
Questa è la storia di Jürgen Sparwasser.  


 Tutti, me compreso, abbiam sempre sentito parlare di illustri conosciuti tedeschi quali Fritz Walter, die Kaiser Franz Beckenbauer, il Maoista Paul Breitner, il bombarolo Gerd Muller, Sepp Mayer... tutta gente, fatta eccezione per il cappellone baffuto (che di ariano non aveva nulla), che avrebbe fatto la sua porca figura anche ai tempi del De Bello Germanico, primo e secondo episodio. Con l'avanzare delle epoche calcistiche sono venuti avanti i Rumenigge, i Matthäus, i Kahn, fino ad arrivare ai crucco-kebabbari Özil e Khedira dei giorni nostri.
Poche volte però, se ci fate caso, abbiam sentito parlare dell'altra faccia della Germania, se non per motivi politici o per i film di merda di cui facevo menzione qualche riga sopra.  
Germania Est ha sempre voluto dire Trabant, Giovanni Lindo Ferretti, Muro di Berlino, Alexander Platz, Piani quinquennali di stabilità, Giovanni Lindo Ferretti, Stasi, Cortina di Ferro, Berlino Est e qualche volta anche Giovanni Lindo Ferretti. Da nessuna parte si è mai sentito parlare del calcio della Germania Orientale se non con Mathias Sammer quando rubò il pallone d'oro a Baresi e/o Maldini.

Da bambino credevo che la DDR fossero i buoni e la BDR i cattivi.  Incuriosito dalle sigle, chiedevo sempre a mio padre per cosa stessero le lettere e, nel momento in cui sentivo dire la parola “democratica”, associavo a questa: sole, bel tempo, governi illuminati, benessere, ecc.. mentre, quando sentivo “federale”, per uno sbagliato senso di contrarietà covavo un sentimento di diffidenza, di paura. Col passare degli anni, per fortuna, ho cambiato idea o, per meglio dire, ho invertito le associazioni di concetto e sto molto, molto meglio.  

Germania Ovest e Germania Est giocarono un derby: uno e uno solo. 
Sorellastre contro: un inedito destinato a restare unico.  
Era il mondiale del 1974, e lo avrebbero vinto Beckenbauer e compagni spuntandola, con teutonica efficienza e micidiale costanza, sull'Olanda di Cruyff, demolendo così una storia bellissima, quella del calcio totale.  Ma va reso loro atto che erano in credito con la storia stessa, infatti avevano già contribuito a scrivere una straordinaria pagina di pallone, proprio nel più singolare di tutti i derby mai giocati.   
Sparwasser era il numero 14 della Germania-Est, maglia blu targata DDR, profonda scollatura a V, segni particolari: svelto come la polvere. Segnò al 77° minuto sbucando in mezzo a Breitner, Voegts e Cullman, e beffando la leggenda vivente Mayer. 



Il calcio molto spesso è anche, e soprattutto, quello che non è, e Honecker, dittatore della Germania Democratica, non impiegò molto a capire il significato di questa vittoria, quello che poteva valere a livello propagandistico, sia su scala nazionale che continentale. I tedeschi d'Oriente avevano avuto la loro rivincita, era stato il loro giorno di gloria.  
Un paese triste si trasformava in un carnevale, una mela col verme in una Melinda, l'orgoglio nazionale veniva rispolverato e, naturalmente, Sparwasser diventava un mito. 
Questa era la favola, la vittoria ne era stato il lieto fine. 
O per lo meno, quelli che l'hanno comprata l'hanno venduta così.  

L'ho letta più volte questa storia, pensando che se al di là del Muro avessero avuto registi di regime in gamba, ne avrebbero potuto tirare fuori un bel film, un'americanata al contrario.  
Forse ci hanno pure pensato, poi magari hanno capito che sarebbe stato un po' come mettersi le mani in faccia dopo essersi puliti il culo. 
Sì, deve essere andata così.  
Cosa avrebbero raccontato?  
Che gente la cui massima ambizione era diventare Capitano dei pompieri aveva sbaragliato quelli che sarebbero divenuti Campioni del Mondo?  
Che ragazzi che non avevano mai vinto niente, neanche una biro alla lotteria del Partito Comunista del quartiere, avevano compiuto l'impresa oltre cortina? 
Che i cammelli erano passati in mezzo alle crune? 

