SAI CHI TI SALUTA UN CASINO?


Riflettevo sul fatto che mai mi sarei aspettato, vivendo in una delle capitali del Regno Unito (Cardiff, ndr), che il rock'n'roll fosse morto e sepolto. Bighellonando tra pub, clubs, presunte discoteche ed affermati night-clubs mi struggo un pò perché la dubstep mi fa sostanzialmente cagare e di Rihanna ne ho le scatole piene dai tempi di 'Pon de replay', uscito nell'anno del signore 2005. Nei miei sogni più sfrenati mi immaginavo impezzarmi tra una pinta e un'altra e un'altra ancora con giovani e meno giovani a proposito di Clash, Zeppelin, Blur e quant'altro. E invece mi trovo catapultato in scorrerie notturne i cui unici comuni denominatori sono ragazze stratosbronze che camminano scalze con le scarpe col tacco in mano e un cinquantenne pelato, anch'egli sotto l'effetto inebriante di un centinaio di pinte, che infesta il centro della città (dopo le 2 a.m. lo potete trovare in ogni vicolo, ha il dono dell'ubiquità) suonando sempre e solo Wonderwall degli Oasis. La cosa divertente è che ad ogni esecuzione cambia la combriccola che si "accalca" attorno a lui, facendogli presumibilmente dimenticare che sta suonando lo stesso pezzo da almeno due ore. Praticamente una versione maschile di Drew Barrymore in "50 volte il primo bacio", che però perde la memoria ogni 4 minuti e 18 secondi invece che ogni notte.


Quindi di base rientro a casa sempre un pò spaesato e, prima di addormentarmi, scelgo con cura un album che mi rifocilli l'anima prima di tutto. Vedendo riflessa allo specchio la mia maglietta che ritrae Joe Strummer distruggere una chitarra**, gentile presente di Paolo Gianaroli in ricordo di un suo viaggio a Londra, stasera non ho dubbi. Via di 'London Calling' e buonanotte ai suonatori.


Fa sorridere o forse fa solo nostalgia nostalgia canaglia pensare che qualcosa del 1979 possa ancora avere una valenza così pesante nella mia cultura (io che del 1979 sono nato postumo) e nella vita di tanti in genere. Così parto di viaggioni e fantastico su quell'anno lì. Tra un trip e l'altro mi ricordo di un aneddoto letto chissà dove e forse nemmeno verificato: la neve nel deserto. Immediatamente penso 'forse è solo suggestione o paura di chissà che', poi decido di andare in cerca di certezze o smentite sul web. E le sinapsi saltano che è un piacere.
Per cui, tornando a bomba, nel 1979 succedono cose esilaranti. E una, inspiegabilmente, me la ricordavo: il 18 febbraio nevica, per trenta minuti, nel deserto del Sahara. Ora, siccome so che non vi fidate, vi concedo i cinque minuti canonici per controllare se quella che ho appena scritto è una minchiata o la verità. E nel frattempo metto un pezzo a tema.


Avendo appurato che non scrivo fesserie, vi dico che nello stesso periodo in Italia prendeva vita il quinto governo Andreotti che regalava soddisfazioni soprattutto a gente dalla lupara facile. E', giuridicamente parlando, il penultimo anno in cui Andreotti è associato a Cosa Nostra. Reato che è andato prescritto, ovvero che è stato commesso ma sul quale non si può procedere poiché i termini giuridici per procedere sono scaduti. Per ulteriori informazioni chiedere a Mino Pecorelli, freddato proprio nel giorno dell'insediamento del suddetto esecutivo. Nel frattempo all'opposizione i socialisti facevano il diavolo a quattro con un certo Fabrizio Cicchitto in prima linea. Se non conoscete le storie di Mino Pecorelli e Fabrizio Cicchitto, consiglio un breve salto su wikipedia per capire meglio certe dinamiche tutte italiane. E già che ci siete consiglio la visione de "Il Divo" mirabolante film di Paolo Sorrentino (più presente in questo presunto blog calcistico che in qualsiasi altro blog di settore) sulla spettacolare vita del buon Giulio nostro.


In quel 1979, per un altro simpatico gioco del destino, prendeva il potere in Inghilterra Margaret 'The Iron Lady' Thatcher e veniva trovato senza vita in quel di New York il corpo di Sid Vicious. Che se ci si pensa un attimo è una coincidenza più allucinante della neve nel Sahara. Ma meno allucinante dell'omicidio di un giornalista che aveva osato sputtanare la Democrazia Cristiana nella persona del suo esponente più conosciuto. Da qui potrei partire con una sbabbelata intensa ed accorata, andando a rivangare avvenimenti, casi strani, compagnie vergognose che hanno caratterizzato l'Italia fino all'esplosione di 'Mani Pulite'. Ma un pò perché non voglio perdermi in strali senza alcun significato calcistico e un pò perché Travaglio (come l'Alice di Scorsese) non abita più qui, rientro in topic e vi faccio presente che il 23 marzo dello stesso anno di cui pontificato sopra (1979) nasce il protagonista dei questa buffa buffa storia. A Douala, profondo sud ovest di quella terra benedetta dagli dei del pallone e non solo chiamata Camerun, nasce Pierre Nlend Womé. Qualcuno lo conosce di sicuro, forse Lupo (al secolo Matteo Landi) o Denny (al secolo Marco Landi) addirittura di persona.

lo sguardo di chi ne ha viste tante, la fissità di chi ha capito poco

Pierre Womé gioca come terzino sinistro sin dai tempi dell'asilo e sbarca in Italia poco più che sedicenne (o almeno così recitava il retro di una carta di caramella che fungeva da passaporto) nel 1996. Approda al Vicenza delle meraviglie, quello della Coppa Italia, di Guidolin e di Pasquale Luiso, ma gioca poco. Solo tre partite che gli fanno prendere in considrazione l'idea di fare un pò di gavetta nelle serie inferiori. Così, nella stagione successiva, Pierre, inspiegabilmente già da mò nel giro della nazionale maggiore del suo paese, si accasa a Lucca dove conquista una tranquilla salvezza nella serie cadetta. Non ci sarebbe nulla di eccezionale, senonchè per i mondiali che si disputano in Francia proprio quell'estate Pierre (che giovi ricordarlo è titolare in una bassa squadra della serie B italiana) oltre ad essere convocato è anche titolare sostanzialmente inamovibile. Ovviamente le sue quotazioni salgono e c'è una specie gara al rialzo per averlo. Franco Sensi alza la voce e, visto che la prima gallina che canta fa sempre l'uovo, la Roma rimane abbagliata, se l'accatta e lo mette a disposizione di Zdenek Zeman. A Roma, nella stagione 1998-1999, gioca 8 partite 8 lasciando sempre il segno. Solo che è il segno - (meno). Una per tutte: 29 novembre 1998, derby Lazio-Roma. La partita finisce 3-3 con il buon Pierre che procura, con una dabbenaggine da seconda categoria, il rigore del momentaneo 3-1 per i biancocelesti travolgendo Salas (che poi lo trasformerà) in area come l'uragano Sandy ha travolto New York. Ci penseranno poi Eusebio di Francesco ed 'Er Pupone' a rimettere i giallorossi in carreggiata e ad evitare a Wome una solenne contestazione. Ovviamente in estate il nostro cambia aria e si trasferisce a Bologna. Qui rimane tre stagioni vivendo tutta l'epopea di Francesco Guidolin, culminata nella stagione 2001-2002 con l'accesso alla Champions League sfumato solo all'ultima giornata; tra l'altro per mano del Brescia dei grandi ex Carlo Mazzone e Roberto Baggio che grazie a quei tre punti si salvò per il rotto della cuffia. C'è da dire che al termine della prima stagione rossoblù, estate del 2000, il Camerun vince la medaglia d'oro alle olimpiadi organizzate a Sidney battendo in semifinale il Brasile di Ronaldinho e in finale la Spagna dei futuri campioni di tutto ai calci di rigore. Guardate un pò chi, dopo Patrick M'Boma e Samuel Eto'o, calcia quello decisivo...


Ma la storia ci insegna che chi di rigore ferisce di rigore perisce...
Così Wome dopo Bologna, fa una capatina in Inghilterra (Londra, sponda Fulham) e Spagna (Barcellona, sponda Espanyol) senza lasciare tracce considerevoli per poi tornare nella stagione 2004-2005 in Italia. Il ragazzo di Douala si accasa al Brescia, ma è un Brescia orfano di Baggio in cui il presidente Corioni decide, a stagione in corso, di puntare su Alberto Cavasin per salvarsi. Ovviamente le cose vanno male, conoscendo Cavasin non poteva andare diversamente, e le rondinelle retrocedono nonostante le sedici presenze e le tre reti di Wome. Chi mai vorrebbe un terzino poco impiegato in una squadra appena retrocessa? Risposta semplicissima: l'F.C. Internazionale di Milano. Incredibile ma vero, Pierre Womé si accasa nella squadra del biscione e partecipa marginalmente alla conquista del quattordicesimo scudetto nerazzurro; quello che, dai più, è conosciuto come "lo scudetto di cartone". Partecipa marginalmente perché il più delle volte Roberto Mancini gli preferisce Favalli, ma quando gioca Pierre è sempre in grado di farsi valere e di dare il suo contributo. Chiedete a David Balleri, per esempio.


Ma, dicevo prima, che 11 metri sono troppo pochi per separare la gloria dal fallimento. Ma non saranno mai abbastanza per Pierre Womé.
Siamo in autunno, l'anno è il 2005, il mese è ottobre e il giorno è l'8, un sabato a volerla dire tutta. Si gioca l'ultima giornata delle qualificazioni africane per la Coppa del Mondo che si sarebbe svolta l'estate successiva in Germania. Il Camerun ha appena colmato il gap con la Costa d'Avorio, unica avversaria frapposta fra i 'leoni indomabili' e l'evento in terra crucca, andando a vincere 3-2 proprio a casa dei diretti rivali. Ora serve una vittoria interna contro il mai irresistibile Egitto e il gioco sarebbe fatto. Il Camerun sblocca dopo appena 20' e si mette a gestire la gara. Se c'è una cosa che il calcio ci ha insegnato è che gli africani non sono mai stati i primi della classe nella gestione di situazioni apparentemente semplici. Così, a forza di rinculare, i verdi di Yaoundè beccano il pareggio a 11 minuti dal termine. Tutto da rifare, Germania più lontana e disperazione che trasuda dalle magliette dei ragazzi del Camerun. Ma arrendersi è una parola che nel vocabolario nero non esiste, per cui tutti in avanti nella speranza che qualcosa succeda. E qualcosa, al quinto ed ultimo minuto di recupero, succede. Calcio di rigore in favore dei padroni di casa. L'equazione è presto fatta: Gol=mondiale ; non gol=stare a casa. Sul dischetto si presenta il più blasonato dei camerunensi, Samuel Eto'o, pronto a far esplodere la festa. Ma, ad un certo punto/ad un punto certo, arriva Pierre Womé. Forse per fare lo 'sborone' o forse perchè ci credeva davvero, parlotta con Samuel e gli sottrae il pallone. Lo vuol tirare lui. "Avevo già sistemato il pallone e stavo per batterlo io quel rigore - confessò l'allora attaccante del Barcellona - ma Wome è venuto lì e mi ha detto che si sentiva sicuro di segnarlo."
Come mi diceva spesso mio nonno, la sicurezza e la sventura si seguono come il lampo e il tuono, per cui il rigore della vita non entra ma va a sbattere sulla base del palo. Camerun a casa e Costa d'Avorio in Germania.


