CON QUELLA FACCIA UN PO' COSÌ


Trivial "11 Illustri sconosciuti":
chi è l'unico giocatore italiano ad aver giocato e vinto un Campionato Paulista?
Lo sapete? Bene. Dimostratemi che non lo siete andati a cercare sul web nè avete letto questo post prima di dare la risposta e vi offrirò una birra. Non lo sapete? Ancora meglio. I prossimi 7/9 minuti di lettura vi toglieranno anche questa fondamentale curiosità.



Me lo ricordo molto bene, a Wembley, con la felpa bianca e il colletto blu nella finale contro l'Anversa. Era il 12 maggio 1993 e io, come spero la maggior parte dei bambini collezionisti di figurine Panini, mi sentivo abbastanza affascinato dai look "fuori bollo".
Erano già tre anni che lo collocavo di fianco ad Alessandro Melli in quella che teoricamente doveva essere una piccola realtà capitata per caso in serie A: l'A.C. Parma. Quel capello lungo, così figlio degli anni '80 appena trascorsi, quella barba un pò a caso e quel sorriso di chi, avrei poi capito a posteriori, la sapeva mooolto lunga erano il suo marchio di fabbrica, il marchio di Marco Osio da Ancona.
Era uno di quelli per cui non dovevi schiacciare il naso al televisore per capire dove fosse, un cavieroun così lo vedevi lontano un miglio.

Spulciando la sua vita calcistica si scopre che esordisce in serie A appena diciottenne dopo aver fatto tutta la trafila delle giovanili nel Torino che, all'epoca, possedeva uno dei vivai (non cantera, VIVAIO) più produttivi d'Italia.
In seguito viene spedito all'Empoli in B a farsi le ossa. Il caso, anche se trattandosi di un affaire-calcioscommesse non giurerei sullo zampino del destino, vuole che i toscani vengano ripescati in serie A in luogo del Vicenza. Siamo all'inizio dell'annata 1986-1987 e l'Empoli si ritrova, per la prima volta nella sua storia, ad affrontare il campionato di massima serie. Nella prima giornata di quel torneo si gioca Empoli-Inter. Fondamentalmente una sfida tra scappati di casa e una delle favorite al titolo nazionale. Le formazioni qui riportate lo testimoniano impietosamente senza possibilità di smentita.

EMPOLI: Drago, Vertova, Gelain, Della Scala, Picano, Salvadori, Osio (56' Brambati), Urbano, Della Monica (60' Calonaci), Casaroli, Zennaro. All. Salvemini
INTER: Zenga, Bergomi (49' Mandorlini), Baresi, Piraccini (54' Garlini), Ferri, Passarella, Fanna, Tardelli, Altobelli, Matteoli, Rummenigge. All. Trapattoni



Partita dall'esito scontato che, infatti, si conclude 1-0 in favore dell'Empoli con gol partita proprio di Marco Osio. Gli mancano ancora una decina abbondante di centimetri di capelli e una buona porzione di barba, ma il passo felpato e l'attitudine al "colpo" sono già ben visibili.
A fine anno l'Empoli si salverà e Marco avrà totalizzato 17 presenze e due reti. Il ragazzino rientra alla casa madre, il Torino, ma decide di fare un altro anno in prestito questa volta in una squadra emiliana che vuole tentare il salto in massima serie. Si tratta del Parma che ha appena lanciato in orbita un allenatore che avrebbe riscritto la storia del calcio: Arrigo Sacchi da Fusignano.
Al suo posto viene ingaggiato un allenatore di cui si parla un gran bene, un cecoslovacco trapiantato in Sicilia che, si dice, sprema i giocatori e giochi in maniera troppo spregiudicata per vincere: Zdenek Zeman.
La storia fra Zdengo e il Parma non decolla, così la società ducale cerca di salvare il salvabile e si affida a Giampiero Vitali per evitare l'onta di una retrocessione in serie C1. Compito portato a termine con successo sia in quella stagione che in quella successiva.
Marco si innamora dell'ambiente, decide di rimanere e cresce, anche da un punto di vista realizzativo. Nel frattempo la squadra si rinforza gradualmente presentandosi come favorita ai nastri di partenza del campionato di serie B 1989-1990.
Manca un ultimo tassello, l'allenatore. Il presidente Ceresini ingaggia un allenatore semi-sconosciuto che con la Reggina ha appena perso lo spareggio per la serie A: Nevio Scala. Questo rimane l'ultimo acquisto dell'era Ceresini, poichè il presidente volterà i piedi all'uscio all'inizio della stagione e la società verrà rilevata dalla Parmalat e dal suo deus ex machina: quella brava persona di Callisto Tanzi.
In ogni caso i suoi ragazzi, dopo un inevitabile contraccolpo psicologico, completeranno un rimonta difficoltosa che li porterà al 4° posto a fine stagione con conseguente promozione.
Scritto così appare come un evento asettico e privo di pathos, quindi riprovo.
Mancano due giornate alla conclusione del Campionato di serie B e, delle 4 squadre che approderanno in massima serie, tre sono già delineate: si tratta di Torino, Pisa e Cagliari. Si giocano, quindi, l'ultimo posto utile altre 4 squadre che si presentano con questa classifica prima della penultima giornata: Parma 43, Reggina 40, Ancona 39, Reggiana 39. La vittoria vale ancora due punti e, il destino beffardo, propone questi due accoppiamenti per quel 27 maggio 1990: Ancona-Reggina e Parma-Reggiana.
Per chi non lo sapesse la rivalità tra bagoloni e teste quadre (Parma e Reggio Emilia) è una delle più sentite sulla via Emilia ed ha generato sfottò, polemiche, scontri e, come ricorda bene Carlo Ancelotti, anche diverse difficoltà ambientali dettate da passaggi da una sponda all'altra. In altre parole vincere LA sfida per la promozione e condannare gli odiati avversari ad un altro anno di purgatorio avrebbe significato, per chi avesse centrato l'impresa, gloria eterna e gratitudine ai limiti dell'idolatrìa. E qui rientra in gioco Marco Osio che, dal quel 27 maggio in poi, sarebbe stato ribattezzato "El Sìndic" perchè è proprio lui ad aprire, con un candido esterno destro, le danze per quel 2-0 che promuoverà i gialloblù di Scala e taglierà le gambe ai granata nonostante i 23 gol di "pennellone" Silenzi.