Le toppe sono peggio dei buchi, e forse perfino i registi di regime se ne dovevano essere accorti. Non era più una gran favola da raccontare, specie perché il lieto fine durava poco più di tre fischi, e dopo sarebbero state solo bugie.  
In tutte le storie che ho letto si evidenziavano i toni epici di questa vittoria, il meritato e sudato senso di revanscismo di Honecker, Sparwasser, e soprattutto, degli 8.500 tedeschi dell'est che s'erano presentati ad Amburgo, a nord della Germania Federata, con un visto turistico che durava il tempo della partita (quest'ultimo particolare, sì, è pazzesco!).  
Insomma, pareva d'aver assistito ad un cambio d'epoca, a qualcosa di cruciale nella storia delle due Germanie. In quei momenti sembrava perfino che la Trabant potesse andare più forte della BMW, che il capitalismo non era il golden path, che Beckenbauer fosse stato defenestrato dal Gotha dei Kapitani di Cermania.  
Fondamentalmente non fu nulla di tutto questo, tant'è che il muro stette al suo posto per ben altri 15 anni, una generazione e mezzo. 
Un bellissimo miracolo inutile.  

Del resto come diceva il teatrante e scrittore Brecht: “Sfortunata la terra che ha bisogno di eroi”, specie se questi stessi eroi non hanno potere sugli esiti delle loro incredibili gesta, e a farne propaganda c'è un qualche Partito Comunista spietato nel bel mezzo della Guerra Fredda.  

Su History Channel ho visto un'intervista a Sparwasser qualche giorno fa. Raccontava che un suo amico, non appena Jurgen segnò, tirò calci alla televisione fino a sfondarla. Aveva intuito che sì, stava assistendo ad una partita dalla portata epocale, ma in cuor suo aveva già previsto quello che sarebbe successo, ossia che la DDR avrebbe tratto il massimo vantaggio pubblicitario da quella vittoria, bombardando la povera e vessata popolazione di reclame filosovietiche, inni alla gioia democratica, sfottò alle potenze occidentali, per settimane e settimane. 
Fu buon profeta: il gol fu infatti sigla dei programmi sportivi per anni.  
Sapete cosa credo io? 
Che ai crucchi di bianco vestiti non interessasse affatto vincere quella partita, e nemmeno pareggiarla; non ho mai pensato che negli spogliatoi si fossero imposti il no pasarán.  
Anzi, delle due, l'una: ho sempre ritenuto che i tedeschi dell'Ovest volessero prendere in giro tutti, volessero farli vincere, quelli vestiti di blu. Come fosse un favore fraterno. Per la serie:”Noi, proprio male che ci vada, alla fine del Campionato del Mondo saremo arrivati secondi. Almeno voi tornate di là dal Muro con questa soddisfazione, che capiscano che siamo uguali, che siete uguali a noi, almeno finché siamo in un campo di calcio”.   

Ho detto che la Germania Ovest era in credito con la storia per aver contribuito a scrivere una straordinaria pagina di football, e mi piace pensare che lo sia stata per questo motivo, per essersi arresa nobilmente ed essersi fatta da parte, per questa cortesia che non trova alcuna prova a suo sostegno né a livello storico né giornalistico, ed è solo un pensiero benigno e fiducioso di chi scrive. Mi piace pensarla in questa maniera anche nel caso in cui, se fosse andata veramente così, fosse stato più danno che utile, peggiore, come paragone, del marito che si taglia i maroni per far dispetto alla moglie.  
Se così fosse però, sarebbe più favolosa questa mia immaginazione della vittoria di Sparwasser. 
In fondo, a meno che non lo chiediamo a Beckenbauer o a Breitner (che una cosa di questo tipo potrebbe averla pensata veramente), chi può dire che non sia andata veramente così?

IO MI RICORDO: ENZO FRANCESCOLI


Ho discusso animatamente con tizio, sere fa, sul perchè il figlio di Monsieur le Football (al secolo Zinedine "Zizou" Zidane) si chiamasse Enzo. Questa mosca da bar era partita in quinta spiegandomi dettagliatamente che quando Zizou stava a Torino aveva fraternizzato con un ristoratore di nome Vincenzo e quindi, in suo onore, aveva battezzato il suo primogenito così. Non Vincenzo ma Enzo, per questioni di intimità. Tutto molto bello.
Come la maggioranza dei discorsi tra sconosciuti che nascono e muoiono nell'attesa di una birra o di un cocktail o di un punch, anche questo poteva tranquillamente finire con una scrollata di spalle, ma io mi ricordo di Enzo Francescoli.