C'è da dire che i tifosi del Camerun la prendono in ridere e dimostrano di non essere rancorosi nè vendicativi. Così i ragazzi seguono Pierre fino a casa dei suoi genitori e, appena si accorgono di essere un numero corposo, decidono di entrare per spiegare a Womé e alla sua famiglia come la vedono. La famiglia riesce a fuggire appena prima dell'inzio del saccheggio e della distruzione. "Si fermeranno qui" pensano, illusi, i componenti della famiglia Womé. Ma non è così. Infatti nella notte di Yaoundè comincia un rastrellamento strada per strada, casa per casa per trovare 'l'oggetto del desiderio' camerunense. Non si salva nessuno. La macchina di Wome viene ridotta peggio di una canzone di Gaber coverizzata da Marco Mengoni, il negozio della sua fidanzata conosce la furia distruttrice del fuoco e di una folla inferocita, tutto ciò che ha a che fare con lui viene arso e distrutto. Per scamparla, il nostro, viene piazzato nottetempo, come in una favolosa storia di spionaggio, su un volo che lo avrebbe riportato in Europa e che, a posteriori, gli ha decisamente salvato la pelle.

'na roba così, tipo

Per il solito gioco del destino Pierre passa gli ultimi anni della sua carriera in Germania (proprio nel paese ospitante del mondiale mancato dal Camerun a causa sua) tra Werder Brema e Colonia non segnalandosi per particolari errori o gesti d'eroismo.
La sua eredità rimane comunque unica ed indivisibile: da quell'otto di ottobre la famosa frase "Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore" assume contorni molto meno rassicuranti. Ora tutti i Nino del mondo, quando vanno sul dischetto, un pò di paura ce l'hanno. E tutto questo grazie a Pierre Womé, terzino tendenzialmente scarso ma dal cuore coraggioso.

**"Santu, a voler fare i pignoli c'è un errore!Nell'immaginario collettivo di tutti è Joe Strummer che spacca una chitarra, ma in realtà è Paul Simonon che spacca il basso!"
Simone 'Zeman' Ferrari


CHI UN PO' DI PIU, CHI UN PO' DI MENO: TUTTI, TUTTI COMPLETAMENTE PAZZI - VOLUME 1

"Giuravo che avrei fatto il portiere, era l'unico a differenziarsi.
Pensavo che non fosse della squadra, era vestito meglio e stava fermo.
Quando sono fermo è perché ho qualcosa in mente."

(Sono=Sono - Bluvertigo)


Stavo scrivendo tutt'altro, poi, per facilitare l'ispirazione, ho messo su un po' di musica così da sfruttarne i testi, copincollare qualche bella parola direttamente nell'articolo da redarre (sempre perché come dice il Serrino di Spezzangels “Zeman è solo bravo a lanciare mode che qualcun altro ha già lanciato"). Tutto ad un tratto è cominciata la canzone di cui le lyrics sopra, per cui ho mollato "armi e ritagli" e mi son dedicato ai portieri, categoria che già trova diversi rappresentanti degni di attenzione all'interno della nostra corte: Trautmann, Duckadam Seba Rossi, Goicoechea... ma che ancora mi/ci permette di estrarre parecchi conigli dal cilindro delle sorprese, tale è ricco il calcio di autentici fenomeni da baraccone "relegati" inter palos.

Morgan diceva bene: il portiere è davvero l'unico a differenziarsi. Forse portieri si nasce, forse ci si diventa, forse si è costretti ad esserlo quando al campetto arriva il bullo del quartiere a intimare che:"tu giochi in porta perché fuori fai schifo al cazzo".
Eppure il portiere è un'altra entità, sembra davvero che non faccia parte della squadra, che viva in una dimensione tutta sua, da solo in mezzo a tutti.
Si potrebbe addirittura cercare un risvolto poetico e pensare, che ne so, che i portieri siano la metafora dell'uomo che sogna di volare, o che siano l'emblema della solitudine... fanculo! Per me il ruolo di portiere è forse l'ultimo porto franco rimasto nel mondo del calcio a garanzia della diversità umana. Molti portieri sembrano essere nati da madri disgraziate, altri sono irascibili, ad alcuni più che mancare un giovedì sembra che manchino delle intere settimane. Ma non finisce qui: ci sono portieri che andrebbero ricoverati in una clinica per malati di mente e altri andrebbero arrestati dalla buoncostume causa gli abbigliamenti di pessimo gusto (in quel senso Morgan aveva torto), insomma, sono tutti, chi un po' di più, chi un po' di meno: tutti, tutti completamente pazzi.


01. ED DE GOEIJ: IL MOSCHETTIERE SPENNACCHIATO


Eduardo Franciscus De Goeij Indossava una casacca a media via tra il pigiama di una morosa freddolosa e la tuta spaziale degli astronauti sovietici della MIR.
Lo sponsor AUTOGLASS peggiorava ulteriormente la situazione trasformandolo nel classico panzone scorreggione raccattato alla bene meglio per il torneo estivo del dopolavoro, il personaggio cui, tanto per capirci, ci si riferisce apostrofandolo con un:"Vabbè, bella grazia che venga a giocare con noi in porta. Ha una moglie orrenda, due figli sfigati, un lavoro di merda. Ed è pure senza amici: almeno non prendiamolo per il culo".

A qualsiasi età dimostrava 45 anni, e non fosse per la calvizie incipiente, pareva che per lui il tempo non si misurasse per somma di primavere ma per diminuzione di capelli.
Brutto come solo un moschettiere spennacchiato potrebbe essere, mi son sentito costretto a parlarne esclusivamente perché ho impiegato una serata intera per ricordarmi della sua faccia da bombolone, e almeno una mezzora lavorativa per formulare una chiave di ricerca attraverso cui Google mi portasse da lui. L'ho individuato con i tags "PORTIERE OLANDESE CHELSEA" e, sospirando un bel "Cul, aiutém", alla quinta pagina dei risultati della ricerca è infine apparso in tutta la sua bellezza e, oltretutto, sotto il nome DE GOEY, grammaticalmente inglesizzato, giusto perché in Gran Bretagna non sanno parlare/scrivere in nessun'altra lingua se non la loro.

Solo in un secondo momento mi sono ricordato che il brillante e bellissimo coautore del blog ne aveva già accennato in uno straordinario articolo di qualche mese fa intitolato IL TORO DI SORA E UNA FAVOLA AMARA ove lo definiva come "The Moustache Goalkeeper", questo a ulteriore riprova che gli 11 Illustri Sconosciuti stanno diventando un'enciclopedia di casi umani pedatori.
Se cercate un calciatore idiota, tranquilli noi ne abbiamo parlato.

Bandiera dello Sparta Rotterdam prima, del Chelsea poi, e dell'Olanda sempre, detiene un primato curioso, quello di essere il giocatore ad aver disputato il maggior numero di partite della "fu" Coppa delle Coppe. 


02. SANTIAGO CANIZARES: IL REPLICANTE


Così biondo da sembrare albino, è sempre risultato un personaggio pittoresco.
Non sapremo mai se in verità non fosse Roy Batty, il replicante di Blade Runner, quello che tanto per intenderci ha visto cose che noi umani... blablabla, sua battuta più famosa quando la migliore è quella che gli rivolge il padre artificiale:"La luce che arde col doppio di splendore brucia per metà tempo. E tu hai sempre bruciato la tua candela da due parti, Roy". Poesia, pura poesia al minuto 2' e 22''


Santi Canizares cresce nel Madrid sponda regale, per poi trasferirsi nel Valencia mirabolante dei Gaizka Mendieta (altro bel gallo), Francisco Farinos, Kily Gonzales, Migel Angel Angulo e David Albelda (attuale Capitano).
Entra con pieno merito nell'epopea d'oro del Valencia Club de Fùtbol grazie alla conquista di due campionati, una Copa del Rey, una Supercoppa di Lega, una Coppa Uefa ed una Supercoppa Europea, e al raggiungimento di due finali di Champions League, entrambe perse, la prima contro il Madrid, la seconda contro il Bayern di Monaco.
Diventa idolo del Mestalla grazie alle sue parate e al look carnevalesco, ma assurge al ruolo di fenomeno vero e idolo delle masse solamente qualche anno dopo il ritiro dal calcio, decidendo di postare con superba cavalleria e senza alcun consenso coniugale la foto della moglie nuda sotto la doccia, che in un amen fa il giro della rete e permette al grande Santiago di aumentare il numero di followers su twitter all around the world. Quella che si dice una "decisione salomonica". ESTICAZZI!


03. CLAUDIO GARELLA: IL PORTIERE SENZA MANI

Claudio Garella, portiere da non imitare a livello tecnico, ma dall'istinto fuori dal comune, si meritò (onore/onere spettante a pochissimi) una battuta dell'Avvocato Agnelli:"Garella è il più forte portiere del mondo. Senza mani, però".
 

Garellik, perché così venne presto ribattezzato dalla stampa di Verona, alternava parate miracolose (di panza, di chiappe, a talloni uniti, qualche ben informato azzarda pure un "di roveja") alle cosiddette garellate, ossia sontuose papere destinate agli almanacchi di Mai dire gol.
Proprio nella città scaligera vince uno scudetto (di cui Santu parlò nel primo articolo di questo blog PREBEN ELKJAER, IL SINDACO) e "Il Pibe de Oro" lo raccomanda ad uno scettico Ferlaino affinché lo porti a Napoli.La scelta si rivela azzeccata, gli azzurri vincono il tricolore e Garella diventa l'uomo delle prime volte (sia per Napoli che per Verona si trattava infatti del primo scudetto), contribuendo a scatenare quel furore napoletan-popolare post-scudetto di cui ancora oggi ne paghiamo pesanti strascichi.


Ecco qui Robert Baratheon impegnato a cantare un pezzo degli Squallor, con tanto di dedica napulecchia, direttamente da King's Landing.


04. TONY ARENA - MAI ESISTITO


Mai esistito: Tony Arena non è mai esistito.
È un po' come i famigerati gemelli Bussoli del Tassoni di fine anni ‘90: ce n’erano solo due. Il terzo, Carlo Bussoli, non era mai esistito. Tony Arena è esistito solo nella mia testa, grazie ad una mistura tra Tony Meola e Bruce Arena. Purtroppo però non appartiene a nessun immaginario condiviso.
Entrambi italo-ammerregani, sono accomunati dall'aver fatto parte della nazionale di calcio statunitense degli anni '90, il primo in veste (da un punto di vista meramente estetico molto più che discutibile) di portierone, il secondo in qualità di allenatore.
Beh, ai Mondiali di USA 94 il paisà Meola attira l'attenzione di pubblico e media, e questo per sua orribile coda da Narcos e qualche parata scanzonata. Evidentemente però il calcio americano non paga le bollette, per cui Tony decide di mandare tutti affanculo e dedicarsi al ruolo di placekicker, in buona sostanza sceglie di diventare quel poverocristo che, in una disciplina sportiva in cui si gioca con le mani (il football nell'accezione statunitense), lui è l'unico a poter/dovere calciare il pallone. Curioso principio fisico di reazione uguale e contraria applicato allo sport.