Osio agisce da seconda punta a fianco di Alessandro Melli nel 3-5-2 ideato da Scala e messo in opera dagli undici in campo, ma fondamentalmente ha la libertà di svariare su tutto l'arco offensivo e di inventare ben coperto da Benarrivo a destra, Di Chiara a sinistra e illuminato dal fosforo di Zoratto, Pin, Brolin e Cuoghi (solo tre alla volta, ovviamente) nella zona nevralgica. Marco gioca col nove, ma non è un centravanti vero e proprio, è un giocatore che si esalta con l'assist, col colpo ad effetto, con "la giocata". I suoi cioccolatini e i suoi gol pesanti, mischiati alla fame e alla voglia di quel Parma, portano i ducali ad un piazzamento Uefa nella stagione 1990-91 ed alla vittoria in Coppa Italia la stagione seguente, primo trofeo della storia della società emiliana.
Dopo aver eliminato i campioni d'Italia della Sampdoria in semifinale grazie ad un cucchiaio di Melli, in finale (che allora si giocava con partite di andata e ritorno) il Parma trova la Juventus.
L'andata a Torino è decisa da un rigore di sua santità Roberto Baggio, allora "Coniglio bagnato" alla corte di Gianni Agnelli. Il ritorno, in un "Tardini" scoppiettante, è un'opera verdiana da strapparsi i capelli in cui Melli, alla scoccare del 45' minuto, realizza la rete che pareggia i conti. Nella ripresa, nonstante tutti i nonstante (direbbe il coautore di questo blog), il Parma trova il gol partita con una travolgente azione in verticale cominciata dall'algido Brolin e conclusa con un sinistro vincente dall'uomo dei gol pesanti: Marco Osio.

E qui si torna all'inzio, poichè nella stagione seguente il Parma arriva fino in fondo alla Coppa delle Coppe e io Marco Osio me lo ricordo così mentre entra a Wembley con quel look e quella faccia un pò così.
In quella finale non segna, ma batte l'angolo da cui nasce il gol dell'1-0 di capitan Minotti e serve l'assit per il gol del 2-1 al compagno di merende Alessandro Melli.


Racconterà poi in un'intervista ad un giornale parmigiano:
"Sono un grande fan della New Wave inglese, Cure, Echo & The Bunnyman... ti racconto un aneddoto legato alla finale di Coppa delle Coppe a Wembley, nel '93. Il giorno della partita Scala ci ha lasciato la mattinata libera. Poi ci saremmo ritrovati a mezzogiorno in albergo, per il briefing. Io, che sono un grande appassionato di musica, cosa faccio? Vado a Londra e non vado da Tower Records, che ora è Virgin? Ci facciamo accompagnare in taxi, visito tutti i piani del negozio e compro una valanga di dischi. Guardo l'orologio: le 11.30. Perfetto, siamo in orario. Prendiamo il taxi, ma puntualmente rimaniamo imbottigliati nel traffico. Ormai mancano pochi minuti a mezzogiorno e noi siamo ancora in macchina. Per fortuna il tassista ci scarica davanti all'hotel proprio mentre tutti si recavano alla conferenza stampa. Ho pensato, 'cominciamo bene la giornata'. La sera, poi, abbiamo vinto."