Piccola premessa: quello che adesso chiamano "El Principe" deve il suo soprannome alla clamorosa somiglianza che lo lega a questo autentico fuoriclasse uruguaiano, faccia scavata, naso aquilino e zazzera mora mossa dal vento. E Diego somiglia davvero a Enzo anche per un'altra caratteristica immediatamente riconoscibile, specie su un rettangolo verde: il passo strascicato, quasi da tango, con il quale si muovono in attesa di piazzare la zampata.
Ma sto divagando, perchè non intendo assolutamente scrivere di Milito. Almeno finchè campo.
Enzo Francescoli Uriarte nasce a Montevideo, capitale dell'Urugay, il 12 novembre del 1961.
Adesso dovrebbe cominciare la parte in cui l'enfant prodige viene scartato dalle squadre blasonate della capitale e viene scelto da una sorta di casa-famiglia che funge anche da squadra di pallone, dove mostra tutto il suo talento fino all'esplosione. Beh se vi interessa questa parte della storia ci sono wikipedia e, contate da me, almeno altre 35 pagine sul web (di cui un paio in italiano).
Preferisco invece compiere un balzo in avanti al 1983. C'è un ragazzo uruguaiano che promette bene ed è sul taccuino di parecchie società europee e sudamericane, si chiama Enzo e sopperisce con intelligenza e piedi delicatissimi ad una certa gracilità. Tra gli squadroni che mettono gli occhi su di lui c'è anche il River Plate che, come ciclicamente gli accade, versa in uno stato finanziario pessimo nonostante, come ciclicamente gli accade, venda i suoi pezzi pregiati sul mercato europeo.
Ovviamente i Montevideo Wanderers Fùtbol Club, titolari del cartellino, vorrebbero vendere il loro gioiello al miglior offerente ma Enzo, prima uomo e poi giocatore mai banale, chiarisce le cose: “Io voglio giocare al River, è una grande opportunità per me. So che si tratta di un club elegante, i cui tifosi ammettono solo chi sa giocare, chi ha uno stile definito, chi si fa notare sempre per il suo bel calcio. Per questo sono fiducioso. Credo che il mio stile andrebbe bene nel River Plate”.
Il River lo paga 50.000 dollari cash più altri benefit, utilizzando l'appoggio del Banco di Napoli, che aveva curato il trasferimento di Ramon Diàz (bandiera del River) ai partenopei pochi mesi prima.
Dove c'è qualcosa di poco trasparente, qualche italiano c'è dentro fino al collo: corollario scontato di una tesi verificata da un migliaio d'anni.
La prima stagione è in chiaroscuro perchè oltre all'inevitabile scotto da pagare per l'ambientamento ad un calcio nuovo, per sette partite, causa mancato pagamento degli stipendi, il River manda in campo la primavera. Riportati i giocatori a più miti consigli grazie all'intervento "amichevole" della tifoseria platense, Enzo e il River chiudono la stagione al penultimo posto.
Poi, in quel 1983, arriva la Copa America.
Vorrei aprire un piccola parentesi su questa competizione e cercare di capire perchè non possa essere svolta a cadenze regolari, ma credo che sarebbe una mancanza di rispetto per gli ultimi pasionari del calcio che mantengono ancora la guasconeria di potersi permettere di organizzare il torneo più importante del loro continente quando e come cazzo pare a loro. Una cosa un po' leghista, da "padroni a casa nostra", se ci pensate.
L'Uruguay è a bocca asciutta da 16 anni e, per farla breve, vince il trofeo. La formula è cervellotica come di consueto e la finale si gioca con partite di andata e ritorno. Enzo mette la sua firma nel 2-0 dell'andata con una delle sue classiche punizioni che colpiscono il portiere proprio sul suo palo.


Il morale torna alto e, in due stagioni, segna 49 reti in 67 partite, riportando, nella stagione 1985-86 e dopo 5 anni, il River sul tetto d'Argentina.
Una curiosità. Prima del trionfo nel Campionato Argentino, Boca e River affrontano la Polonia in un triangolare amichevole in ottica Mundial '86. River Plate-Polonia finisce 5-4. A una decina di minuti dal termine i polacchi conducono 4-2 ma Francescoli prima e Centuriòn poi pareggiano i conti. Guardatevi il video e vedrete il gol del 5-4. Indovinate chi lo segna?