Lo zingaro Milutinovic, CT della nazionale (la cui storia sperò andrà prossimamente in onda su questi teleschermi), si incazza a bestia e lo fa fuori dal giro sperando rinsavisca e torni a difendere i pali dello Zio Tom.
La cosa avviene ma ormai Friedel e Keller gli hanno fatto le scarpe, o meglio: i guanti, e Meola, per dirla con Inu "s'abbecca".


Mi piace pensare che abbia seguito le orme di un Tony Ciccione qualsiasi o viva al confine col Messico conducendo un’esistenza all’insegna di feste matte e meth insieme a Tuco Salamanca. Come phisyque du rolle ci siamo in entrambe le casistiche: un cicciobomba cannonniere sol y sangre, sexo y sur.



05. DAVID SEAMAN – THE STUPID ONE


 Se avesse avuto il volto un po' più scavato, se fumasse sigari, e se parlasse in spagnolo lo prenderei per Machete.
Di lui, senza scartabellare Wikipedia, ricordo due cose.
La prima è che ha avuto l'enorme culo di aver giocato per un Arsenal leggendario, quello di cui, se mi impegno, so mandare la formazione a memoria neanche fosse il Padre Nostro o, se non altro, elencarne undici che possono essere scesi in campo insieme.Seaman, Dixon, Adams, Keown, (mi manca il terzino sinistro, orcatroia), Parlour, Vieira, Pires, Lijungberg, Bergkamp ed Henry. 


Considerando che David -come portiere- era triste come una canzone di Ivan Graziani, vien davvero da chiedersi cosa c'azzeccasse lui negli enciclopedici Gunners di inizio secolo.
La seconda è la gatta che lo ha reso famoso, MIAO! Roba che se ci fosse stato l’uomo spogliatoio migliore di sempre (Enriguez Bolognesi) si sarebbe sentito echeggiare un urlo anche a distanze chilometriche.”BROT ZUGADOR!” 
Correva l'anno 1995 e a Parigi si giocava la finale di Coppa delle Coppe: Arsenal-Real Saragozza (se siete interessati a sapere su chi e come gli inglesi l'avevano spuntata in semifinale, chiedete al Pippo Franco di Riccò ora d'istanza a Cardiff).
Col risultato inchiodato sul 1 a 1 alla fine dei tempi regolari, si va ai supplementari e fino al 120' la conta delle reti non cambia, poi tale Nayim -con un lob da metà campo indirizzato là dove si sarebbero interrotti i sogni dei londinesi- stabilisce che è giunta l'ora per Seaman di entrare nella storia ma dalla parte meno gloriosa per non dire "più di merda".

Mi son piaciute molto le parole lette sullo status di un amico (Lorenzo Mordini) che tifa Bologna (ognuno sceglie di morire come meglio crede) a proposito del portiere Agliardi, che prendo in prestito per definire quello screanzato di Seaman:”come un adolescente in delirio ormonale, quando esce non si sa dove va, cosa fa e quando torna”. 


La cosa divertente è che sette anni dopo, nel corso dei Mondiali in Corea, si verificherà un episodio simile con Seaman che andrà in oca una seconda volta.
Per la cronaca, il terzino sinistro dei Gunners di cui non ricordavo il nome era Winterburn, Nigel Winterburn.


06. JOSÈ LUIS CHILAVERT – CON LA CABEZA EN ALTO

La storia di Chilavert è straordinaria, meriterebbe una puntata "dedicata" (come direbbe Baiso col suo gergo informatico).


Del Chila si potrebbero infatti scrivere un mucchio di saggi stucchevoli, un po' come hanno fatto tutti quelli che ne hanno parlato sulla rete, riferendosi in special modo a Paraguay-Francia del 1998 perché sì, fondamentalmente non si poteva, né si può, fare altrimenti.
Come idea: chi vince va ai quarti del Mondiale, e credo siate tutti d'accordo nel riconoscere che per il Paraguay di Gamarra e Chilavert sarebbe stato un traguardo di inenarrabile valore. Dopo una partita non proprio da "both ends" ma di totale assedio transalpino, al 114° Laurent Blanc firma il primo golden goal della storia: buonanotte a tutti, e la favola della nazione più sfigata di tutto il Sud America finisce sul più bello.


Chila però, LIDER VERDADERO, sa che l'orgoglio nazionale non è pezza da rispolverare solo quando si finisce in gloria and the night is on fire, e sa pure che al termine di una partita così (da pueblo unido jamàs serà vencido), non bisogna spiegare niente a nessuno se non le braccia ai compagni, ed uscire dal campo con la cabeza en alto.
Al di là della colonna sonora di Santana che fa tanto divanetto soft porno e che mi ricorda un casino il mio amico Fonzo (detto anche IL COSTRUTTORE DI BARE), fa strano vedere i francesi -notoriamente figli di puttana e poco avvezzi a gesti signorili- tributare l'onore delle armi a chi ha cantato e portato la croce con così tanta classe calcistica e siffatto spessore umano.

Ciò detto, a me piace ricordare El Chila anche per altri due ineressanti episodi.

1) Lo screzio con Roberto Carlos durante una pochissimo amichevole "Brasile-Paraguay".
In quell'occasione il portierone sputò in faccia al terzino verdeoro, reo di averlo apostrofato con complimenti antisportivi e soprattutto razzisti.
Se siete ignoranti anche solo la metà di me (e sarebbe già troppo, ve lo assicuro), vi potreste chiedere verso chi possa essere razzista un nero che non gioca in una squadra NBA, specie se brasiliano, terra meticciata dalla nazionale storicamente multicolor.
La risposta esatta è :"Verso quelli che sono diversi sia dai bianchi che dai neri, ossia gli Indios", razza cui però si sentiva fiero di appartenere Chilavert, non proprio un damerino, anzi, piuttosto uno che era stato all’inferno so quante volte ed era tornato indietro perché neanche lì l'ambiente gli era parso così eccitante.
Altro che Totti con Poulsen, giovani teste calde che seguite questo blog, pigliate a esempio, osservate la giustizia ecumenica del gesto e la calma olimpica con cui prende e se ne va. Come dissero di Petronio: Arbiter Elegantiae.


E arriviamo così al punto 2) Il Nostro, essendo così attaccato alle proprie radici, e forte del carisma che sapeva esercitare nei confronti della sua gente, s'era più volte inimicato il governo militare del Paraguay, che da anni osteggiava indios, nativi, bastardi vari e napoletani. Ragion per cui, non potendo i gerarchi del posto cucirgli addosso un vestito di legno perché non sarebbe stato ritenuto democratico, s'adoperarono per farlo fuori dal giro della Nazionale, fino a che non si sedette sulla panchina rosso bianco blu una vecchia conoscenza del calcio italiano, quel volpone di Cesare Maldini, il quale, in barba a diktat vari, lo convocò per i Mondiali del 2002 in Corea e gli ridiede gradi, borsa, guanti e scarpini.

Ora entriamo nel terreno dei miei ricordi, per cui quanto segue potrebbe bellamente essere una serie di puttanate invereconde. Quel Paraguay giocava di merda, e fin qua ok. Sta di fatto che arrivò agli ottavi passando per un buco strettissimo, per poi essere rispedito a casa dai tedeschi che, tanto per cambiare, sarebbero poi arrivati in finale. 
Se la memoria non mi inganna, ai tempi penso di aver letto che a Chilavert non fregava proprio una benemerita minchia d'esser lì per grazia ricevuta (chissà da chi, poi?) e/o per intercessione di Cesarotto Maldini, e nemmeno gli piaceva come l'italiano mettesse in campo gli undici. Per cui, al grido di “Sic semper tyrannis” si autoproclamò Jefe de l'equipo, cominciò a comunicare in dialetto guaranì coi compagni (buona parte mezzosangue indios o comunque in grado di comprenderlo) e mise all'angolo l'allenatore triestino. Se c'è una cosa che amo pazzamente, sono gli ammutinamenti e le rivoluzioni silenziose. J'adore. 

Ah, e poi giusto, Chilavert batteva anche le punzioni di sinistro, delle belle sassate che da casa di Dio venivano recapitate direttamente in fondo alle rete. Ma questo ci servirà per introdurre un altro eroe dei tempi andati, altrettanto bravo nei medesimi fondamentali da giocatore di movimento.


CONTINUA….

L'AMORE AL TEMPO DELLA RUOTA DI SCORTA


Immaginate di essere innamorati di una strafiga. Fatto? Bene.
Immaginate, orbene, di non essere esattamente la fotocopia di Johnny Depp. Non dovrebbe esservi difficile.
Arrivati a questo punto facciamo che diventate il di-lei migliore amico solo per poterle stare vicino. E che, ogni volta che il manzo che-non-siete-voi-che-vive-al-centro-dei-di-lei-pensieri le gioca un tiro mancino, lei vi ammorbi con le sue pene d'amor perdute. E che, quando questa situazione si verifichi nei giorni dispari dei mesi pari, sia solita darvela. Può accadere per sfizio, per non lasciare il suo frutto inutilizzato troppo tempo, perché ha il cervello che ha. Non è importante.
Ora avete un perfetto quadro della situazione e, nel peggiore dei casi (potete maledirmi se lo ritenete opportuno), qualche brutto ricordo pre-durante-post adolescenziale tornato a far capolino in questo ultimo squarcio d'autunno.
Va da sé che un paio di domande sorgono spontanee:
1) Dove viene generalmente inserito l'essere sopracitato nella scala sociale?
2) Con quale locuzione viene identificato?
Potrebbe sembrare facile rispondere allo stesso modo ad ambo le domande, ma una visione più intrinseca della situazione porta, con ragionevole esattezza, a dare due risposte differenti.