Conquistata anche l'Europa, Marco decide che a Parma il suo tempo è scaduto e tenta di riprendersi quella che era stata la sua giovinezza: il Torino.
In due anni, però, passa più tempo in infermeria che in campo e decide di accettare il verdetto negativo della sua scommessa. Grazie ai buoni rapporti che si è lasciato alle spalle a Parma, però, confeziona un "numero" fuori dai canoni consueti del calcio: Marco Osio goes to Brazil. E precisamente alla Sociedade Esportiva Palmeiras, meglio conosciuta come Palmeiras o "Verdão" che all'epoca era super sponsorizzata della Parmalat, sempre ben gestita da quella persona per bene che si è rivelata Callisto Tanzi.
Marco trova come compagni di squadra gente del calibro di Rivaldo (la bella copia del giocatore imbolsito che adesso, se non erro, sta spiumando qualche squadra dell'Uzbekistan o giù di lì) e del pendolino Cafu ed entra a far parte del team che vincerà a mani basse il titolo Paulista al quale Marco contribuirà con 20 presenze, una rete e un buon numero di assist.
Il Campionato Paulista non è il campionato brasiliano, ma un torneo (sentitissimo) che noi definiremmo regionale, ma che è definito statale, poichè il Brasile è una repubblica federale e non esistono regioni (nell'accezione europea del termine) ma solo stati federati.
Racconta Osio della sua esperienza:
“Dopo aver chiuso in Serie A con il Torino, nel '95, ho giocato un anno nel Palmeiras, che era sponsorizzato dalla Parmalat. Tra i miei compagni di squadra c'erano Rivaldo, Cafu e Junior, per dirne alcuni. Ho fatto un Campionato Paulista e mezzo Campionato brasiliano, perchè poi mia moglie è rimasta incinta ed è voluta rientrare. Del Brasile ricordo soprattutto il numero esorbitante di partite, nei giorni, nei posti e negli orari più assurdi. Ricordo il potere della televisione, molto più influente che in Italia, che decideva dove e quando giocare, anche una gara casalinga in uno stadio a centinaia di chlometri. Ma soprattutto ricordo lo strapotere delle telenovelas: una puntata importante poteva far slittare o anticipare un incontro di campionato”.

"Al Sindìc" torna in Italia e si diletta per un'altra manciata di stagioni in C1 e C2, poi appende le scarpe al chiodo e si mette ad allenare.
Più che auguragli buona fortuna non saprei che altro fare.

PARAGONI AZZARDATI

Ci si alza in piedi solo per i Vescovi, i Cardinali, il Papa, i regnanti... i grandi regnanti!

Introducing Prof. Magneto

Conservo il vivido ricordo di due professori del Liceo.
La prima era una signora che, nonostante le quasi cinquanta primavere, cercava di invecchiare con grazia, scadendo però, ahilei! in quella che senza forse è la peggiore definizione da attribuire ad una donna che ha passato i quarant'anni e i settanta chili, ossia: giovanile.
Era una sessantottina che dopo aver battagliato contro cattedre e cattedranti era saltata dall'altra parte della barricata, e si era messa a fare la Capò.
Azzeccato il latinismo: sic transit gloria mundi e aggiungo io, da Massimiliano Robespierre in poi è cambiato poco.
Ad ogni suo cambio d'ora pretendeva che tutti gli studenti si alzassero in piedi, si mettessero sull'attenti, petto in fuori e sguardo in avanti rivolto a lei.
Mi ha rifilato svalangate di 4 per dare 8 e 9 a quelli che al tempo erano leccaculo di fama mondiale e che ora, uomini e donne in carriera, non sono nemmeno in grado di amministrare i 140 caratteri di Twitter con buona creanza linguistica e non hanno ancora capito che “un po' di cose” chiama l'apostrofo, “Po” è il fiume, e “Pò” a meno che non si consideri il gergale modenese “Zio-pò!" non esiste.

Il secondo era un professore di Chimica che dava solo 4, 6 e 8.
4 se non avevi capito un cazzo.
6 se avevi capito abbastanza.
8 se avevi capito tutto.
Severo e spietato, tanto magnanimo con i giusti quanto scaltro con i furbi.
Trovava sempre il tempo per fare una battuta, anzi, era un'inesauribile miniera di gag che, anche quando ripetute alla noia, riuscivano sempre a cogliere nel segno, resistendo persino alla prova del tempo, cosa nella quale, tanto per fare un esempio calzante, i comici di Zelig sono negati.

Scena.
Molte volte le lezioni dei due professori erano contigue, per cui quando l'una usciva, entrava l'altro che, non appena varcata la soglia, scoprendoci in piedi per obbligo reverenziale nei confronti della professoressa, sventolava in aria la sua manona sinistra facendo cenno di sederci e, con voce cavernosa, ci redarguiva bonariamente:“Seduti! Ci si alza in piedi solo per i Vescovi, i Cardinali, il Papa, i regnanti... i grandi regnanti!”
Lo sketch consisteva nel non fare assolutamente nulla per nascondere l'antipatia che nutriva verso quel gesto di intimazione e la bassa stima verso chi ancora lo sfruttava a vantaggio del proprio ego e, se poteva, lo declamava a massimo volume, che si sentisse anche in corridoio così che il messaggio arrivasse forte e chiaro al destinatario.