Fino qui, si direbbe, tutto bene. Enzo ha 24 anni è un dio in Uruguay e un semi-dio (ma solo perchè il River non è "l'America") in Argentina, perchè mai dovrebbe muoversi?
E invece "El Principe" decide, anche sotto la spinta di un bel pacco di franchi francesi, di trasferirsi a Parigi al Racing Club de France.
Dopo il disastroso mondiale del 1986 (due pareggi e una sconfitta 6-1 con la Danimarca), Enzo comincia l'avventura che lo segnerà maggiormente. Lo segnerà da un punto di vista tattico, poichè l'Europa non è il Sudamerica e i nove e mezzo sono mal tollerati da allenatori esigenti che digeriscono lo spettacolo come i tori digeriscono i drappi rossi. Enzo gioca a tutto campo, diventa la stella assoluta della squadra e del campionato francese e si accasa, nell'annus domini 1989 (dopo aver vinto una seconda Copa America nel 1987) all'Olympique Marsiglia, una società ambiziosa in ascesa costante nel panorama d'oltralpe.
Rientro brevemente sul motivo scatenante di questo post. Ad osservare gli allenamenti di quell'OM c'è sempre un ragazzino di origine algerine che viene stregato dalla classe e dai movimenti del ragazzo di Montevideo. Quel ragazzino diventerà Zinedine Zidane. E così la mosca da bar è sistemata.
Ma torniamo a Enzo che si presenta ai Mondiali italiani con un titolo francese vinto da protagonista assoluto e una finale di Coppa dei Campioni persa a causa di una rapina a mano armata compiuta dall'arbitro e dal Benfica. L'Uruguay e Enzo deludono ai mondiali, schiacciati dalle aspettative, dall'ottusità dell'allenatore e dall'Italia di Totò Schillaci negli ottavi di finale. Nell'estate del 1990 Francescoli passa al Cagliari insieme ai compagni di nazionale Daniel Fonseca e Josè Herrera. "Questo è matto" è il commento più morbido nei confronti della scelta del "Principe", ma lui spiegherà poi " Volevo verificarmi nel ‘campionato dei sogni’, anche inserito in una formazione qualsiasi. E così ho lasciato Marsiglia senza perplessità. Cambiavo vita. Andavo a lottare, stanco dei giudizi di troppa gente. Sì, perchè tanto nel River Plate quanto in quattro stagioni d’Europa sono stato etichettato sempre nello stesso modo. Ripetevano che ero discontinuo, poco potente, poco al servizio dei compagni, poco socievole, molto egoista”. Uno così, dico io, non è matto è un uomo che ha capito lo spirito del suo mestiere. Uno che ha capito tutto. Francescoli, come d'altronde la squadra sarda, non ingrana e mette a dura prova la pazienza dei tifosi rossoblù. Ma Mister Claudio Ranieri crede ciecamente in lui, insiste contro tutto e contro tutti e, a fine stagione, mentre la Genova che conta festeggerà il primo indimenticabile tricolore, riuscirà incredibilmente a salvarsi. Enzo, per trovare spazi e sfruttare la sua intelighenzia calcistica, si sposta qualche metro più indietro e comincia ad agire da 10 classico. L'anno dopo a Cagliari arriva Carlo Mazzone, un allenatore e un uomo che con i fuoriclasse ci va a nozze. Enzo sente immediatamente il feeling e alla prima giornata, contro i neo campioni d'Italia, mette a segno una doppietta. Il primo su calcio di rigore, sintomo della leadership che si è costruito, e il secondo così:


