HELLO FRITZ, FANCY A CUP OF TEA?


C'è solo un modo per far gol a Bert Trautmann, ed è ciccare la palla.
(cit. Neil Young, centrocampista del Manchester City degli anni '50 e a tempo perso Rock Star)


Quando si parla di Manchester si tira in ballo -e credetemi, io ci sono stato- una città che respira e vive di due cose: calcio e musica.
Per quanto parlerei all'infinito del secondo argomento, se in questa sede mi tratterrò dal farlo è solo per non incorrere nell'ira funesta del mio compagno di banco, che mi aspetterebbe al varco del Bar Motta pronto a vomitarmi addosso un rosario di insulti senza pari nella storia dell'homo sapiens varietà cittadinus.
E dato che questo già succede con regolarità senza che mi ci metta troppo di impegno, preferirei evitare un overbooking di vaffanculo e lasciare spazio al football, o sarebbe meglio dire: al fussball.
Già, non ho scritto in tedesco perché preso da un romantico rigurgito di Sturm und Drang fuori stagione, l'ho scritto con consapevolezza.
Ma c'è troppa carne al fuoco: un passo alla volta.

Per prima cosa mettiamo indietro l'orologio alla fine della Seconda Guerra Mondiale, fermiamo le lancette qualche anno dopo la resa della Germania; diciamo il 1949.
Una volta risposto alla domanda “quando diavolo siamo?”, decidiamo con quale parte di Manchester fare all'amore, e scegliamo la sponda blu cielo, quella del City.

Quarantamila manifestanti, al grido di OFF THE GERMANS, protestano nelle piazze della città del Nord Ovest inglese contro la discutibile scelta da parte della dirigenza del City di ingaggiare quel che si dice essere un formidabile portiere, un ragazzone tedesco che viene da un campo di prigionia del Lancashire.
Bernhard Carl Trautmann, nato a Brema nel 1923, è infatti un veterano di guerra (qualcosa come cinque medaglie al valore tra cui La Croce di Ferro; senza entrar nel merito dell'Ars Bellica, se tutti i generali di Hitler avessero avuto questo curriculum ora parleremmo tutti crucco), fatto prigioniero dalle forze inglesi nel 1945.

Occorre però una breve digressione, che tanto breve, lo saprete già, non sarà.
Avete mai visto Steve McQueen ne “La Grande Fuga”


Ecco, immaginatevi il santo patrono di tutti gli ubriaconi al contrario, fatelo parlare nella lingua di Goethe e sarete molto vicini alla descrizione del Trautmann paracadutista della Luftwaffe. 

Bernd, perché così veniva soprannominato dai commilitoni, nella sua carriera militare ebbe infatti azzardo e fortuna sempre dalla sua parte.
Sopravvisse a un bombardamento in Olanda sepolto sotto le macerie di una scuola rasa al suolo, rimase illeso al brillare di una una bomba che gli esplose alla distanza di un dito, venne catturato dagli alleati cui riuscì sempre a sfuggire, e la fece in barba pure agli americani, dileguandosi davanti ad un plotone di esecuzione che non aspettava altro se non di spedirlo senza troppe cere nel Valhalla.

Poi, perché va sempre a finire tutto nel più sarcastico dei modi, mentre scappava dai soldati del fottuto Zio Tom pronti a fucilarlo, saltò una siepe e, nel cadere, si ritrovò davanti al più classico umorismo di oltremanica di due soldati inglesi che non credettero ai propri occhi:”Hello Fritz, fancy a cup of tea?”

Proprio come nel film di Sturges, Bernd venne tradotto in un campo ad Ashton, paese della Greater Manchester che deve avere un qualche legame esoterico con il mondo del pallone, considerando che ha dato i natali a due Campioni del Mondo: Geoff Hurst nel 1966 con l'Inghilterra, e Simone Perrotta quarant'anni dopo con l'Italia, guarda caso, a Berlino.
Come direbbe Max Collini degli Offlaga Discopax:”Se uno ci pensa, non ci può credere”, perché che nascano due Campioni del Mondo nello stesso sperduto paese già è difficile da per sè (ma potrebbero essere fratelli, e allora ok), ma che pure giochino per due Nazionali diverse, beh, è più facile far crescere i mirtilli a bordo della tangenziale est di Milano.