1) Prendiamo in prestito la scala gerarchica comunemente usata dal sistema feudale.
- Governante, quasi sempre un re o un nobile di alto rango, ma anche un'alta carica religiosa;
- Vassalli, solitamente nobili di medio rango;
- Valvassori, solitamente nobili di medio-piccolo rango;
- Valvassini, valvassori di statura bassa e corporatura tozza;
- Contadini liberi, beati loro;
- Servi della gleba, ultimo step che raggiunge l'essere umano prima di trasformarsi in Ciellino.
Appare lampante la categoria a cui appartiene il voi stesso che avete immaginato:


2) La risposta sorge spontanea ed è 'Ruota di scorta'. Elio ci ha ben chiarificato cosa sia il 'Servo della gleba', ma ancora poco si conosce della 'Ruota di scorta'. Provo a darne una definizione mia: "In una coppia, trattasi di persona esterna alla stessa che assume il ruolo di terzo incomodo specie dal punto di vista sessuale". Semplice, lampante e un poco lapalissiano. Certo se chiediamo ad Anna Bolena, prima 'ruota di scorta' di cui ci siano arrivate testimonianze certe, può facilmente essere che la veda in maniera differente. Vado quindi ad abbeverarmi alla sacra fonte di Wikipedia che ci dice 'La ruota di scorta è una ruota supplementare, normalmente non utilizzata, utile per l'eventuale sostituzione in caso di foratura delle ruote usate normalmente' ma non è esattamente ciò che stavo cercando. Colto dallo sconforto scrivo a Wikipedia, facendo presente che utilizzare 'normalmente' due volte nello stesso periodo è una cosa ridondante. Fatto ciò mi trovo, volente o nolente, a cercare nella letteratura del web una qualche sfumatura, un qualche aiuto che suffraghi la mia ipotesi. Ed invece cosa trovo? L'aggancio perfetto che causa l'esplosione da cui nasce l'idea per questo articolo.

The Baby-Faced Assassin

Il regolamento del giuoco del calcio subisce, dopo i mondiali del 1966 giocati in Inghilterra, la modifica più pesante del ventesimo secolo: l'IFAB (il papà dell'attuale International Board) introduce le sostituzioni, in numero massimo di due. Tutto ciò accade anche per le pressioni della federazione italiana che aveva visto la propria nazionale uscire ignominiosamente proprio dal mondiale inglese per mano della Corea del Nord. Il perché di queste pressioni? Innanzitutto l'infortunio (rottura della tibia, se non ricordo male) di Giacomo Bulgarelli che costrinse l'Italia a giocare in dieci buona parte dell'incontro e poi il sospetto che i coreani, forti del fatto che "i musi gialli si somigliano tutti (cit.)", avessero cambiato più di mezza squadra durante l'intervallo. C'è anche da dire che forse, se Gigi Meroni avesse avuto più minutaggio, staremmo a parlare di un altro mondiale... Ma tant'è.
 In ogni caso sette anni dopo il 1966 nasce a Kristiansund, in Norvegia, colui che su questa modifica ha costruito una fulgida carriera ricca di trofei e soddisfazioni.


Il ragazzino nella foto tira i primi calci nella formazione della sua città natale e passa, nel 1995, al Molde, squadra mediocre del campionato norvegese. Nella sua prima stagione realizza venti goals e porta il Molde al secondo posto, risultato mai raggiunto prima dalla compagine biancoblu.
Nel frattempo in Inghilterra... Estate del 1996: Alan Shearer decide che il suo tempo a Blackburn è scaduto. Scatta così un'asta milionaria per accaparrarsi il secondo miglior centravanti della storia inglese. Che non vi venga mica in mente di metterlo sullo stesso piano o addirittura su un piano più alto di Gary Lineker... Andremmo a chiacchiere immediatamente!!
Anyway le grandi d'oltremanica cercano, a colpi di rialzi, di acquistare il buon Alan e alla fine della fiera restano in corsa Manchester United e Newcastle United. I "bookies" quotano il passaggio alla corte di Alex Ferguson poco più di uno e la stampa aspetta solo l'ufficialità per vestire di rosso il biondo, ma probabilmente non avevano buttato l'occhio sulla carta d'identità del ragazzo. Alan Shearer, infatti, nasce e tira i primi calci (venendo scartato, beninteso) nel Newcastle United. Quindi tutti buggerati, con i Magpies che si garantiscono (per la modica cifra di 15 milioni di sterline) i servigi del figliol prodigo. Se pensate che a questo punto il buon Ferguson sia andato in menata, siete fuori strada. Il vecchio Alex aveva già messo gli occhi su un promettente ragazzo norvegese, mortifero ed educato. Nell'indifferenza dei Bargiggia e dei Varriale inglesi, Ole Gunnar Solskjaer approda nella piovosa Manchester alla corte dei Diavoli Rossi per scrivere la sua storia e non solo.
25 agosto 1996: Ole, indossando la casacca numero 20, fa il suo esordio con la casacca dello United contro il Blackburn. Ovviamente subentra a partita in corso e, dopo 240 secondi, segna. È infatti sua la rete del 2-2 finale. Gli attaccanti titolari, anzi 'titolarissimi' per dirla alla 'piangina Mazzarri', sono Eric Cantona ed Andy Cole. Non verranno mai messi in discussione, ma quando le cose non si mettono bene ecco apparire dalla foschia tipica dei fiordi norvegesi, il musetto di Ole Gunnar. 18 gol e titolo inglese in cascina al primo anno. Non male, direi. Ferguson lo adora perchè "quando è seduto studia gli avversari e sa già come fargli male" e perché accetta le gerarchie. Detta così sembra che Solskjaer sia un minchia che accetta qualsiasi cosa, ma non è così. Ole è orgoglioso e lavora per farsi trovare sempre pronto. Certo è che se i tuoi compagni di reparto sono (in ordine non necessariamente cronologico) Dwight Yorke, Andy Cole, Eric Cantona, Ruud Van Nistelrooy, Ryan Giggs, Diego Forlan, Wayne Rooney ti devi adattare a tenere qualche volta il culo attaccato alla panchina. Ma c'è chi si lamenta e si fa cedere ad un Birmingham qualunque e c'è chi, come Ole, tiene botta e conscio delle proprie potenzialità la fa vedere a tutti. Chiedere, nella stagione 1998-99, ai portacolori del Nottingham Forest punturati 4 volte. Entrando dalla panchina, ovvio.


C'è chi si può fregiare del record di presenze con la maglia del Manchester United, chi di gol segnati, chi di assist, chi di trofei... E c'è chi può vantare il record di gol da subentrato nella storia del glorioso club inglese. Ovviamente stiamo parlando del buon Solskjaer che per 29 volte ha timbrato il cartellino alzandosi dalla panchina. I freddi numeri, a mio parere, non rendono appieno la grandezza di chi entra durante un match e lo volge a proprio favore. Segnare da new-entry è sintomo di intelligenza, capacità di adattamento, classe, fantasia, spirito di autoconservazione. C'è voglia di rivalsa, ottimismo, onestà nell'ammettere che probabilmente non si è il miglior prodotto sulla piazza ma che la la propria porca figura la si può sempre fare. E, a volerla dire tutta, c'è occhio. Sapere dove andare, cosa fare, trovarsi nel posto giusto nel giusto momento. E sfruttarlo, che molto probabilmente non ne arriveranno degli altri. Altrimenti si rischia di vivere esclusivamente di rimpianti e di parole andate a male.


Barcelona, Stadio Camp Nou. 26 maggio 1999, ore 22:21
Davanti a più di novantamila persone si sta giocando la finale della Uefa Champions League 1998-1999. In campo sono in 22, equamente divisi in due fazioni da 11 ciascuna. Manchester United vs Bayern Monaco. Due squadre che sono già da tempo nell'olimpo di club più titolati e più affascinanti d'Europa; tanto per gradire in campo ci sono 4 titoli continentali: 3 per i bavaresi, uno per gli inglesi. I Diavoli Rossi sono sotto di un gol maturato nel principio di partita. Dopo appena cinque minuti, infatti, Mario Basler, con la generosa complicità del capitano di serata Peter Schmeichel, aveva indovinato l'angolo giusto su calcio di punizione. Sarebbe stato lecito aspettarsi una rezione degli uomini dell'eterno Sir Alex Ferguson ed invece i panzer bavaresi, forti dell'inerzia e del loro gioco semplice ed efficace, continuarono imperterriti a macinare gli inermi ed inebetiti 'Red Devils'. Tra le occasioni divorate dai bavaresi, che avrebbero potuto chiudere l'incontro ben prima dei canonici 90', due sono da T.S.O.: il palo clamoroso colpito da Scholl con un elegante pallonetto e la traversa centrata in rovesciata da quell'idolo di Carsten Jancker. Ma palo (o traversa) non è gol e quindi si arriva al minuto ottantuno con il Bayern ancora in vantaggio di una sola rete. Negli stessi istanti dalla panchina, come sua consuetudine, si prepara ad entrare Ole Gunnar Solskjaer. E' l'ultimo all-in che può tentare il-non-ancora-Sir Alex Ferguson per raddrizzare un match che pare già segnato. L'attaccante norvegese, con quella faccia pulita con cui cammina per strada mangiando una mela coi libri di scuola, si mette a spingere sulla destra come un invasato mettendo alle corde la retroguardia bavarese. Retroguardia che, pochi secondi prima dell'ingresso di Ole, non può più contare sul carisma e sull'esperienza di Lothar Matthaus appena sostituito per concedergli la meritata standing-ovation. Un eccesso di confidenza che a posteriori si può definire suicida. Kouffur, Tarnat e Fink provano a contenere il norvegese in qualche maniera, ma la pressione dello United aumenta minuto dopo minuto. Così, dopo che l'arbitro Pierluigi Collina ha assegnato 3 minuti di recupero, Ole guadagna un calcio d'angolo. Tutto lo United, Schmeichel compreso, si riversa 'in the box' nella speranza di trasformare in rete il pallone calciato da David Beckham. Cross in direzione del portiere danese che, con un'elevazione degna di un ciccio-panza qualsiasi, manca il pallone che viene messo fuori area in qualche modo dalla difesa tedesca. Non un gran disimpegno perchè la sfera finisce nei piedi di Ryan Giggs che, però, la sciabatta miseramente verso la porta difesa da Oliver Kahn. Nessuno però ha fatto i conti con Teddy Sheringham (anch'egli subentrato a partita in corso) che, dimenticato nell'area come un ombrello in metropolitana, raccoglie l'innocuo tiro del gallese e giustizia i bavaresi: 1-1. Scoppia il delirio nel settore riservato agli inglesi e nella panchina dello United. Tutti corrono all'impazzata abbracciando qualunque cosa capiti loro a tiro. Perfino Ferguson esulta scomposto e c'è chi giura che l'emozione sia stata talmente grande da fargli perdere il tradizionale rossore al naso. Cose dell'altro mondo! I restanti due minuti di recupero apparivano pura accademia nell'attesa dei tempi supplementari, ma le apparenze spesso ingannano (come disse quello che limonò una donna con il pomo d'adamo). Così gli intontiti bavaresi, sotto il tambureggiante pressing di Solskjaer, smarronano un comodo disipegno e regalano un altro corner al Manchester United. Stavolta Schmeichel non lascia la sua porta, ma la densità umana all'interno dell'area tedesca rimane comunque a livelli di guardia. Beckham la mette di nuovo 'in the box', Sheringham prolunga e Ole Gunnar piazza la zampata vincente: game, set, match. 2-1 e coppa dalle grandi orecchie che può tornare a prendere un pò d'acqua in quel di Manchester dopo la bellezza di 31 anni.