Herr Professor era anche un grande esperto di pallone, metafora che usava spesso per commentare le reazioni chimiche che cercava di inculcare nelle nostre teste.
Ricordo che il Milan di Sacchi era per lui un buona pietra di paragone per descrivere ossidoriduzioni e tanti altri processi di cui ora non ho più memoria.
Penso che la similitudine andasse cercata nel fatto che, fondamentalmente, si trattava di schemi che riuscivano solo se tutti gli elementi erano al posto giusto al momento opportuno e l'ossigeno chiamava il fuorigioco ogni cinque minuti.
Purtroppo però, nonostante questa sua lucida pasiòn per il football, non abbinò mai alcun esempio calcistico alla battuta di cui sopra, non arricchì mai questo suo motto con qualche altra categoria per cui valesse la pena alzarsi in piedi, che so, un qualche fantasista, un giocatore straordinario, un allenatore fenomenale...
Forse perché a lui piaceva il Milan di Sacchi, e a Sacchi non piacevano i solisti nemmeno quando lo portavano in finale ai mondiali.
Magari è per quello. 
Peccato, perché si sbagliava, anzi, si sbagliavano entrambi.

Old but gold

La stagione 2001/2002 iniziò nel migliore dei modi con Baggio capocannoniere con 8 gol dopo nove giornate. La sfortuna però interruppe il momento d'oro: rottura del legamento crociato anteriore e lesione del menisco interno del ginocchio sinistro. Il giocatore venne operato in Francia e, con una grandissima determinazione, riuscì a rientrare in campo a 77 giorni dall'infortunio (un record per il tipo d'infortunio subito), quando mancavano tre giornate alla fine del campionato.

Lo dice Wikipedia ed è più che vero.
Quello che non dice, and I wonder why, è che al fantacalcio di quella stagione, Baggio ce lo avevo io.
Politica della mia fanta-società è sempre stata quella di scegliere come terzo attaccante una grande chioccia del calcio italiano, un 10 su un viale del tramonto costeggiato di magnolie, uno di quei Diez per cui nessuno è disposto a spendere nemmeno quindicimila lire, specie se investimento e investitura sono per il ruolo di ultima punta.
Primo contro: si tratta di omini che al solo scoreggiare si fanno male.
Secondo contro: non hanno più i 90 minuti nelle gambe, non ne hanno nemmeno 60, e molte volte ne giocano senza voglia almeno 40.
Terzo e ultimo contro, strettamente legato ai primi due: a livello fantacalcistico giocatori così sono da rottamare, quasi meglio puntare su giovani bocche da fuoco semisconosciute pronte ad esplodere.
Unico pro: ma voi avete idea di cosa voglia dire prenderci?
Sputtanare fanta-danée per un giocatore per cui ti alzano l'asta sol per dispetto, portarlo a casa, dargli il 10 per acclamazione popolare, non ingabbiarlo in schemi, fargli simbolicamente battere rigori, punizioni, corner, rinvii, rimesse laterali, e godere come un porco nel fango alla constatazione che dopo una decina di giornate ha segnato più reti degli attaccanti da prima pagina che hanno i tuoi avversari?

Chiunque abbia avuto la fortuna di vedere giocare Roberto Baggio dall'inizio alla fine della sua carriera, deve ringraziare il Dio del calcio nello stesso modo in cui si recitava il Padre Nostro da bambini.
Sarebbe troppo scontato ricordare il Baggio di Torino o il Divin Codino della Nazionale.
A mio modo di vedere, anche se per lui fu una stagione di riscatto, sarebbe banale pure parlare del Baggio di Bologna e, per religione, io non parlo di cose belle accadute tra Reno e Panaro, lo faccio solo per scommesse perse o minacce di morte.
Il Roby più bello, a parte quello di cui Guzzanti ha fatto una meravigliosa parodia, è stato quello di Brescia: quello è stato il canto del cigno.



Nel 2000/01 le Rondinelle dei piccoli grandi miracoli toccarono il punto più alto della loro storia.
La stagione precedente si qualificarono per la Coppa Intertoto (che nemmeno so se esista più), forti del settimo posto raggiunto in campionato, e si arresero in finale solo contro il Paris Saint Germain.
Che poi dire “si arresero” è eccessivo.
I francesi la spuntarono per la regola del gol in trasferta che, in my humble opinion, ha un senso finché i gol significano vittorie o sconfitte e sono almeno dì più di tre per match.
Ma quando, come nel caso del doppio scontro Brescia-PSG, a Parigi l'abaco non si schiodò dagli zeri, e al Rigamonti il referto finale fu di 1 a 1, dire giusta è improprio.

Excursus per gli amanti delle curiosità e dei bilanci a consuntivo. 
In quel PSG (di cui ora, con l'Affaire Ancellotix, si fa un gran parlare) giocavano alcuni personaggi degni di qualche riga.
Primo fra tutti: Nicolas Anelka, tale e quale ad ora: finito ma immancabilmente in campo.
Poi: l'uomo d'esperienza dell'attuale retroguardia giallorossa di Luis Enrique, Gaby Heinze, che noi tutti amiamo ricordare come quello che cerca Kaka all'Old Trafford since 2007.
Infine, udite udite: Jay Jay Okocha, che non solo gioca ancora, ma s'appresta a disputare la nuova grande Premier League Indiana del West Bengala insieme a Crespo (ancora in forse), Fowler, Cannavaro, il Moro Morientes e il moschettiere Pires. Farà anche sorridere ma è tutto vero.