Ad ogni modo, durante una partitella tra la rappresentativa galeotta della prigione e una squadra amatoriale della zona (l'Haydock Park), Trautmann, centrocampista di quantità, si fece male e chiese di giocare in porta.
Non lo avrebbero più tolto dai pali, nemmeno rompendogli l'osso del collo.
Bello spoiler, questo!
In questo nuovo ruolo l'ex-paracadutista si mise in evidenza agli occhi di una guardia che di secondo mestiere scovava talenti, e un club della Merseyside gli offrì un contratto.
Bernd diventò Bert perché gli inglesi parlano bene solo la lingua madre e già fanno fatica a pronunciare due consonanti in fila, figurarsi tre, e per di più nella lingua del nemico, e divenne la principale attrazione del posto.
I ragazzi del Saint Helens Town, grazie alle prestazioni del proprio portiere, approdarono alla finale di un torneo locale, la Mahon Cup, e le gesta di Trautmann fecero stabilire un record di presenze straordinario: un attendance di 9.000 unità.

Ora però facciamo qualche passo in avanti e torniamo nella Rainy Manchester presa da assalto da un esercito di Citizens indiavolati causa la controversa scelta di ingaggiare un Nazista per difenderli dagli assalti pedatori degli avversari.
Ripeto: i giornali dell'epoca parlarono di una folla di quarantamila mancunians incazzati come jene, poi probabilmente per le Forze dell'Ordine si trattava di quaranta disadattati e per i Sindacati di quattrocentomila lavoratori vessati, rimane vero che anche solo accennare ad un numero così alto di contestatori per l'acquisto di un portiere è rob de matt, converrete!
Però, in fondo, è comprensibile.
È un'Inghilterra che ha vinto la guerra, forse la più sanguinosa mai combattuta, ma è pur sempre un paese stremato i cui reduci e i cui abitanti cancellerebbero di buon grado dagli atlanti di geografia la Germania e qualsiasi altro riferimento al Reich.
Invece la dirigenza del City sta imponendo a figli e ai fratelli di questa guerra di accettare tra i propri colori un ex-soldato della Wehrmacht: ovvero come farsi appoggiare il culo in faccia da un bastardo merdoso.
E, come se non bastasse, Trautmann è chiamato sostituire il beloved Frank Swift, idolo di grandi e piccini, cui la sorte (alla quale, come accennato prima, non manca il senso dell'ironia) avrebbe riservato anni dopo un'incredibile fatalità. Il portierone blues di lungo corso sarebbe infatti morto in Baviera (in Germania, e dove sennò? sempre più ingarbugliata questa trama) nel disastro aereo di Monaco, a seguito come giornalista, del primo (pensate un po'!) Manchester United di Sir Matt Busby, quello che per definirlo bisogna andare in prestito delle parole di Manuel Agnelli e riferirsi ad esso come ad “una delle più belle cose mai successe”.


Tuttavia i tifosi del City si rassegnano davanti alla decisione presa, il capitano Eric Westwood, veterano della Normandia, cerca di imbonirsi pubblico e stampa:”there's no war in dressing room”, ma di armi e di guerra molto spesso ne capiscono solo chi le armi e la guerra le ha viste e vissute in prima persona, per cui non bastano queste parole per placare la rabbia e l'astio dei tifosi, e Trautmann deve dimostrare tutto sul campo se vuole scucirsi di dosso l'etichetta del passato scomodo e ingombrante che volente e/o nolente gli è toccato.

Debutto col Bolton e in un amen a Manchester si ravvedono tutti: il tedesco è un talento fuori dal comune. Partita dopo partita i tifosi scoprono che il paracadutista Trautmann è sceso dal cielo d'Inghilterra non solo con la manna ma con l'intero kit dei miracoli.
Per uno abituato a lanciarsi dagli aeroplani tedeschi su città in fiamme, volare da un palo all'altro è uno scherzo da bambini, e fiondarsi contro gli attaccanti in corsa non è nulla per chi più volte ha teso le braccia, ha afferrato la sorte e le ha schiaffeggiato la faccia (sì, non è mia).