Negli anni a venire Solskjaer guadagna minutaggio e cambia la sua posizione sul terreno di gioco, diventando alla bisogna ala destra nel tentativo di non far rimpiangere l'infortunato David Beckham. Ci riesce degnamente e, quando lo 'Spice-boy' viene ceduto alla Casa Blanca (nell'anno 2003)  sembra che per il norvegese si spalanchino le porte della titolarità. Invece, contro i greci del Panathinaikos, il ginocchio del nostro eroe salta di brutto e, a parte qualche apparizione di fine stagione tutto è da rifare. In agosto si opera, ma il Manchester non può aspettarlo.
Quando sembra che le riabilitazioni siano concluse Ole si frattura lo zigomo contro il Middlesbrough ma riesce a rientrare e a segnare con continuità. Nell'inverno del 2006 il ginocchio operato lo tormenta e lo costringe di nuovo sotto i ferri. Da qui in poi le apparizioni diventano sempre più sporadiche e il canto del cigno, standing-ovation per la sua magnifica carriera ad Old Trafford inclusa, si celebra il 2 agosto 2008.


Che siate titolari, titolarissimi, ruote di scorta o panchinari fissi vi lascio con quattro dogmi che vi aiuteranno a non complicarvi il pane più del dovuto:
- la vita è una cosa meravigliosa;
- il mondo è grande;
- dio esiste;
- listen to Motorhead.

THE MIRACLE IS BEGINNING TO HAPPEN - L'AMARA STORIA DI ARCHIE GEMMILL

Chi già conosce l'argomento di cui vado a parlare, o lo ha presente per vissuto, o lo ha presente perché citato in un film culto degli anni '90, che però ricorderò solamente alla fine di questo saggio breve. Infatti io, che come sapete sono una persona strana, non ho conosciuto questo personaggio nei suddetti modi ma per vie traverse.
Ora, per vostra gioia, vado a raccontarvi come.

PREMESSA MUSICALE

Sud Est di Londra: fine del secolo e del millennio. È il compleanno di Joel e nel bel mezzo della sua festa suona il campanello. Alla porta si presenta un uomo sui 35 anni, giacca di pelle nera, foulard zingaresco, jeans scuri e gazzelle dell'Adidas. Faccia smunta, sguardo amichevole ma furbo. Considerando che l'età media della festa s'aggira intorno ai 5/6 anni, l'ospite è decisamente inaspettato. L'uomo fa per presentarsi, ma la madre di Joel lo interrompe, anticipando la di lui richiesta con un:"So chi è, le chiamo mio marito".

Qualche ora più tardi, in un pub di Barnes, i due improvvisati compagni di bevuta parlottano fitto fitto, e di tanto alzano le pinte a mezz'altezza brindando agli Who e ai Three Lions. Avete presente quando parlano tra loro Zia Frida e donna Mirella: ecco, tutto il contrario.
Il primo dei due (tanto per capirci, ci stiamo riferendo all'ospite inaspettato) è un affabulatore di categoria, il classico personaggio con cui chiunque vorrebbe farsi una birra al pub, ben sapendo (o forse nascondendo a sé stesso) che, a stretto giro, da una sola birra si passerà presto a dieci cinquanta cento birre, una rissa, qualche scaramuccia con le forze dell'ordine locali, e le immancabili conseguenze di una ghega ciclopica, come cascare in un burrone, andare a casa senza scarpe, perdere per l'ennesima volta il telefono, pisciarsi addosso vicendevolmente, insomma le solite cose. Il secondo (sempre per capirci, il padrone di casa) è un tipo tranquillo, che più che parlare, asserisce, risponde affermativamente, quasi incantato dalle fole dell'amico. Ha l'aria del ragazzo della porta accanto, quello che ogni pater familias vorrebbe che la figlia maritasse.
Una coppia insolita di personaggi agli antipodi e, proprio per questo, performante, perché il detto "gli opposti s'attraggono" vale sempre.
L'argomento di discussione riguarda una proposta "lavorativa".
L'affabulatore sta chiedendo al tipo tranquillo di suonare per la propria band.
Colin, perché è così che si chiama, è un chitarrista di band di merda che non hanno mai sfondato, un eccellente chitarrista.
A interessarsi a lui è uno dei terribili fratelli Gallagher, the oldest one, che lo vorrebbe nel gruppo perché, per dirla così, si sono creati nuovi posti di lavoro nella band dopo qualche atto di mobbing e svariati processi di epurazione di precedenti membri, colpevoli di non remare dalla stessa parte dei sopraccitati fratelli (ammesso e non concesso che questi abbiano mai remato nella medesima direzione) o, più generalmente, colpevoli di fare schifo al cazzo, tutti quanti.
Per Colin Archer è l'occasione della vita. Poco importa che gli Oasis stiano attraversando un periodo di appannamento, che sarebbe meglio definire di burrasca bella e buona; sono pur sempre una delle band più beloved di tutto il Regno del Re più fasullo di Inghilterra.
Per cui accetta, ma ad una sola condizione, ossia che Liam, il fratello più giovane dei Gallagher, sia d'accordo.
La risposta di Noel è degna dell'uomo che volle farsi Re e ci riuscì:"'It's my fucking band. I'll have who I want" che in italiano suona un po' come:"Il pallone è mio e decido io".

Il Signor Archer imbraccia allora una Gibson Firebird (o un Epiphone Riviera a seconda del contesto), dà un'impronta leggermente diversa al suono del gruppo, un po' più ruvido e allo stesso tempo un po' meno malinconico, e riesce, caso più unico che raro nella storia dei musicisti inglesi che hanno avuto contatti con i due mancuniani, ad entrare nelle grazie di entrambi i fratelli, senza che questi lo mandino affanculo o gli cantino il rosario.


Ma di tutto questo, fondamentalmente, non frega un cazzo a nessuno. Quel che conta è che nessuno conosce né conoscerà mai Colin Archer con nome di battesimo e il cognome del suo vecchio, ma solo col soprannome "Gem", che non si pronuncia come Jem delle Jem & The Holograms, ma "gHem", abbreviazione di Gemmill, nella fattispecie "Archie Gemmill", che per professione -o forse per meraviglioso rammarico- ha segnato uno dei gol più entusiasmanti nella storia del pallone a chiazze bianche e nere. Perché abbia questo soprannome nessuno lo sa.




ARCHIBALD GEMMILL


Archibald Gemmill nasce in Scozia nel 1947.
Calcisticamente cresce nel St. Mirren, squadra della sua città. Ceduto alla compagine inglese del Preston per 16.000,00 sterline, si mette ben presto in evidenza fino a quando, in un tranquillo giorno della birichina estate inglese, qualcuno suona alla sua porta. È sua moglie ad aprire e chi le si para davanti fa per presentarsi, ma la donna lo lo blocca all'istante:"So chi è, le chiamo mio marito."
L'uomo sullo stipite è un uomo sui 35 anni, in giacca e cravatta, e dal volto sorridente. È un allenatore emergente che definire ora come un "Mourinho ante litteram" non è sbagliato, anzi. Il suo nome è Brian Clough. e ha messo gli occhi su Archibald Gemmill fino ad averne perso la testa, e guidato da Derby a Preston esclusivamente per convincerlo a non ascoltare le sirene dell'Everton Campione d'Inghilterra che farebbe carte false per averlo, e giocare per lui e per i Rams.


Su Mister Clough bisognerebbe aprire cinque o sei parentesi graffe su, ma non è né il tempo né il luogo, accontentatevi di sapere che nella piazza di Nottingham ci sono due statue: una è quella di Robin Hood, l'altra è la sua, e che Bill Shankly (un tizio che ha vinto di tutto e pertanto dotato di illimitato potere di offesa) ebbe a dire di lui: "Brian Clough è peggio della pioggia a Manchester. Almeno il Padreterno ogni tanto fa smettere di piovere a Manchester."
D'accordo, vi lascio anche con qualche citazione, giusto per dimostrarvi che gente come Josè da Setubàl ha avuto ottimi maestri.

- Uno: Non direi di essere il miglior allenatore al mondo, ma sono sicuramente nella top one.

- Due: Roma non fu costruita in un giorno, ma io non ero lì.

- Tre: Fate schifo al cazzo, tutti quanti. Tanto varrebbe che vi rivestiste e ve ne tornaste a casa, fuori dai coglioni. Un branco di incapaci del cazzo, dal primo all'ultimo. È la prima partita della stagione e voi giocate così; la prima cazzo di partita. Perdete oggi e perderete tutti i cazzo di giorni, e lo farete davanti a spalti deserti. Ci sono 35.000 persone qui a vedervi, hanno pagato per vedervi, pagato bei soldi, soldi che si sono sudati, cazzo; credete che torneranno la settimana prossima? Col cazzo che torneranno. Adesso uscite là fuori e mostrate a quelle 35.000 persone e a quella squadra di vecchietti e cosiddette superstar di che cazzo di pasta siete fatti, come vi guadagnate i vostri profumati stipendi, e se a quel cazzo di fischio finale starete ancora perdendo non disturbatevi a tornare al lavoro lunedì mattina perché non avrete un cazzo di lavoro a cui tornare. ci sarà la vita reale, per tutti quanti voi 


Dicevamo. Questo adorabile figlio di puttana però non ha la stessa fortuna che avrà Noel quando suonerà alla porta del Gem del futuro. Archibald infatti non ne vuole sapere di suonare nella band del signor Clough. 
Brian le prova tutte ma quel che ottiene sono solo nein nein nein. Minaccia allora di passare la notte in macchina al freddo, e di farlo finché Archie non accetterà. Al giocatore non glie ne fotte manco p'o cazz, ed è allora sua moglie ad impietosirsi e ad offrire a Clough di dormire in casa. Non ci è dato di sapere come, ma l'indomani mattina, forse esclusivamente per levarselo di torno, Gemmill dice un sì che costa a Clough 60.000,00 sterline.
A quel punto le due carriere sono strette a doppio filo, ed il patto è stretto.

Entrambi ripartono alla volta della Contea di Derby e in sette anni Gemmill diventa capitano di una squadra che vince due titoli e arriva fino alla semifinale di Coppa dei Campioni persa contro una Juventus accusata di aver rubato la partita (per la serie "nòva").
Aneddoto curioso: ai tempi di Carlo Còdga non esistevano chissà quali mezzi di informazione, per cui studiare una squadra europea avversaria significava richiedere alla TV del rispettivo Stato d'appartenenza un filmato di qualche partita del club in questione, previa autorizzazione di concessione dello stesso.
Ma a Torino, da true motherfuckers sabaudi quali son sempre stati, non solo non domandarono nulla alla BBC passando da signori del Fair Play votati al volere del Fato (per poi inviare uno 007 a Londra in occasione di un match del derby nella Capitale, che passò talmente inosservato che oggi siamo qui a scriverne), ma s'adoperarono perché il filmato di una partita della Juve -richiesto alla RAI dalla società di Clough- non arrivasse mai in Inghilterra. Boniperti mandò a dire che:"Ci dispiace molto, ma c'è un problema in dogana e purtroppo il filmato non v'arriverà. Tanti saluti"
L'inconfondibile stile Juve: Pilato con Gesù l'aveva fatta meno sporca.