Quel Brescia era allenato da Carletto Mazzone (un ospite fisso degli 11 Illustri Sconosciuti) e schierava, tra gli altri, il giovane Castellazzi in porta (ora secondo dell'Inter), Calori- attuale Mister delle Rondinelle- a dirigere la difesa a tre completata dall'esperto Petruzzi e dal mio tanto odiato Bonera, i gemelli Filippini a fare legna, e il futuro Campione del Mondo Luca Toni a buttarla dentro.
Il gioco era semplice, molto Mazzoniano: pochi diktat ma eccellenti.
Ognuno nel suo ruolo naturale così che tutti corressero meno e tutti corressero meglio.
I gemelli Filippini votati a rendere il clima della partita da assalto alla diligenza.
Obbligo di recapitare il pallone al Capitan della compagnia, il solo ad aver così tanta classe che avrebbe potuto darne in sconto anche in questi tempi di crisi: Roberto Baggio.

Bene, ora torniamo al mio fantacalcio.
Baggio stava regalando emozioni fortissime a me e ai tifosi della mia fanta-squadra, oltretutto certificando la bontà della mia scelta di puntare sui Dieci d'annata.
Poi, come ben descritto sopra dall'estratto di Wikipedia, Baggio si fracassò cristo-lamadonna-e-tutti-i-santi ed io, non riuscendo a rimpiazzarlo nemmeno con un giovinastro volenteroso, dovetti a malincuore passare da uno sciagurato 4-3-3 ad un più accorto e fantacalcisticamente meno prolifico 4-4-2.
Prima che il Divin Codino si infortunasse avevo seguito in diretta tv quasi tutte le partite del Brescia, così da avere il polso della situazione del mio Robertino preferito.
Oltre a questo però, ero diventato un tifoso acquisito del Brescia perché in quella stagione, contattato da Baggio stesso, era sbarcato al Rigamonti un altro marziano: Pep Guardiola, uno che per anni era stato il faro di un Barcellona fortissimo, ma che s'era trovato costretto a riparare lontano dalla Catalogna perché diventato schiavo di un calcio in cui il fisico e la corsa erano divenuti preferibili alla tecnica e alla tattica, e in cui non trovava più lo spazio che meritava, fosse solo per onorevole anzianità e obbligato rispetto.

Mazzone lo aveva accolto a braccia aperte, affidandogli le chiavi del centrocampo e chiedendogli solo una cosa: giocare come sapeva.
Guardiola lo aveva preso in parola e s'era messo a fare quello che gli riusciva meglio: far girare il pallone che, come diceva il Barone Nils Liedholm, è l'unico che non si stanca mai.
Roby e Pep viaggiavano su frequenze che erano del tutto ignote ai comuni mortali, sembrava fossero cresciuti nel reparto “effetti speciali” degli Universal Studios, e distribuivano panem et circenses ad un pubblico che si stropicciava gli occhi ogni volta, totalmente incredulo davanti ad uno spettacolo per cui il prezzo del biglietto era fin troppo a buon mercato.

Quando Baggio dovette allontanarsi dai campi di gioco causa l'infortunio, la fascia di capitano passò, per rispetto agli Dei del calcio, a Guardiola che la conservò (tranne per i mesi in cui venne ingiustamente squalificato per doping) fino al suo ritorno, in un Brescia-Fiorentina del 21 Aprile di dieci anni fa.

Sempre Wikipedia dice che:”Nella partita del rientro, con la Fiorentina, (Baggio) segnò un gol dopo appena due minuti dal suo ingresso in campo e raddoppiò poco dopo, tra gli applausi anche dei tifosi viola.”
Ora: mettetevi nei miei panni. Io per 77 giorni ero stato privato dalla mia terza punta dal gol facile e dal 7 assicurato in pagella (perché sì, mi son dimenticato di segnalarlo, ma tra i pro di puntare sui grandi vecchi c'è il vantaggio che i giornalisti son sempre generosi nel valutarli), e oltre a questo, causa un'inesperta e scellerata gestione della mia squadra m'ero ritrovato con gli uomini contati e le pezze al culo.
I giornali dicevano che Baggio difficilmente avrebbe giocato ma che comunque Mazzone lo avrebbe portato in panchina.
Decisi di rischiare. Lo schierai pensando che:”Al massimo gioca dieci minuti, e magari ci scappa anche il miracolo e fa gol...”
Era una partita cruciale per la mia compagine, giocare in dieci avrebbe spento anzitempo i miei sogni di gloria, per cui, quando il telecronista annunciò l'ingresso di Baggio, feci un sobbalzo perché entrava il mio undicesimo. Doveva solo toccare tre palloni e la Gazzetta gli avrebbe regalato un bel 7,5 d'ufficio.
Pensò bene di toccarne due e fare due miracoli, tre, se si considera il fatto che rientrò dall'infortunio in un tempo record, specie considerando età e recidività del male.
La mia squadra vinse e io potei continuare a cullare speranze di vittoria finale.



Ma quello che va raccontato e che, come anticipato nell'introduzione non trova tanta letteratura, è quello che avvenne nel momento in cui Baggio tornò in campo.
Se siete stati attenti, ho scritto che i gradi erano stati lasciati in eredità a Pep Guardiola.