È tornato l'Enzino che segna 17 goal in due stagioni e trascina, nella stagione 1992-1993, il Cagliari ad uno storico piazzamento Uefa. Poi, lasciando un pezzo di cuore ma rimanendo fedele all'uomo e al giocatore dissimile da quello che gli gira intorno, si accasa a Torino. Non nella squadra di Gianni Agnelli, che a fine anni '80 avrebbe fatto carte false per averlo, ma per i ragazzi della Maratona, per gli occhi lucidi di chi ricorda Superga, per il Toro. In una stagione da non buttare, semifinali in Coppa Italia e quarti di finale in Uefa, Enzo comincia a sentire il peso degli acciacchi e dell'età. 24 presenze, 3 gol, svariati assist e la presa di coscienza che è arrivato il momento di mantenere una promessa fatta otto anni prima: chiudere nel River Plate, il club del suo cuore. Chiude la sua parabola segnando altri 47 goals e portando il River a vincere 3 campionati Apertura (nel frattempo era cambiata la formula del campionato argentino, perchè, come ho scritto sopra, bisogna capire che laggiù hanno ancora la possibilità di fare un po' come vogliono), un Clausura, una Copa Libertadores, una Supercopa Sudamericana e aver messo in seria crisi la Juventus di Lippi nella finale di Intercontinentale nel 1996. Segna l'ultimo gol al Colon di Santa Fè, su assist di quel mezzo giocatore che si rivelerà Santiago Solari, con un colpo di testa bello ed elegante, ultima foto che ben riassume la sua carriera.


"Non sarà il calcio a lasciarmi, non mi troverà seduto. Sai che cosa? Quando arriverà quel giorno, l’unica cosa che vorrei è che dicessero: Che gran giocatore, sì, ma che bella persona! Che Beto Alonso possa dire ai suoi figli: Io ho giocato con Francescoli e non sapete che gran tipo che era. Che quando tra trent’anni m’incontrerò per la strada con Gallego o Pumpido possa salutare entrambi con un abbraccio. Perché, in definitiva, più che l’immagine e l’insegnamento calcistico che uno può lasciare a qualche bambino –poca cosa-, la cosa fondamentale è il comportamento come persona. Perché non esiste solo il calcio. Bisogna preparare la mente per saper dare un consiglio e l’animo per essere una buona persona". Enzo Francescoli

P.S. Per la stesura di questo post, fondamentale si è rivelato chi di Enzo ha già parlato in maniera molto bella ed esauriente. Quindi vi invito a buttare un occhio al sito/blog Lacrime di Borghetti ed in particolare a questi due articoli: 1 e 2.

QUESTIONE DI SOPRANNOMI

Tre sono i requisiti che occorre soddisfare, in pieno o almeno in buona parte, affinché un giocatore diventi memorabile, o che, se non altro, lo diventi almeno per me.

Punto primo. Occorre che sia stato un guascone dal piede scanzonato, dalla chioma folta e mescalera, e dalla lingua lunga, quella lingua che taglia, cuce e fa l'orlo a giorno. 
Punto secondo. È importante che sia stato un Signor giocatore o, per dirla con Righe Sacchi:"Un calciatore", nella vera accezione del termine, ossia quella che rende implicito qualsiasi altro aggettivo di enlarge-your-penis della capacità pedatoria. Il giocatore gioca a pallone; il calciatore ne è artefice, un demiurgo del gioco. Pressapoco è la stessa differenza che corre tra chi viene chiamato a fare numero per la partitella del torneo aziendale del giovedì, e chi non ti puoi dimenticare di invitare al tuo matrimonio. 
Punto terzo. Il Nostro deve avere un nome ed un cognome la cui pronuncia riempia la bocca del cronista di turno e degli spettatori tutti. Se poi il cognome è un insolito composto di due termini, siamo a dama.


"Quando giocavo a calcio dicevano che assomigliassi a Re Cecconi! Ma tu sei troppo giovane, non lo avrai mai visto. Non saprai nemmeno chi sia", mi diceva sempre il factotum di un azienda per cui ho lavorato anni fa, mentre, dopo aver finto una gomitata, mi faceva pagare la mossa al solo accenno di guardia che alzavo istintivamente. Al tempo non avevo inteso quale fosse la strampalata correlazione tra Luciano Re Cecconi e il-paga-la-mossa.
Ogni volta che me lo ripeteva era come se mi sentissi privato in partenza di un fondamentale passaggio della storia pallonara d'Italia, l'unica storia fatta tanto certa dagli annali, quanto rivedibile dalle opinioni di ogni bar del Belpaese Unito.
A mia discolpa avevo l'unica attenuante all'ignoranza: il tempo calcistico che non avevo visto o vissuto.
Luciano Re Cecconi era del '48 e avrebbe giocato i campionati di venti stagioni più tardi, e io negli anni di Piombo non ero nemmeno un progetto erotico di mio padre, che nemmeno conosceva mia madre e, quel che è peggio, girava conciato come Renato Vallanzasca (o forse era stato proprio il Bel René ad aver copiato mio padre); ma questa è un'altra storia.
Ad ogni buon modo mi ha sempre infastidito sentire i vecchi parlare di giocatori estranei al mio tempo: anche se li avessi conosciuti di fama o per sentito dire, rimaneva il fatto che non li avessi mai visti in manovra, mai maledetti da avversari, mai seguiti se beniamini della mia squadra, e non li avessi mai, infine, condonati e redenti quando bardati di azzurro savoia in un qualche spaventoso stadio straniero, indio, teutonico o sovietico.
Più intenso ancora diveniva il mio sentimento di privazione quando quei giocatori erano entrati nella Leggenda per aver combinato qualcosa di unico, di straordinario rispetto al calcio, qualcosa che solo lo spettatore che baratta la carriera di curvaiolo o la tessera arci del bar di paese con ogni momento di libera uscita da mogli, compagne e amiche, può capire e, soprattutto, sentire come suo.
Tutti gli altri possono o potranno farsela raccontare, o leggerla su Wikipedia.
Non è né sarà la stessa cosa.