Ma la vera montagna da scalare è un'altra, il vero problema per Trautmann è mettere piede a Londra. I tifosi del ManCity hanno ormai imparato a conoscerlo e lo portano sul palmo della mano, ma i londinesi, ancora scossi dal ricordo della battaglia combattuta sul loro cielo e con ancora negli occhi una città devastata dai bombardamenti dei caccia dell'Asse e dai V2 lanciati dalla famigerata base di Peenemunde, sono ansiosi di gridare al portiere dei Blues cosa pensano di lui, del suo cazzo di Reich e delle sue maledette bombe.
Tanto per fare un paragone, se Bert fosse stato Harry Potter, sarebbe stato contento di battagliare contro Voi-sapete-chi, e probabilmente avrebbe preferito farsi ammazzare, piuttosto che andare a Londra e giocare a pallone.

Nel 1950, a Craven Cottage, casa del Fulham, stampa e pubblico presenti hanno messaggi semplici e chiari da recapitare all'indirizzo di Trautmann: Nazi e Kraut sono tra i più gettonati, e vengono intervallati da altri nomi quali razzista, assassino e genocida. Tuttavia il calcio può garantire poche cose, specie se sei un esule e per di più odiato come la peste bubbonica, ma le occasioni di rivincita sono una di quelle, e molto spesso hanno il sapore di qualcosa di straordinario.
Bert, chiude la porta a doppia mandata, diventa man of the match ed esce tra gli applausi convinti dei sostenitori di entrambe le squadre.
Il pallone non aveva avuto solo la magia di aver salvato Oliver Hutton da un camion, ma pure l'incanto di aver affrancato un ex-nazista dinnanzi ai suoi più acerrimi nemici.



Ma la favola non finisce qui.
Bert diventa il beniamino del City e nel 1955 assaggia per la prima volta l'erba del glorioso campo di Wembley per la finale di coppa, primo tedesco a poterlo dire. 
I Blues perdono 3 a 1 contro il Newcastle, ma sono una Signora Squadra e si costruiscono la possibilità di rifarsi l'anno dopo, questa volta contro il Birmingham City.

Il Man City gioca un calcio che in Inghilterra va molto di moda, basato su un sistema (al tempo si parlava di “sistemi” e non di “schemi”), detto il Revie Plan, dal nome del suo principale interprete, l'istrionico e ambiguo Don Revie (per maggiori informazioni guardare il film “Il Maledetto United”) che prevede la costruzione del gioco intorno ad un'unica punta, Revie, beninteso.
Vi chiederete cosa voglia dire, dove stia la difficoltà di questo schema.
Me lo sono chiesto anche io, è mi son dato la risposta più ovvia, che nove volte su dieci è anche quella più giusta.
Nel 1950 il calcio dei Maestri inglesi viene da decadi di gioco basilare e semplice.
Rilancio del portiere, colpisce di testa il giandone di turno, la palla finisce ad uno stornello qualunque che con una sassata dal cortile di casa sua prova a fare gol.
L'allenatore del City Les McDowall lo “rivoluziona” investendo l'attaccante Revie di un ruolo insolito, quello che Gianni Brera ribattezzerà in Italia con il nome di CENTRAVANTI, il quale deve farsi consegnare un pallone possibilmente filtrante da un cursore di fascia, tanto per intenderci: “la classica ala”, passarla al primo uomo libero (quello che ora è conosciuto come incursore), o buttarla dentro “con quanta ne ha", come si dice nei bar delle mie parti.

Intuirete che questo “sistema” prevede un ritmo di corsa e di pensiero elevati, nonché un'incalzante e vivace velocità d'azione.
La cosa strana è che lo stregone McDowall trova proprio nel portiere Trautmann il suo grimaldello di tecnica e tattica, il punto di partenza per il Revie Plan.
Al ragazzone tedesco infatti non è sfuggito lo stile di gioco di un altro grande portiere del suo tempo, Gyula Grosics, estremo difensore della Nazionale Ungherese e del Ferencvaros, il quale preferisce avviare il gioco con le mani anziché tirando campanili alla viva il parroco e chi s'è visto, s'è visto.
Trautmann con le mani fa quello che vuole e, sopratutto, quello che ogni altro portiere -a parte Grosics-  non è in grado di fare.
Caso vuole che nella gioventù hitleriana si sia specializzato in due discipline particolarmente adatte per lo sviluppo di arti che nel gioco del calcio erano ancora sottovalutati: pallamano e palla prigioniera. 
Sapete qual'è l'inglese per quest'ultimo sport: DODGEBALL!
Vuole dire: riflessi esagerati e un braccio in grado di far invidia ai falegnami canadesi e alle schiacciatrici di Pavullo.
Bert lancia la palla con precisione balistica sui piedi di ali rapide come la puzza, le quali dribblano difensori sorpresi e sprovveduti, la consegnano bell'e che pronta al centravanti Revie che segna quando, come e dove vuole.