Attenzione ad ogni singolo dettaglio della diapositiva.
Un Roby attempato e nemmeno troppo magro.
Un Guardiola in perfetta forma fisica, senza barba e con tutti i capelli.
Il vecchio volpone Carletto Mazzone sullo sfondo e il quarto uomo, quello della legge, classico esempio della burocrazia italiana votata al pallone, ossia il classico impiegato del catasto con tanto di proverbiale calvizie bell'e che andata.

I due signori del calcio stavano infrangendo le regole.
Infatti, se anche il cambio fosse stato tra Baggio e Pep, quest'ultimo per regolamento non avrebbe potuto cedere la fascia a chi subentrava al suo posto. Si nomina un vice-capitano in campo proprio nell'eventualità che il capitano non termini la gara. Ma Guardiola, intuendo l'importanza e la bellezza del momento, corse incontro a Baggio e gli rese la DI LUI fascia, quella con colori e simboli buddisti, dicendogli:”Tieni, questa è tua.”.
Le agenzie di stampa straniere avrebbero battuto la notizia dei due gol del campione (e di solito si muovono solo per guerre, terremoti, profezie di Standard & Poor's.) ma non dissero nulla su questo bellissimo frangente di sport. Anche giornali e tifosi vi si soffermarono poco e niente.
Un'illustre sconosciuta, spero converrete.

Ad ogni modo, sia l'arbitro che il quarto uomo, se la memoria non mi inganna, cercarono di vietare questo contrabbando di gradi, ma Guardiola non volle sentir ragioni né Baggio poteva rifiutare un così bel gesto.
Lo stesso Sor Carletto cosa poteva dir loro? Cosa poteva dire a due così? "No, non potete farlo!"?
In campo avevano e avrebbero spiegato calcio esattamente come un buon Chianti racconta colori e profumi delle terre che vanno da Siena a Certaldo; era il minimo condonare loro questa volontaria infrazione, a maggior ragione se poco dopo Baggio avrebbe fatto cadere in deliquio, per dirla con Stendhal, tutti quelli che avevano avuto la fortuna di seguire l'ultimo quarto d'ora di Brescia-Fiorentina.
Ora capite? Il mio caro professore s'era sbagliato perché non aveva aggiunto al suo adagio alcun esponente del Gotha del calcio italiano ed europeo.
Ci si alza in piedi solo per i Vescovi, i Cardinali, i Papi, i regnanti, i grandi regnanti... BAGGIO E GUARDIOLA!

Favola della buonanotte

Roma, Maggio 2009.
Alla viglia della finale di Champions League tra Barcellona e Manchester United, Mazzone ricevette un'inaspettata telefonata.
“Ma chi parla?”
“Sono Pep Guardiola”

Carletto pensava ad uno scherzo, non credeva potesse essere veramente lui a chiamarlo, e per di più per invitarlo personalmente ad assistere alla sua prima finale da allenatore. Mazzone si commosse profondamente, ripensando a quando Guardiola era "solo" uno dei suoi ragazzi di Brescia.
Il suo commento fu:"Pep è stato meraviglioso."

Qui l'audio-video del momento.


Da lì in poi Guardiola avrebbe vinto tutto e probabilmente continuerà a farlo ancora per molto tempo, avendo a disposizione una squadra (e lo sanno anche gli stupidi del villaggio) pazzesca.
Un po' però, se ci si pensa, lui e il Barcellona ricordano Mazzone e, sparo in alto, il Brescia di Baggio.
Correre poco ma bene, colpire con intelligenza le caviglie dei dirimpettai di metà campo, far viaggiare il pallone il più possibile e recapitarlo agli extraterrestri del caso: i robertobaggio di adesso, e poco importa se sono spagnoli o argentini, la classe non ha nazionalità.
Magari è un'idea solo mia, ma vedo tanto della mano di Sor Carletto nell'idea di calcio di Guardiola, ed è bello pensare così, pensare che il più grande Barcellona di tutti i tempi sia nato in provincia, quando Pep s'era calato con umiltà nei panni di chi, pur essendo conosciuto da tutti, era molto meno illustre di quanto meritasse.
In fondo era così pure il Brescia di quegli anni, un incrocio di storie che son parse minori esclusivamente perchè trascurate, ma dal peso specifico incalcolabile, davanti alle quali alzarsi in piedi, mettersi sull'attenti e riverire, in quel caso sì (altro che la professoressa sessantottina), riverire ogni eccezionale interprete delle stesse: fantasista, giocatore straordinario o allenatore fenomenale che fosse.

Due ultime postille a conclusione del papiro.
Uno. Le prodezze di Baggio non bastarono ai miei fanta-ragazzi per aggiudicarsi la coppa. Arrivarono terzi, ma la medaglia di bronzo fu un piazzamento onorevole e fece salve panchina e dirigenza.
Due. L'illustre paragone tra Guardiola e Mazzone è quantomeno azzardato, forse sbagliato, quasi sicuramente (e me lo auguro!) inedito.
In ogni caso, per quanto possa essere credibile riconoscere in Carletto un mentore di Guardiola, per fortuna, o forse per sfortuna, non lo è stato in tutto.