Il factotum, un uomo sulla cinquantina di nome Pietro, era la risposta del settore alimentare di Castelvetro a Re Cecconi. Una risposta dalla cadenza marcatamente umbra sporcata da qualche inflessione (ahimè) bolognese, dalla pancetta da italiano ben più che medio e dalla calvizie galoppante. Per fisionomia un sosia solo un po' più alto di Carlo Verdone.
Comunque fosse: una risposta postuma, purtroppo.
Probabilmente gli amici che avevano avvistato in lui una parvenza di Re Cecconi o erano ciechi, o seguivano un altro sport, o addirittura altri pianeti di intrattenimento, e avrebbero potuto paragonarlo a chiunque: a Pelé, a Simon Templar, a Pippobaudo, un qualsiasi nome ricorrente del tempo.
Oppure erano stati incredibilmente lucidi, e avevano colto in Pietro quell'intramontabile voglia di restare il compagnone ridanciano e naif che era stato fin da bambino, capace di scherzare di ogni cosa e, di contro, lasciarsi travolgere dall'istinto per la più insulsa delle sciocchezze.
Proprio come il ragazzo di Nerviano che, tra un campionato vinto ed uno perso di niente, aveva fatto di una Roma violenta e intimorita dal buio il parco giochi personale suo e dei compagni di squadra, stessa cosa aveva fatto Pietro, trasformando un ambiente di lavoro frenetico, stressante e detestante, in un'oasi di divertimento cameratesco, dove i colleghi erano amici, sottoposti o responsabili che fossero.

La Lazio con cui vinse lo Scudetto del '74 era una combriccola di prime donne, spaccaspogliatoi di professione e instancabili portatori d'acqua, guidati da uno dei vecchi grandi condottieri del calcio italiano, Maestrelli.
Sì, perché non vinci un campionato a Roma a meno che tu non abbia undici amorevoli teste di cazzo che sanno tirare calci al pallone e hanno una vaga idea di a cosa servano le linee bianche sparse qua e là, che sappiano insomma sia cantare che portare la croce (e non propriamente in quest'ordine).
Gente irrequieta ma di buon cuore, insomma: dura ma spensierata.

Mai soprannome fu più azzeccato per lui, il fu-carrozzaio di Nevriano, l'italo-svevo del pallone: Cecconetzer, gioco di parole che richiamava il cognome del centrocampista italiano e quello del crucco Gunther Netzer, un unno che ricordava Luciano non solo per i capelli biondo-ariani, ma anche per la fisionomia rude e coriacea, e per i modi ostinati e grintosi.
Telaio tedesco e improvvisazione italiana, se così si può dire (un po' "quel paga la mossa" di cui sopra, ti tiro un pugno e nel frattempo ti faccio ridere: ok, grazie!)