Con questo sistema il City si presenta a Wembley nel 1956, per la sua seconda finale di F.A. Cup.
A venti minuti dalla fine i Citizens conducono per 3 a 1 e il Birmigham decide di giocarsi il tutto per tutto, lanciandosi in attacchi all'arma bianca. Al 75' Trautmann si trova a tu per tu con Peter Murphy proiettato a rete, non ci pensa due volte e si getta sul pallone ricevendo in cambio una fortissima ginocchiata sul collo, una botta tremenda, di quelle che le sentono anche i sordi. Il tedesco s'accascia a terra, infortunato e stordito; dopodiché, non senza difficoltà, si rialza in piedi. Questa volta è evidente, questa volta non è uscito illeso dallo scontro, tuttavia rimane in campo, anche perché non sono previste sostituzioni, e gli avanza il tempo per compiere un altro intervento prodigioso nuovamente sullo scatenato Murphy.


Il Manchester City vince 3 a 1, e Trautmann diventa idolo del City per l'eternità, e quell'intervento viene tutt'oggi considerato come il miglior salvataggio mai compiuto nella storia della F.A.Cup.
Al momento della consegna del trofeo, il Principe Philip chiede al portiere come stia, e l'inossidabile combattente risponde che è tutto ok, che ha solo un po' di torcicollo.
Alla faccia!
Tre giorni dopo, avendo la testa completamente bloccata, Trautmann decide di farsi vedere da uno bravo davvero un bel po' (come direbbe il mio odiato Ligabue), il quale scopre con sua grande sorpresa che il tedesco, ancora una volta, è vivo per miracolo.
Il referto è di cinque vertebre incrinate, di cui la seconda completamente rotta. Fortunatamente per Bert, la terza di queste s'è incastrata con i due pezzi della seconda, e questo rocambolesco caso gli ha salvato la vita per l'ennesima volta.


Tuttavia, come per ogni buona storia che si rispetti, laddove sono luci, là sono ombre, e quella di Bernhard Trautmann non fa eccezione.
Dopo l'operazione al collo, Bert ebbe grandi difficoltà a riprendersi e, nonostante abbia continuato a giocare fino al 1964 totalizzando quasi seicento presenze con la maglia del City, non fu mai più quello di prima. 
Ma non è solo questo.

Quello che ha fatto è entrato di pieno diritto nella leggenda e i quarantasettemila tifosi del Maine Road che vollere tributargli l'ultimo saluto prima che si ritirasse, oltre a rappresentare una curiosa legge di contrappasso terrena “al contrario” (ricordate la folla oceanica di pari numero che lo accolse agli inizi della sua avventura coi Citizens?) ne furono la più lampante dimostrazione.
E ancora: di Trautmann non si possono nemmeno dimenticare le sue immense qualità di portiere e la sua abilità nel parare i calci di rigore, una percentuale del 60%, come dire che è più facile vincere a testa o croce. 
Famosa è la frase di Sir Matt Busby (di cui ho già parlato nel presente articolo, e se non sapete chi sia, andate davanti allo specchio e ditevi:”Sono un imbecille”):”Don't stop to think where you're going to hit it with Trautmann. Hit it first and think afterwards. If you look up and work it out he will read your thoughts and stop it.”  
Credo che questa raccomandazione sia intuibile anche per chi non sia pratico della lingua di Sua Maestà, comunque vuole dire:”Prima tira, poi pensa a dove tirare”.