Credo non vedremo mai Josep il filosofo esibirsi in uno spettacolo del genere.
Peccato però, veramente un peccato, forse è il più grande difetto di Guardiola. Potrebbe rendere più umano lui e più terra-terra un Barcellona che, a furia di vincere con scarti abissali contro chiunque, non sta più così simpatico a nessuno.

PS Personalmente ritengo la corsa di Mazzone una delle cose più rock'n'roll mai viste. Vorrei non finisse mai, vorrei rivederla in loop almeno una giornata.

IL TORO DI SORA E UNA FAVOLA AMARA

Pasquale Luiso da Sora balza agli onori della cronaca sportiva e di costume l'1 dicembre del 1996.
Il Piacenza dell'autarchia è reduce da un inizio di stagione col botto ed affronta in casa il Milan post-Capello allenato da Oscar Washington Tabarez, l'uomo che recentemente ha rimesso in sesto i cocci della nazionale uruguaiana.
Lo stadio di Piacenza si chiama ancora Galleana (diventerà "Leonardo Garilli" solo dopo la morte di quest'ultimo, storico presidente dei biancorossi, il 30 dicembre di quel 1996) e il gotha del calcio italiano ha appena spolpato la rivelazione europea dell'anno precedente: les Girondins de Bordeaux.
Piacenza avanti di due gol e Milan che raggiunge i biancorossi con una doppietta di Cristophe Dugarry, uno degli acquisti di punta dei rossoneri di quell'anno.
Poi ci pensa il Toro di Sora a rimettere le cose a posto, segnando con una rovesciata ai limiti della follia e festeggiandola, dopo l'immancabile corsa di rito sotto la curva, con uno dei tormentoni che accompagneranno il calcio nostrano per tutta l'annata 1996/1997: il ballo della macarena.


Ma questa non è la storia di questo gol, nè la storia dell'esonero di Tabarez e del ritorno di Arrigo Sacchi. Questa informazione, come direbbe Claudio Bisio/Micio, mettetela lì. Potrebbe venire buona più tardi. Forse vi interesserà anche sapere che quell'anno il Piacenza finirà per salvarsi solo allo spareggio, battendo il Cagliari per 3-1 sul neutro di Napoli con una doppietta proprio di Pasquale Luiso. O forse no. E, forse, vi interesserà sapere che nell'estate di quell'anno Pasquale si accasa al Vicenza che girerà al Piacenza nientepopodimenoche Roberto Murgita.


Un altro paio di informazioni basilari per permettervi di entrare meglio in questo trip pallonaro: - il Vicenza in quell'anno aveva vinto la Coppa Italia battendo in finale il Napoli; - a quel tempo, e fino all'annata 1998-1999, i vincitori delle Coppe nazionali partecipavano alla seconda competizione europea per ordine di importanza chiamata Coppa delle Coppe. Sicuramente siete amanti dei sillogismi, per cui non perderò tempo a spiegare che il Vicenza si preparava a tornare in Europa dopo 19 anni e stavolta non si trattava di Coppa Uefa, ma di Coppa delle Coppe. Ah la Coppa delle Coppe! Amante bistrattata, fascinosa seconda, fotografia di un'epoca che ha puntato i riflettori su splendide cenerentole europee e su grandi blasonate in cerca di riscatto. E' una competizione che racchiude al suo interno una marea di favole da raccontare: il primo double degli Speroni bollenti di Tottenham, la Sampdoro di Paolo Mantovani, la tesi di laurea di Ronaldo in maglia blaugrana, il primo trofeo internazionale del paròn Rocco, Alex Ferguson prima con l'Aberdeen e poi agli albori della sua dittatura mancuniana, l'Arsenal di Seaman e di capitan Tony "un'altra pinta please" Adams, il piccolo Parma di Scala. Penso che quel nazista conclamato di Walt Disney non abbia fatto così male ad insegnare ad intere generazioni che tutte le storie hanno un lieto fine. Sono molto belle le favole a lieto fine, danno sicurezza. Ad ogni modo quella che vado a raccontarvi è una storia che il lieto fine lo sfiora soltanto, rendendo ancora più amaro tutto lo svolgimento degli eventi.
Nel primo turno della competizione, ovvero nei sedicesimi di finale, il Vicenza affronta i temibili polacchi del Legia Varsavia che un lustro addietro eliminirano la Sampdoria di Vialli e Mancini.
In un "Menti" esaurito sblocca proprio Luiso, di testa, su imbeccata di Arturo di Napoli, uno dei tanti componenti di quel Vicenza che negli anni a venire segneranno, più o meno indelebilmente, il calcio italiano. Faccio altri quattro nomi su tutti: Massimo Ambrosini, Francesco Coco, Roberto Baronio e Lamberto Zauli. E faccio riferimento anche ad un'altra cosa: a uno di questi 4 garba la sorpresina...
Al triplice fischio è 2-0 per il Vicenza, che così può affrontare fiducioso il ritorno nell'ostico campo di Varsavia.
In Polonia il Vicenza barcolla, subisce l'1-0 che rimette tutto in discussione ma, dopo un paio di provvidenziali interventi di Pierluigi Brivio "il portiere di notte", pareggia a tre minuti dalla fine con un lampo del fantasista Lamberto Zauli. 1-1 e ottavi di finale conquistati.
I ragazzi di Guidolin (sì è lo stesso Guidolin che adesso sta luccicando in quel di Udine, proprio lui) pescano lo Shakhtar Donetsk, club ucraino che a quel tempo non poteva nemmeno immaginare di diventare la pseudo potenza dell'est che è ora, e rifilano loro cinque reti in due gare, con il Toro di Sora che si esalta nel freddo ucraino segnando una doppietta e ripetendosi a metà nel ritorno casalingo.
I quarti di finale presentano un ostacolo olandese per i berici: il Roda JC, dove JC non credo stia per Jesus Christ. Sulle ali dell'entusiasmo il Vicenza sommerge letteralmente gli olandesi con un 4-1 esterno all'andata e un 5-0 interno al ritorno, con mattatore della doppia sfida ancora Pasquale Luiso che segna una doppietta in Olanda e timbra per primo nel ritorno casalingo e comanda solitario la graduatoria dei cannonieri della competizione con sette reti.
Il Vicenza entra nella cerchia dei fab-four che si contenderanno il trofeo in quel di Stoccolma.
La semifinale si presenta come un ostacolo difficilmente superabile: il Vicenza ha pescato il Chelsea dei "fuggiaschi" Gianfranco Zola, Roberto di Matteo e Gianluca Vialli (quell'anno in versione giocatore-allenatore dopo l'allontamento di Ruud Gullit). L'andata al "Menti" è una sintesi, uno spot del celeberrimo Davide contro Golia con gli undici di Guidolin che fanno ammattire i blues in lungo e in largo e vincono SOLO 1-0 in virtù di un super gol di Zauli: vedere per credere.