Vero o falso storico che la vedova scaltra (come la chiama L'Avvocato) abbia derubato pure i malcapitati Rams, rimane l'impresa di un club della merdosissima periferia inglese che sfiorò la finale della competizione più importante del Vecchio Continente, e restano anche le straordinarie dichiarazioni di Brian nei confronti dei giornalisti italiani:"No cheating bastards will I talk to; I will not talk to any cheating bastards!" che credo possiate capire anche senza traduzione.
Tuttavia la cosa più importante fu che la conquista della semifinale di coppa permise a Magister Clough di approdare nel Leeds United Super Campione di Inghilterra e orfano del grande ma discusso allenatore Don Revie. 
L'esperienza di Clough alla guida di Billy Bremner e compagni dura solo 44 giorni. Lo spogliatoio di Ellan Road è un autentico ginepraio di teste di cazzo totalmente ostili a Clough il quale viene silurato e relegato disgraziatamente in seconda categoria, al comando di una squadra di subumani e dilettanti in selvaggia parata.


OGNI CITTA' QUALCHE GUAIO HA

Bravo però è bravo, capace è capace, e in una squadra del cazzo come il Brighton & Howe rimane poco. Infatti, in the meanwhile, dalle parti di Nottingham si evidenziano alcuni problemi di sorta, di cui ben può illustrarci Cantagallo, un menestrello del tempo, in una delle sue canzoni più famose.


Per cui nel Gennaio del 1975, il Forest, appena uscito sconfitto dalla stracittadina con il Notts County per due reti a zero, gli dà una chance. Si rivelerà una delle migliori pensate dai tempi della ruota.
Per prima cosa raggiunge la promozione, da terzo della classe, ma poco importa. In secondo luogo fa qualche telefonata a Derby e convince alcuni suoi amici a raggiungerlo a Nottingham per fare un po' di balotta. Si tratta dei suoi fedelissimi, gli stessi carichi da undici con cui aveva vinto il titolo qualche anno addietro: McGovern, O'Hare e, naturalmente, Gemmill.

Se c'è un articolo del blog che abbraccia il maggior numero possibili di riferimenti della tag-cloud a fianco, è questo.
Perché se il Derby County di Clough e Gemmill rispecchia benissimo la tag-line "squadre improbabili che rischiano di vincere trofei", il Forest dei nostri due eroi ben si inserisce in "miracoli vari" e "scudetti incredibili".
Facile quindi dedurre la storia dei Rosso-Garibaldini, che vincono il campionato al primo tentativo e -tanto per gradire- in qualità di neopromossa, cosa che nella casistica delle imprese possibili si colloca tra "pace in medioriente" e "colleghi di lavoro simpatici".
Ma il Nottingham non si ferma qui, e a Clough riesce quello in cui non era riuscito ai tempi del Derby, e che non gli era stato dato il tempo di fare a Leeds: vincere una Coppa dei Campioni at the first strike e rivincerne un'altra l'anno successivo. 


Solito refrain: se vincere è difficile, ripetersi lo è di più, se poi il trofeo in questione è la Coppa dalle grandi orecchie, beh, bravo Elio bravo Fasi bravi tutti, ma soprattutto bravo Clough e bravo Nottingham!
Epperò: c'è un però. Nella prima delle due finali vinte, quella a Monaco contro il Malmoe, con rete di un personaggio di cui spero questo blog prima o poi parli (molto caro al mio brother in arms), Gem non gioca titolare.
Inevitabilmente questo porta ad una profonda spaccatura tra Clough e Gemmill e le strade dei due si separano.
Ma questa non è la più grande delusione di Arcibaldo nostro.
Il suo più grande rammarico è, paradossalmente e allo stesso tempo, il suo autentico capolavoro. Un goal straordinariamente bello e straordinariamente inutile.
Ma andiamo con ordine, torniamo indietro di un paio di estati e trasferiamoci nell'illuminata e democratica Argentina di fine anni '70.


DON'T CRY FOR ME, ARGENTINA


È il mondiale del 1978 e, caso più unico che raro, le due isole britanniche hanno una sola rappresentate alle fasi finali del torneo: la Scozia, la Tartan Army di Capitan Archie Gemmill, la quale, nel corso delle qualificazioni, s'era tolta la soddisfazione di aver bellamente escluso dai Campionati Mondiali niente popo' di meno che gli storici rivali gallesi.
Ovviamente questa situazione carica a bestia stampa, opinione pubblica ed entourage tutto, tant'è che il CT MacLeod, credendosi William Wallace, se ne esce con una dichiarazione quantomeno azzardata:"La Scozia vincerà la Coppa del Mondo!".
Come se questo entusiasmo non fosse già di per sé sufficiente quanto inutile, anche Rod Stewart pensa bene di dare il proprio contributo alla causa con una canzone cui la cosa che somiglia di più è la colonna sonora de L'allenatore nel pallone.
Ascoltare per credere.


A onor del vero la compagine che parte da Edinburgo non è una brutta squadra: tutt'altro! Tanto per citare qualche illustre sconosciuto della selezione scozzere: Greame Souness, Kenny Dalglish e, non ultimo Joe Jordan detto lo Squalo (sì, proprio quello con cui non troppo tempo fa ebbe un simpatico scambio di punti di vista il buon Rino Gattuso).


Pronti via, nel corso della partita d'apertura del girone contro il Perù del sornione Teofilo Cubillas e del Loco Quiroga, il proclama di MacLeod viene decisamente ridimensionato in un:"Spazzate la palla il più lontano e il più forte possibile", non appena l'allenatore della Tartan Army s'accorge che i peruviani -solo apparentemente una squadra di monumenti ai caduti- hanno più birra nella gambe dei suoi ragazzi in maglia blu.
Il Perù prende a pallate i sedicenti futuri Campioni del Mondo, rifilando loro un 3 a 1 che non ammette repliche o discussioni di merito/sfiga/congiunzioni astrali favorevoli o meno.


Da parte di MacLeod, la cosa giusta da fare sarebbe stata urlare ai suoi:"Fate schifo al cazzo, tutti quanti!" ma non è Mister Clough, bensì solo un povero sfigato che si improvvisa mago di campagna.
Iniziata la spedizione in Argentina nel peggiore dei modi, l'occasione di riscatto si presenta illico et immediate contro la squadra materasso dell'Iran, match nel quale però la Tartan Army non va oltre un miserrimo 1 a 1, grazie all'autogol del terrorista di turno sorteggiato a caso da un campo militare di Teheran e reinventato difensore.

Scatta quindi il momento "O vai, o stai!" (sì, lo so, ai più burloni fra voi verrà in mente come questo sia il motto che precede uno Jagerbomb alla goccia), ma nel nostro caso specifico riguarda invece l'inesorabile atto cruciale, quello che decreta il passaggio del turno.
A la Escocia tocca l'impresa, deve giocarsi il tutto per tutto contro l'Olanda dei vari Crujff, Neeskens, Rensenbrink e Krool (tutta gente che oggi come oggi farebbe la differenza nel Milan anche a 60 anni suonati), e vincere con almeno tre reti di scarto. La partita non comincia bene per la Tartan Army che al 34' va sotto, con un calcio di rigore trasformato in gol da Rob Rensenbrink. Poco più tardi però è Dalglish a trovare la rete del pari.
1 a 1, palla al centro, e la Scozia, come da più classica delle tradizioni britanniche, ci crede nonostante manchi solo un tempo e, come daccapo, servano ancora tre gol per passare e sperare di vincere la Coppa del Mondo. Nella ripresa the boys in blue entrano col piglio giusto e in men che non si dica passano in vantaggio su penalty, procurato da un indiavolato Souness e trasformato da Gemmill.

Al 68' Dalglish viene accerchiato e steso da tre macellai di Amsterdam, e il pallone finisce ad Archibald Gemmill che, per i poteri conferitegli dal Dio del calcio, si esibisce in quanto segue.



3 a 1, e l'impresa tanto sospirata appare più vicina: do the math (e non the meth) e converrete che manca solo un gol e il passaggio al turno successivo sarà assicurato. C'è tempo, l'adrenalina è quella giusta, e agli scozzesi adesso sembra riuscire tutto, se poi Gemmill ha cagato una viola come il gol enciclopedico di cui sopra, nulla vieta altre prodezze improbabili o miracoli vari ed eventuali.
I tifosi scozzesi e la popolazione tutta sono al 90% fatti d'ansia; dolente tremante ardente il loro cuore domanda il gol che manca, ma questo non arriva, o meglio, arriva, ma nella porta sbagliata. E arriva solamente cinque minuti dopo lo straordinario gol di Gem, per cui la doccia è molto più che gelata.
Il boia è Johnny Rep, che parte da casa sua, si prende un caffè in mezzo al centrocampo scozzese insieme a Ruud Krol, quindi decide di sganciare un missile terra-aria che gentilmente rimette nel cassetto scozzese il sogno proibito della Tartan Army e manda tutti a casa.


Da questo video si vede meglio anche il gol di Gemmill, infatti da una diversa angolatura si nota anche un tunnel pazzesco, ed entusiasmante è pure il commento del telecronista (the miracle is beginning to happen che dà il nome all'aricolo). Partite dal 3' e 30''.

Si può dire ogni cosa del gol di Gemmill e probabilmente ogni cosa è stata detta. È stato considerato il più bel gol del Mondiale argentino, se n'è parlato in lungo e in largo, ne è stato scritto e, addirittura qualcuno ne ha anche cantato. Ma nell'immaginario collettivo, come anticipavo all'inizio, è entrato grazie ad un memorabile film dei nineties so nineties.
La scena è questa e Atomic di Blondie è una colonna sonora perfetta.


"Non mi sentivo così da quando Archie Gemmill ha segnato con l'Olanda nel '78."

SEI GRADI DI SEPARAZIONE, OVVERO DELLA TEORIA DEL MONDO PICCOLO: DA MARRAKESH EXPRESS AD EUGENIO FASCETTI.


La Partenza. Marrakesh express.

La Notte degli Oscar del 1992 regalò una grande emozione all'Italia: la simpatica voce di Sly (al secolo Sylvester Stallone) annunciò al mondo che la statuetta per il miglior film straniero era andata a "Mediterraneo" di Gabriele Salvatores.