Tuttavia anche quello che non ha fatto o che ha fatto male deve entrare a far parte della sua storia perché risponde a un principio fisico di reazione uguale e contraria, e non può essere trascurato.
Tra i suoi racconti incompiuti meritano spazio molti aneddoti e il primo di questi riguarda la sua mancata convocazione nella Nazionale della Germania Ovest. 

Nel secondo dopoguerra la Rappresentativa tedesca venne bandita dalle competizioni internazionali per dichiarato e autoreferenziale senso di antipatia dei vincitori della guerra. Venne esclusa dai Mondiali di Calcio del 1950 in Brasile e fino al '54 disputò amichevoli solo contro le vicine Svizzera ed Austria, e contro la Turchia, la sua futura sorella eurasiatica. 
Venne riabilitata agli occhi dell'opinione internazionale solamente dopo una partita contro l'Irlanda (facente parte del Regno Unito, e come tale ex-nemico di guerra); da lì, come segno di rispetto e ritrovata distensione, il colore della seconda casacca della Germania Ovest divenne il verde.
Lo sapevate? Io no, ve lo giuro. E sempre per una strana questione di coincidenze, verde era anche la maglia di portiere di Trautmann, ed è tuttora dello stesso colore.
Nel 1954, in Svizzera, i crucchi guidati dall'epico Fritz Walter (quello che giocava bene con la pioggia e male col sole) batterono in finale una Nazionale magnifica, l'Ungheria di Ferenc Puskás, una squadra che, tanto per capirci, nei gironi aveva schiantato i futuri Campioni del Mondo per 8 a 3.
Questa vittoria passò alla storia del calcio come “Il Miracolo di Berna”, e fu riconosciuto come una delle principali ragioni di riscatto sociale ed economico della Repubblica Federale di Bonn, qualcosa che andò oltre il calcio, permettendo alla Germania di riacquistare quella fiducia in sé stessa andata smarrita tra gli orrori del Nazismo e le ceneri della Guerra.


Trautmann in Svizzera c'era, ma solo col cuore.
L'allenatore Herberger non era stato disposto a convocare chi non giocava in una qualche squadra tedesca e l'unica che provò a contrattare l'ex soldato di Brema fu lo Shalke 04 cui il City rispose picche, e cui chiese tanti Marchi da mandare al collasso l'intera economia di Gelsenkirchen, something like:”Vogliamo venti volte il suo valore”.

Giusto per curiosità, le uniche partite fuori da Manchester che Bert disputò furono con un “Special XI” da egli stesso capitanato, che includeva giocatori del City e dello United (giusto per dirne due: Bobby Charlton e Denis Law: aggiungeteci George Best e otterrete la United Trinity), e con una rappresentativa inglese di giocatori senza sangue british.

Dette le cose non fatte, veniamo a quelle fatte male.
Va raccontato di come Trautmann non fosse propriamente uno stinco di santo, anzi. 
Venne più volte espulso e squalificato per mattane e nervosismo, non accettava critiche nemmeno quando, come diceva al tempo il suo amico Stan Wilson:”He was picking at daisies”, riferendosi a tutti i gol incassati per mancanza di voglia e di concentrazione, e stabilì pure il record di reti subite in una sola stagione dal Manchester City: cento! Doppio primato se si pensa che gli attaccanti dei Citizens ne fecero altrettanti nello stesso campionato. Da noi si dice:"Andare a farfalle", ma anche "raccogliere margherite" è carino.

Qui un video bellissimo del suo ritorno a Manchester tanti anni dopo. 
Quando piange, quando un crucco piange, fa sempre strano.

È curioso. Girano film su storie minori e personaggi peggiori, tutte al netto di quello che, tanto per ripetermi la millesima volta, non hanno fatto o hanno fatto male.
Del paracadutista portiere non ha ancora parlato nessuno, e dire che è stato un uomo vero ed un giocatore straordinario. Pregi caratteriali e calcistici eccezionali, e difetti comuni, quelli che lo hanno reso solamente più umano e più interessante che, si sa, come canterebbe una grande Rock Star tifosissima del City da tempi non sospetti:True perfection has to be imperfect”. 
E alla fine ce l'ho fatta a parlare della musica di Manchester: non vogliatemene!