n.b. Avevo trovato un video a risoluzione migliore, ma la colonna sonora era di Vasco Rossi, quindi...
16 aprile 1998. stamford Bridge. Londra. Casa del Chelsea Football Club. Il ritorno.
Il Vicenza non vuole fare la vittima sacrificale e, a spiegare al meglio lo spirito degli uomini di Guidolin, ci pensa Pasquale Luiso: "Crossatemi una lavatrice e colpirò di testa anche quella" dichiara subito dopo l'atterraggio a Londra.
Non segna di testa, il Toro, ma col piede destro e ammutolisce letteralmente Stamford Bridge al 31° minuto. In un clima tipicamente inglese, tra pioggia e cori incessanti, dopo tre minuti Gustavo Poyett (che quando diventerà capitano promuoverà un'esultanza particolare e divertente che consiste nel togliersi la fascia dal braccio e metterla in testa a mò di cerchietto) ribadisce in rete una corta respinta di Brivio su tiro di Zola.  1-1.
Sul finire della prima frazione, un'altra invenzione di Lamberto Zauli permetterebbe a Luiso di insaccare nuovamente e di chiudere il discorso qualificazione, ma l'arbitro francese Batta, su indicazione del suo assistente, annulla per posizione di fuorigioco. Fuorigioco che si rivelerà inesistente rivisto alla moviola.
L'inizio di ripresa vede un Vicenza attento a non scoprirsi, ma punito dopo cinque minuti dal colpo di testa di Gianfranco "Magic Box" Zola su assist di Gianluca Vialli. 2-1 e discorso qualificazione completamente riaperto. Ora al Chelsea basta un altra rete per guadagnarsi la finale e, sotto la spinta incessante di tifosi e pioggia battente, rinchiude il Vicenza nella propria tre quarti per cercare il gol qualificazione.
Al 25' della ripresa Vialli decide di far entrare Mark Hughes sia per una questione tecnica che di cabala, poichè il vecchio Mark nel 1991 ha regalato la Coppa delle Coppe al Manchester United siglando una doppietta in finale contro il Barcellona.
Passano dieci minuti e De Goey "the moustache goalkeeper" anticipa Luiso e rinvia profondissimo: Hughes scavalca con una magia Dicara e incrocia in rete con un sinistro ai limiti del fantascientifico. 3-1 e Stamford Bridge in delirio. Nel finale succede di tutto: Ambrosetti si fa cacciare e prima Di Napoli poi Luiso falliscono il gol qualificazione. Il Vicenza se ne esce tra gli applausi e con il più classico pugno di mosche in mano.


Unica e magra consolazione rimane il titolo di capocannoniere della manifestazione vinto con ben 8 reti dal Toro di Sora che, al netto di un errore grossolano di un guardalinee d'oltralpe, avrebbero potuto essere 9 o più se il Vicenza si fosse qualificato per la finale.
Chiaro e limpido rimane il fatto che con i "se" e con i "ma" non si scrive la storia, al massimo si possono intavolare discussioni con nostalgici di qualsiasi epoca o evento.
Perciò Chelsea in finale e vittorioso sullo Stoccarda con un altro gol di "Magic box" Zola.
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