Nello stesso anno la Danimarca vinceva, da ripescata causa conflitto in Jugoslavia, il primo ed unico campionato europeo della sua storia sbancando la rassegna organizzata in Svezia, regolando 2-0 in finale la solita, coriacea Germania. E, sempre in quel maledetto 1992, il Barcelona conquistava la sua prima Coppa dei Campioni (da quell'anno ribattezzata Champion's League) battendo, senza alcun merito a voler essere precisi, la Sampdoria in una notte di maggio in quel di Wembley.
In tutta sincertà, Mediterraneo non è un film che mi abbia fatto impazzire. Anzi, paragonato a "Lanterne Rosse" (il film che sconfisse nella corsa all'Oscar), risulta ancora più indigesto. Rimanendo nella filmografia di Salvatores, però, c'è un lungometraggio che mi ha sempre fatto tenerezza e, a dirla tutta, mi è persino piaciuto. Risale a due anni prima del sopracitato e si intitola "Marrakesh express". In breve è la storia di un gruppo di amici, inattivo da una decina d'anni, che decide di rivedersi e di intraprendere una spedizione in Marocco (a Marrakesh appunto) per cercare di liberare dalla carcere magrebina un altro membro della vecchia cumpa, al gabbio per possesso di stupefacenti. Il viaggio è lungo e pieno di avvenimenti, alcuni strani, altri divertenti, altri drammatici che porteranno, come da classico risvolto da film on the road, a rendere più importante il percorso rispetto all'obiettivo finale. In linea di massima questo è Marrakesh express, anche perché se uno non se l'è visto mica voglio fare troppi spoiler.
Il perché io voglia citare questo film all'interno di questo blog è presto detto: c'è una scena che mi rimarrà sempre impressa ed è la partita Italia-Marocco "si va ai 10" che i protagonisti giocano sulla spiaggia marocchina contro una delegazione locale. Durante l'incontro c'è una simpatica uscita di Abatantuono/Ponchia che, riferito alla parata di Teresa (la fidanzata spagnola dell'amico in gabbia), esclama: "La grande tradizione dei portieri spagnoli: da Zamora a Zubizarreta!".



Primo grado. Just Fontaine, un mondiale da 13 gol.

Il diciotto agosto 1933 nasce il più grande golaedor della storia d'oltralpe e, come la maggior parte dei campioni di football di quella nazione, non nasce in Francia. Dove nasce secondo voi? Beh, se guardate il punto 1 e siete un pò fatalisti, comincerete anche a capire il perchè del titolo di questo post. Just Fontaine nasce proprio a Marrakesh e comincia a giocare, da 9 fatto e finito, nell'U.S. Casablanca. Venne acquistato dal Nizza nel 1953 e lì si impose segnando 44 reti nell'arco di 69 partite. Fu, quindi, prelevato nel 1956 dallo Stade de Reims (allora la più forte compagine francese) per sostituire Raymond Kopa che se ne era andato nel Real Madrid degli invincibili; il Real di Di Stefano, Puskas, Gento, Santamaria e delle 5 Coppe dei Campioni consecutive. Non certo un Castel di Sangro qualunque. In ogni caso il buon Just si trova appioppato l'ingrato compito di sostituire un campione vero ed amatissimo dai suoi tifosi.
Monsieur Fontaine non si fa pregare e segna, segna e segna ancora. Alla fine dei cinque anni in maglia biancorossa saranno 121 in 127 partite. Ovvero come partire sempre con un gol di vantaggio sugli avversari. Non male, direi. Anzi, come in uno spot di una nota marca di scarpe paladina dello sfruttamento minorile, Just do it. A corredo di questi numeri "alluginandi"(parola di Antonio "Crozza" Conte), Fontaine porta in dote tre Ligue 1, una Coppa di Francia e una finale di Coppa dei Campioni drammaticamente persa contro il Real Madrid degli invincibili e del grande ex Raymond Kopa.
In nazionale, il nostro, esordisce nel 1953 contro la corazzata del Lussemburgo e segna tre gol. Poi rimane fuori dal giro, o comunque non rientra nel novero dei titolari, fino al 1958 anno dei mondiali di calcio organizzati dalla Svezia. E, diventato titolare, in Svezia Just stupisce il mondo del pallone. Ne piazza tre nel morbido esordio vincente (7-3 il finale) contro il Paraguay, ne segna altri due nella sconfitta di misura contro la Jugoslavia (3-2) e sigla l'acuto decisivo nel sudden-death match contro la Scozia vinto dai transalpini per 2-1. Nei quarti di finale la Francia affronta l'Irlanda del Nord che nelle qualificazioni aveva obbligato l'Italia a guardarsi il mondiale da casa. Il punteggio rispecchia la pochezza dei britannici: 4-0, altra doppietta dell'implacabile Fontaine e semifinale in ghiacciaia.
Dalla parte del tabellone dei mangia-rane arriva in semifinale il sempiterno Brasile trascinato da un ragazzetto di colore che ha un nome molto, troppo lungo (come la maggior parte dei brasiliani del resto) e che per comodità viene chiamato Pelè. Ma Fontaine non è uno che si spaventa facilmente e pareggia l'iniziale svantaggio, sporcando la fin lì immacolata rete verdeoro. Peccato di lesa meastà che viene lavato con un sonoro 5-2 finale, che relega i transalpini a giocarsi la finale di consolazione contro i campioni uscenti della Germania Ovest (vincitori in Svizzera in quello che è arcinoto come "Miracolo di Berna" e a cui ha accennato il mio consorte di blog qualche mese addietro).
Finalina pirotecnica che si chiude 6-3 per "les bleus" trascinati dal poker del buon Just che tocca così quota 13 gol in una singola manifestazione. Record insuperato e, senza timore di smentita, insuperabile. Come il tonno in olio d'oliva.



Secondo grado. Nils Liedholm "il barone": in 10 si gioca meglio che in 11.

In assoluto il miglior giocatore svedese di sempre? C'e chi dice di sì, c'è chi dice no, c'è chi non sa e, turandosi il naso, vota ancora DC. In ogni caso stiamo parlando di un giocatore, innanzitutto Campione olimpico con la sua nazionale a Londra nel 1948, che ha fatto dell'eleganza e della costante presenza nelle partite che contano un marchio di fabbrica. Centrocampista di fosforo e di classe pura, di lui racconta Gigi Garanzini di quando San Siro scoppiò in un lungo applauso quando sbagliò il suo primo passaggio, dopo anni di militanza, con la maglia rossonera.
Era il capitano della Svezia che nel 1958 ospitò i mondiali di calcio (pensate un pò, quelli di Just Fontaine!) e trascinò, insieme all'uccellino Hamrin, i padroni di casa al miglior piazzamento di sempre in una competizione mondiale: secondi dietro il Brasile. Il Brasile di Pelè, ergo i primi dei normali. Nils ebbe anche l'ardire di aprire le danze nel pomeriggio del Råsunda di Stoccolma, uccellando dopo appena 4 minuti la retroguardia verdeoro che, come in semifinale contro la Francia, ripresasi dalla sorpresa, vomitò smitragliate di tiri in porta contro gli scandinavi padroni di casa. Un 5-2 che si porta in dote anche la rete più bella mai realizzata (non lo dico solo io) in una finale mondiale. La segna, manco a dirlo, Pelè: stop di petto per saltare il primo difensore, sombrerone al secondo e conclusione al volo di esterno destro. Come direbbe il mio compagno di viaggio: CHE BELLO! MA CHE BELLO!


Aveva un cervello finissimo Nils, che gli permise di intraprendere, con enormi soddisfazioni anche la carriera da allenatore. Vinse uno scudetto al Milan nell'annata 1978-79 e poi si trasferì a Roma, dove le sue gesta rimarranno scolpite per sempre nella storia dell'A.S. Roma. Portò i giallorossi a vincere il secondo scudetto, dopo quello fascistissimo del 1941, scatenando l'euforia di almeno metà dell'urbe e lanciando in orbita giocatori che avrebbero scritto pagine di storia anche con le maglie delle rispettive nazionali. Faceva pochi piagnistei "Il Barone" che, come da titolo del paragrafo, commentava "In 10 si gioca meglio che in 11" ad ogni domanda che faceva riferimenti polemici all'espulsione di un suo giocatore. C'è chi racconta che lo scudetto della stagione 1982-83 a Roma fosse merito di Pruzzo, chi di Falcao, chi di Bruno Conti. Ma io, che come ben sapete condivido il cervello con l'altro scrivente di questo blog, ritengo che il tricolore sia stato cucito grazie alla mossa geniale di spostare il capitano Agostino Di Bartolomei nella posizione di libero, che un centrocampista ad impostare in difesa è meglio avercelo anzichè no. Anche perchè Liedholm fu uno dei primi, se non il primo, a portare il gioco a zona in Italia, patria di catenaccio e contropiede sin dalla notte dei tempi. E anche per questo, che di Gigi Simoni ed Emiliani Mondonico ne avevamo le tasche stracolme già negli anni '70, dovremmo essergli grati. Il bel gioco, la signorilità, l'intelligenza tattica e nella vita. In due parole: Nils Liedholm.



Terzo grado. Agostino Di Bartolomei: Tutto fa un pò male.
 
Anno di suicidi il 1994. In aprile si fa fuori, con una sapiente fucilata, l'angelico eroinomane Kurt Cobain provocando indignazione e sgomento nella società incivile, e permettendo a chiunque di scrivere e di parlare dell'orrendo disagio che nemmeno la musica e l'onnipotenza nirvaniana erano riusciti a curare. Situazioni ingombranti, rock'n'roll ed eroina, beh niente di nuovo sotto al sole pazzerello di aprile. Fiumi di inchiostro gettati al vento se, almeno una volta nella vita, non si è ascoltata "Drain you" ad un volume così alto da pensare di essere il plettro nella mano sinistra del sopracitato Cobain.


Ma, come mia consuetudine, sto divagando.
Alle 10 e 50 del 30 maggio del 1994, nella sua casa di San Marco di Castellabate, la fa finita il capitano del secondo scudetto della Roma. Ma questa è una storia meno mediatica della precedente, non c'è droga, non ci sono (più) folle adoranti, non c'è masochismo. C'è solo un uomo, prima di un grande ex-calciatore, che si sente tradito dal suo mondo. E dalla sua squadra del cuore. E Agostino di Bartolomei, il centromediano fatto libero da Nils Liedholm, abbandona la sua famiglia e la sua vita così, con un colpo autoinferto al cuore dalla sua Smith & Wesson. E con lui finisce al di là dei sogni un pezzo di storia, forse non il più bello ma sicuramente il più romantico, del calcio della capitale. Capitano della Roma di Dino Viola, decisa ad abbattere i poteri forti del nord Italia, a riportare la capitale là dove le sarebbe spettato di diritto: in cima all'Italia e, perchè no, anche all'Europa. Il centrocampista di belle speranze scoperto da Helenio Herrera, che lo fa esordire appena diciottenne contro l'Inter, porta via con sè i rigurgiti acidi di un calcio senza riconoscenza e di una personalità introversa e carismatica, mai dedita all'elemosina, fosse essa di attenzioni o di aiuto. Mai un gesto (una sola espulsione in carriera) o una parola fuori posto, il "DiBa", come veniva appellato dalla curva sud, se ne è andato con la signorilità con cui ha vissuto e giocato. Da leader silenzioso. Un leader che mai perdonò a Falcao di non aver avuto le palle di tirare un rigore in quella finale Roma-Liverpool, e che, passato al Milan, mal tollerò le parole ambigue dell'ex compagno Bruno Conti che lo definì uno “Tranquillo, pulito, che non esce mai dal campo sudato”. Tutto questo dopo un duro scontro tra Di Bartolomei a l'allora centravanti giallorosso Francesco Graziani, scontro che provocò una solenne rissa durante quel Milan-Roma. "Ti hanno tolta la Roma, non la tua curva" recitava lo striscione esposto prima della sua ultima gara in giallorosso (finale di Coppa Italia Roma-Verona 1983-1984) e mai verità fu meglio scritta.