Una volta ho letto da qualche parte che gli stolti s'affrettano ad arrivare laddove nemmeno gli angeli oserebbero mettere piede. E purtroppo Luciano degli angeli aveva solo i capelli.
Cecco quel giorno dimenticò d'essere Netzer, si spogliò della corazza di mediano vecchio stampo e sbagliò indirizzo per manifesta spensieratezza, per ingenua spacconeria, e invece che riparare -per l'ennesima volta nella sua carriera di guascone- nel paradisiaco mondo dei casini schivati, si ritrovò freddato dal gioielliere Tabocchini.
"Datemi tutto, questa è una rapina!", aveva esordito una volta dentro la gioielleria, convinto che il commerciante, come tanti che prima di lui erano stati allo stesso modo scherzati da Luciano e compagni, s'accorgesse dell'enorme burla, e passasse dall'improvviso spavento per aver visto un uomo camuffato, alla sonora risata dopo aver riconosciuto dietro al bavero alzato il noto centrocampista laziale.
Re Cecconi e i suoi avevano però scelto l'uomo, il posto e il momento sbagliati.
Tabocchini non seguiva il calcio, forse l'unico romano mai esistito a poterlo dire, ed era già stato rapinato altre volte e chissà, forse come tanti altri commercianti lavorava con addosso quel terrore che non aveva mai toccato minimamente il biondo Luciano, troppo occupato a far della sua vita capitolina un'enorme gioco di quartiere.

Una storia incredibile, di quelle che varrebbe la pena ricordare e tramandare, così da rispondere con un solerte: "invece so chi è!" alla provocazione del factotum di Castelvetro circa l'ignoranza in materia. Ma questi racconti sono file troppo pesanti per essere scaricati, salvati e passati, e l'amore per il lieto fine e l'obbligo di chiosare con morali cinematografiche americane ci ha imposto di tacere le avventure rovinose in cui i buoni non vincono e, quel che è peggio, dei cattivi non viene accertata la colpa.

In uno dei suoi libri Paolo Sorrentino ha scritto:"Perché questo è il gioco. Bisogna comprendere gli altri anche nel momento in cui ti stanno uccidendo. Senza mai sottovalutare la forza sbilenca dell'ironia."
Come paragone ci siamo, una forza fin troppo sbilenca se vogliamo, tale da rivoltarsi e tornare indietro, ma il senso rimane. Il libro si intitola, e senza volerlo calza a pennello, "Hanno tutti ragione", bellamente in barba, come se ce ne fosse bisogno, al concetto di happy ending di cui sopra.

Re Cecconi aveva trasformato inusuali cavalcate-scudetto biancocelesti in partitelle scapoli-ammogliati da dopolavoro, ossia classiche sfide alla morte in cui sfoderare gomitate a oltranza e a oltraggio di ogni avversario, per poi uscirci assieme, riderne e scherzarne. E aveva reso Roma la sua Nevriano, la sua piccola città di provincia dove essere qualcuno senza essere nessuno in particolare se non un Ariano trapiantato all'Olimpico, e nessuno pur essendo qualcuno, perché uno qualunque, uno da bar, diffidato dalla moglie.
Un tipo di calcio così, oggi, farebbe notizia.
Forse gli amici di Pietro il factotum non erano ciechi, anzi: mai e poi mai avrebbero avuto di nuovo un occhio così lucido, critico e lungimirante.
Finte e alzate di gomito, rimbrotti e sorrisi generosi distribuiti in equamente fanno uguale notizia in un mondo del lavoro, come quello odierno, dove tutto è pianificato, rigido, dove perfino una strigliata arriva al mittente dall'ufficio accanto tramite una mail informale e asettica contornata da distinti saluti.

Di mille partitelle che ho giocato, ho conosciuto scapoli, ammogliati, ubriaconi fenomeni, ubriaconi e basta, mezzeseghe, promesse mancate, promesse mantenute solo a metà, tutta gente dai soprannomi più bizzarri.

Tra i miei compagni ho l'onore di aver avuto: Fascianu, Baggio, Zanetti, nientemeno che Essien.
Posso dire di aver randellato Boban, Savicevic, Mazzola, addirittura Maradona. 
Purtroppo ho solo sentito parlare del Baresi di Formigine, del Crujiff di Reggio Emilia, del Lampard della Padania, del Cantona delle nebbie ferraresi.
Solo una volta ho conosciuto, e fuori da un rettangolo di gioco (perché era proprio lì che andava imparata la lezione), uno che fosse stato ribattezzato honoris causa e, per una volta, non a caso.
È stata l'unica volta in cui ci hanno preso. 

 
Era Pietro, il factotum di Castelvetro, quello che assomigliava a Re Cecconi nonostante non gli assomigliasse per niente.