Il titolo della pellicola sarebbe semplicemente “Bert Trautmann” e la tag-line non potrebbe essere altro che “Dalla gioventù hitleriana a Cavaliere dell'Impero Britannico, da invasore ad eroe”.


Tuttavia gli eroi incompiuti e difettosi sono un soggetto difficile da sceneggiare, e forse, proprio per questo motivo non abbiam mai visto né vedremo mai alcun film su Trautmann. 
Meglio così, non ne avremmo potuto parlare sugli 11 Illustri Sconosciuti.

Sono esistiti solamente due portieri di livello mondiale. Uno è stato Lev Yashin, l'altro il ragazzone tedesco che giocava a Manchester” 
(Cit. Lev Yashin).

IL CAPPOTTO DI CAMMELLO


Come al solito salto di palo in frasca. Volevo scrivere un post riguardante una storia di fantasia sugli Europei del 1992, quando all'improvviso mi è ricapitato in mano un libro che i due scrittori emiliani (uno noto, l'altro un pò meno) che conosco mi avevano recensito in maniera diametralmente opposta. Si tratta di 'Hanno tutti ragione' di Paolo Sorrentino.
I più attenti di voi ricorderanno una citazione dello stesso nel favoloso post "Questioni di soprannomi" scritto dal mio degno compare e, probabilmente, penseranno o che abbiamo un cervello in due o che era destino che ci mettessimo in combutta perchè le passioni che abbiamo tendono a collimare troppo spesso.
Fatto sta che Tony Pagoda, alias Tony P, dopo aver avuto un diverbio con la moglie ed essersi svegliato nel cuore della notte, decide di uscire per le strade della sua Napoli. Sorrentino descrive molto velocemente il cambio d'abito (da pigiama a vestiti "non borghesi") del nostro Tony, ma non scorda di citare dopo pantaloni, camicia e chiavi di casa il... cappotto di cammello.
Alla prima lettura questo dettaglio non mi aveva scardinato, ma ieri (10/02/2012 ndr) mi sono illuminato stile Barbara D'Urso e, dopo una serie di connessioni neurali di pregevole fattura (da Napoli al Napoli, passando per Felice Caccamo e Renato Cesarini), ho deciso che avrei scritto di quello. Del cappotto di cammello.


Pochi sanno, e sicuramente non ne è al corrente Aurelio "il sobrio ed elegante" De Laurentiis, che i primi trofei che entrarono nella bacheca della S.S.C. Napoli vennero conquistati in panchina da un emigrato di ritorno conosciuto come Bruno Pesaola detto "El petisso" per la sua statura non propriamente da gigante.
Figlio di un emigrante marchigiano, nasce a Buenos Aires il 28 luglio 1925, "El petisso" comincia a trattare la pelota con una certa serietà all'età di 14 anni quando viene inserito, divenendo compagno di squadra del leggendario Alfredo Di Stefano, nelle giovanili B del River Plate. Il suo allenatore è un altro emigrato che porta nel cognome un neologismo ancora attuale nel vocabolario calcistico italiano: Renato Cesarini. Quello dei gol che arrivavano ai tramonti delle partite, i gol in "zona Cesarini".
Brevissimo OffTopic: il gol che fece nascere ufficialmente la suddetta "zona" viene segnato da Cesarini il 13 dicembre 1931 in un Italia-Ungheria 3-2.
Questa breve puntualizzazione la faccio perchè ogni storia, sia essa calcisticamente importante o meno, è più interessante se conosciuta in ogni sua sfaccettatura. I dettagli danno aria di casa, di familiarità e, ultimo ma non ultimo, rendono migliori le pietanze servite.