Agostino sperava di poter essere utile, anche da dirigente, alla sua squadra del cuore ma quella chiamata non arrivò mai. Fece un'ultima breve comparsata nel ruolo di commentatore tecnico per la Rai durante i mondiali italiani del 1990, ma poi rientrò nel suo ritiro di San Marco di Castellabate da cui non uscì più.
Curiosità: a lui si è ispirato Paolo Sorrentino per il personaggio di Antonio Pisapia, l'omonimo calciatore del Tony Pisapia cantante nel magnifico film "L'uomo in più".



Quarto grado. L'Italia mundial: Non ci prendono più.

"Nel calcio come nella vita" amava ripetere Nereo Rocco, il mentore dell'allora C.t. Enzo Bearzot. E nel calcio, come nella vita, la nazionale italiana ha sempre preferito riuscire nelle imprese più difficili. Maestri nell'attirarsi le antipatie estere, nel catturare l'astio della stampa e del tifo locale, nell'invischiarsi in scandali di proporzioni sempre maggiori (dal totonero al calcioscommesse attuale, passando per la costruzione degli stadi di Italia '90, per Luciano Moggi ed altre piccole e medie imprese), "Nel calcio come nella vita" solo con le spalle al muro e con la merda in una linea di galleggiamento ben più alta del sopportabile, l'Italia pallonara ha sempre trovato un modo per riscattarsi. E' un assioma trito e ritrito, ma, come ama ripetere un mio amico reduce dall'Afghanistan: "Se le dicerie esistono è perchè c'è sempre un fondo di verità." Ed io concordo con lui.
Comunque sia, gli azzurri arrivano in Spagna nell'estate del 1982 già con un discreto fondo di dissenso nella carta stampata, in particolare in quella capitolina che avrebbe voluto un numero di giallorossi più corposo rispetto ai soli due giocatori convocati, ovvero Conti e Graziani. Ma Bearzot non rinnegò le il suo credo e continuò ad affidarsi al cosiddetto blocco-Juve che comprendeva anche un certo Rossi Paolo che aveva appena finito di scontare la sua condanna per le vicende legate alla questione Totonero.


Il cammino degli azzurri nel girone eliminatorio fa piazza pulita anche dei pochi sostenitori rimasti: 0-0 con la Polonia del "bello di notte" Boniek, 1-1 col Perù (in gol Conti) e 1-1 col Camerun (a segno Ciccio Graziani). Qualificazione alla seconda fase solo per differenza reti e, per la prima volta nella storia della nazionale, il C.t. Bearzot impone il silenzio stampa. Non è un silenzio stampa totale, ma, dato che l'unico componente della squadra che ha il permesso di parlare con i giornalisti è il loquacissimo capitano Dino Zoff, è come se lo fosse.
Anche i sassi conoscono il prosieguo della storia, con le due vittorie nel girone di ferro con Argentina e Brasile e la rinascita di Paolo Rossi proprio contro i verdeoro.
Curiosità: il Brasile era così sicuro di sconfiggere l'Italia che aveva già prenotato l'albergo per il prosieguo del torneo. Inutile ricordare come i conti fatti senza l'oste siano rischiosi, tant'è che ancora oggi in Brasile la sconfitta con gli azzurri viene ricordata come la Tragedia del Sarriá.
In semifinale gli azzurri, ora idoli di tifosi ed addetti ai lavori, asfaltano la Polonia e vanno in finale contro la Germania Ovest.
L'11 luglio 1982 al "Santiago Bernabeu" di Madrid, l'Italia conquista il suo terzo titolo mondiale battendo 3-1 gli onnipresenti crucchi. La terza rete, quella che farà togliere la pipa di bocca all'indimenticato Sandro Pertini facendogli esclamare il famoso "Non ci prendono più", la segna "Spillo" Altobelli subentrato dopo pochi minuti in luogo di un Graziani maltrattato dalla difesa teutonica.



Quinto grado. Antonio Cassano: Fai pure con calma, io ti aspetto qui.

Nella notte tra l'11 e il 12 dodici luglio 1982, mentre l'Italia impazzita festeggiava la vittoria del mondiale spagnolo, a Bari vedeva la luce ed emetteva i primi vagiti (in dialetto barese strettissimo) un bambino che, a modo suo, avrebbe lasciato impronte indelebili nella storia del calcio: Antonio Cassano.
Lasciamo perdere l'infanzia in cui viene scartato (troppo piccolo, troppo brufoloso, troppo terrone) da Inter, Parma, Casarano e da un altro paio di squadre ed arriviamo a Bari-Inter-2-1 della stagione 1999-2000 in cui Antonio mostra il suo biglietto da visita a Laurent Blanc, Christian "Umiltè" Panucci e a Marcello Lippi: stop di tacco volante su lancio dalle retrovie, palla addomesticata con la testa, dribbling a rientrare sul destro e botta sul primo palo. Inter al tappeto, Bari in delirio e il figlio di Bari vecchia già proiettato nell'olimpo del calcio italiano. Poi, come chiunque mastichi un briciolo di pallone sa, Antonio passa alla Roma per una cifra vicina ai sessanta miliardi, litiga con Totti, con la società, coi tifosi, con Capello, fino a trasferirsi, nel gennaio 2006, nei galacticos di Madrid. E' leggermente sovrappeso (leggermente è un eufemismo bello e buono) e gioca col contagocce, perdendo così la possibilità di giocare il mondiale in Germania. Poi a Madrid ritrova Capello e, quando sembra che le cose stiano finalmente andando per il verso giusto, decide di sbeffeggiarlo in mondovisione con una delle sue imitazioni più riuscite.


Viene messo fuori rosa, ma grazie alle sette partite racimolate durante quella Liga riesce comunque ad intascarsi il premio-scudetto. Nell'estate duemilasette passa alla Sampdoria grazie ad una magia messa a segno dallo stratega dallo sguardo sbilenco che risponde al nome di Giuseppe Marotta. Al Doria Antonio mostra tutto il suo repertorio: giocate di classe sopraffina (al suo fianco Pazzini ha segnato tipo 50 gol in due anni. E ho detto Pazzini, non Gigi Riva), cambi d'umore improvvisi come i temporali di Cardiff ed, ovviamente, sceneggiate degne del leggendario Mario Merola.
E' il 2 marzo 2008 e la "summa Cassaniana" è servita. Sampdoria-Torino-2-2.
Il Torino va in vantaggio grazie alla dabbenaggine di Luca Castellazzi, che diviene bersaglio della gradinata blucerchiata. Antonio propizia il pareggio di Luigi Sala e corre ad abbracciare il portiere, cercando di spiegare ai tifosi che continuare a fischiarlo sarebbe stato controproducente per tutti. Poi, dopo il nuovo vantaggio granata, segna un gol delizioso con un colpo da biliardo di piatto destro. Per festeggiare, il genio, vuole spaccare la bandierina (come in un vecchio Roma-Juventus-4-0), ma la bandierina non si rompe e, anzi, rimbalza sul terreno andando poi a colpire Cassano sulle labbra, lasciandogli una bella ferita. Poi il sale sulla coda. Al minuto 87 ad Antonio viene fischiato un fallo inesistente dall'arbitro Pierpaoli. Vena chiusa e delirio puro. Guardare per credere.
"Io gli (all'arbitro ndr) avevo detto che facesse pure tutto con calma. Io l'aspettavo lì, nel sottopassaggio." Come a scuola o in discoteca.



Sesto grado. Eugenio Fascetti: De salvaetia cum penalitate.

Alla guida del Bari di fine secolo scorso, e contestualmente il primo a riconoscere e valorizzare il talento del giovanissimo Antonio Cassano, è un toscano spigoloso che, da sempre e per sempre, schiera che le sue squadre con l'1-3-4-2 (dove l'1 è l'oramai vetusto "libero staccato"): Eugenio Fascetti da Viareggio.


A Bari, Eugenio, costruisce l'ultimo miracolo di una carriera da allenatore che lo ha visto sempre peregrinare in squadre (provinciali o nobili decadute che fossero) in cerca non solo d'autore, ma anche di scenggiature e location decenti. Come primi exploit porta in B il Varese (annata 1979-80) e firma la prima storica promozione in A del Lecce (1984-85). Rimane ai salentini anche l'anno successivo non riuscendo a centrare la salvezza, ma impedendo (il dio pallone l'abbia sempre in gloria) alla Roma di vincere il suo terzo scudetto, sbancando per 3-2 l'Olimpico alla penultima giornata con una squadra matematicamente retrocessa. L'anno successivo, guarda te il destino, Fascetti si trova ad allenare proprio a Roma. Sponda Lazio, si capisce.
Preambolo: come accennato in precedenza l'Italia pallonara ha sempre convissuto con scandali vari e quell'estate non differì dalle precedenti nè da quelle che sarebbero venute dopo. Venne scoperto un giro di scommesse e "combine" (che prese poi il nome di Totonero-bis) che interessava una ventina di squadre professionistiche italiane e molti dirigenti e giocatori.
Piccolo OT: fu ritenuto colpevole e squalificato per tre anni il general manager del Foggia. Il suo nome? Chiedete a Galliani, e già che ci siete chiedete chi erano i Beatles, e lui vi risponderà: Ernesto "curo io i rapporti col mercato spagnolo" Bronzetti.
Rientrando in tema, Fascetti e la Lazio si trovano 9 punti di penalizzazione (giovi ricordare a chi legge che prima del campionato 1994-1995 le vittorie valevano ancora 2 punti) da scontare nella serie cadetta che andava cominciando. In soldoni i biancocelesti avevano un piede e mezzo in C1.
Partita fortissimo, ma calata alla distanza la Lazio raggiunge il quart'ultimo posto (che non garantiva la salvezza, ma la possibilità di andare agli spareggi) a pochi minuti dal termine dell'ultima giornata, battendo il Vicenza 1-0 all'Olimpico grazie ad una rete di bomber Fiorini.
Sul neutro di Napoli, la Lazio si trovò a spareggiare con Taranto e Campobasso. Una sorta di triangolare estivo che avrebbe deciso chi, delle 3, sarebbe finita nelle forche caudine della serie C1.
Biancocelesti k.o. di misura contro il Taranto (0-1) nella prima partita, con i rossoblù pugliesi che certificavano la propria salvezza pareggiando con il Campobasso nel secondo incontro. Nella terza e decisiva sfida, pochi cazzi per Lazio: solo una vittoria avrebbe evitato l'umiliazione della retrocessione.
E, sostenuta da 40000 tifosi accorsi al San Paolo, l'aquila biancoceleste piega di misura il Campobasso con un gol di Fabio Poli.


L'anno successivo, senza penalità e con una proprietà più generosa, Fascetti riportò la Lazio nella massima serie in cui ancora si trova.
Nota di colore sulle simpatie politiche del buon Eugenio: una volta, commentando a "stadio Sprint" la classifica del suo Bari a quel tempo ottavo, disse: "L'unica volta che mi sento di sinistra è quando guardo la classifica."
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