PREBEN ELKJAER, IL SINDACO

Campionato Italiano, stagione 1984-1985.
Mentre l'Italia guarda incuriosita l'arrivo a Napoli di un campione proveniente da Barcellona, tal Diego Armando Maradona, nell'industrioso Veneto degli spritz arriva dalla squadra belga del Lokeren un centravanti straripante: Preben Elkjaer Larsen. Straripante sia dal punto di vista fisico che dal punto di vista umano. Accanito fumatore e bevitore più che saltuario, ci mette un attimo a diventare l'idolo dei "butei" gialloblù. Preben è uno che non si risparmia, che dà tutto, che lotta come se ogni pallone che gli ronza intorno fosse l'ultimo.


"Elkjaer Sindaco!" è il grido che dopo poche partite comincia a riecheggiare all'interno del Bentegodi, perchè Preben è un delantero che sembra costruito per far godere le curve di tutto il mondo.
Alla guida di quella squadra che verrà ricordata come il Verona dei Miracoli, c'è un altro personaggio particolare: el Siòr Osvaldo Bagnoli from Bovisa. Un uomo tutto d'un pezzo che parla poco, urla ancora meno, ma che ha la stima del gruppo e l'autorevolezza necessaria per mantenere tutti coi piedi per terra. Nella rosa del Verona ci sono altri personaggi che, a modo loro, sono entrati nella storia del calcio nostrano e non: Garellik e le sue parate "a cazzo di cane", Nanu Galderisi il centravanti più basso che l'Europa ricordi, il terzino Briegel che, gettandosi continuamente all'attacco e segnando 9 goals nove,ha aperto la strada alla definizione di fluidificante difensivo oggi tanto cara ai soloni di questo sport, poi Pierino Fanna, Antonio Di Gennaro (che, a mio avviso, si è guadagnato un posto da opinionista a Sky solo grazie a quello scudetto) e i senatori della difesa Tricella e Ferroni.
Ma torniamo a Preben. 183 cm di potenza, istinto e (parole che se pronunciate in quegli anni avrebbero provocato un pelino di polemiche) lotta continua che portano in dote al Verona anche una Bundesliga e una Coppa di Germania vinte con il Colonia nel 1978.
Elkjaer non ingrana immediatamente segnando un solo gol nelle prime quattro partite, tra l'altro in trasferta sul campo dell'Ascoli di un certo Sor Carletto Mazzone.
Poi arriva il 14 ottobre 1984 e al "Bentegodi" si presenta la Juventus. La Vecchia Signora di Scirea, Tardelli, Zibì Boniek e Pablito Rossi.
In quel tempo le vittorie valevano due punti e il Verona di punti, dopo 4 partite, ne aveva sette. Vittorie in casa con Napoli (il Napoli di Maradona) e Udinese, vittoria esterna contro l'Ascoli e pareggio a San Siro contro l'Inter di Rumenigge.
Ma torniamo al 14 ottobre: Verona-Juventus.
Primo tempo soporifero con un leggero predominio dei padroni di casa, poi nel secondo tempo succede l'impensabile. Where the magic happens direbbero oltreoceano, ma io preferisco la teoria del "tuo" momento. La teoria del "tuo" momento prevede che quando una cosa deve riuscirti, ti riesce anche se tutto quello che c'è intorno a te vuole e desidera e si muove per far avvenire l'opposto.
La Juve del Trap viene castigata da Nanu Galderisi. Tutto normale si potrebbe pensare. Ma Nanu Galderisi segna di testa su cross di Pierino Fanna, un gol confezionato da due ex dal dente avvelenato. Galderisi, 168 cm, che segna di testa: quello è l'anno del Verona.
Ma il bello deve ancora arrivare. Venti minuti dopo, su un calcio di rinvio battuto da Tricella (e non dal portiere come accade quasi sempre), il pallone giunge a Preben poco oltre la linea di metà campo. Preben parte a testa bassa, punta Stefano Pioli che prova a stenderlo con l'unico risultato di far perdere al "Sindaco" la scarpa destra. Elkjaer sembra non accorgersene e continua la sua progressione vichinga verso l'area juventina, salta facile Favero e uccella Tacconi sul palo più lontano. 2-0.
La storia d'amore tra Verona e il vichingo dalla Marlboro facile comincia lì e non finisce più.
A fine anno il Verona sarà Tricolore e un nuovo sindaco verrà inserito nella cronistoria della città di Giulietta e Romeo.


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