Bruno Pesaola, seconda punta piccola e agile, non sfonda nel River e cerca fortuna pedatoria nel paese che diede i natali al suo babbo. E la trova: tra il 1947 e il 1961, tra infortuni e goals, attraversa Roma, Novara, Napoli (8 anni) e Genova, trovando anche il tempo di esordire nella nazionale italiana il 26 maggio 1957 contro il Portogallo. A quel tempo, come ora, gli oriundi andavano parecchio di moda.
Appesi gli scarpini al fatidico chiodo, "El petisso" comincia la carriera da allenatore nella Scafatese, club di Serie (allora) C-2 in provincia di Salerno. Nello stesso anno il Napoli disputava, con risultati molto vicini all'abisso della (allora) Serie C-1, la serie cadetta. Durante la pausa invernale, la dirigenza partenopea decise di sollevare l'allenatore Fioravante Baldi e di offrire la panchina al giocatore simbolo ed ultimo capitano del decennio appena passato: Bruno Pesaola.
"El petisso" era giunto, da giocatore, a Napoli nel 1952 a 27 anni. Considerato finito dalla maggioranza degli addetti ai lavori, che allora (come ora) dimostravano saggezza, lungimiranza e poca propensione alle "sparate" inutili, Pesaola accumulò 240 presenze e traghettò il Napoli da CAPITANO nel difficle trasloco dal vecchio stadio "Vomero" al nuovo "San Paolo", che si palesò il 6 dicembre 1959 nella sfida amichevole Napoli-Juventus. Arrotando le S e le C come solo gli immigrati sudamericani sanno fare, ricorda Pesaola: "Il trasferimento a Fuorigrotta fu uno choc. Il Vomero era piccolo, col pubblico addosso, era uno stadio familiare, conoscevamo quasi tutti i tifosi. Il San Paolo era un´immensità. E ci toccò inaugurarlo contro la Juve di Sivori, Charles e Boniperti. Ci facemmo coraggio e vincemmo 2-1, gol di Vitali e Vinicio. Al San Paolo non feci mai gol, ma ci stavo per rimettere un occhio. Nella partita col Bari presi un calcio al viso e rimasi cieco per 48 ore alla clinica Mediterranea. Nella partita contro l´Alessandria vedemmo per la prima volta Rivera. Aveva 17 anni e ci fece anche gol".
Tornando a bomba, Pesaola non solo salva il Napoli dalla retrocessione in serie C-1 e lo riporta nella massima serie con un girone di ritorno ai limiti della perfezione, ma, nella seconda volta nella storia del calcio italiano, porta una squadra di serie B a vincere la Coppa Italia (precedentemente c'era riuscito solo il Vado nel 1922). L'oriundo Pesaola, l'argentino-napoletano col cappotto di cammello, mette in bacheca il primo trofeo della storia del Napoli e diventa un profeta nella sua seconda patria.
A metà della stagione successiva l'uomo, come lui stesso ha più volte dichiarato, da quaranta sigarette a partita (in quel tempo il fumo ancora non uccideva) si separa momentaneamente con il Napoli, che verrà risucchiato nella serie B appena faticosamente lasciata.


Correva l'estate del 1964 e la Società Sportiva Napoli era reduce da una stagnante stagione nelle paludose melme della serie B italiana. Per riportare la società e la città nella categoria più consona venne richiamato proprio "El petisso" che, senza batter ciglio, si riprese la panchina degli azzurri.
Detto-fatto: Pesaola conclude la cadetteria in seconda posizione e riporta i "Ciucci" in serie A.
Si narra che "El petisso" per placare il furore dei tifosi napoletani, desiderosi di vedere una squadra votata completamente all'attacco, facesse amplissimi gesti col braccio sinistro ai suoi giocatori come a dire "Attaccate come se non ci fosse un domani", salvo poi quasi di nascosto, col braccio destro, intimargli di stare indietro, di non prestare il fianco agli attacchi avversari. Dicotomia partenopea in piena regola.
Per celebrare l'annata 1965-66 e il ritorno nella massima serie, il Napoli acquistò nel mercato estivo due oriundi la cui fama non necessita di alcuna presentazione: Omar "El Cabezon" Sivori e Josè "Incredibile ammisci" Altafini che conferirono agli azzurri una credibilità sconosciuta all'interno del calcio italiano. Fino ad allora, si capisce.
Il Napoli si classificherà al terzo posto, eguagliando il suo miglior risultato datato stagione 1932-1933 e vincerà la Coppa delle Alpi.
Che cos'è la Coppa delle Alpi? Quante edizioni si sono disputate? Perchè il Napoli venne scelto per disputare la Coppa delle Alpi?
Al link Coppa delle Alpi, le risposte ai vostri giusti quesiti.
Perchè quello che voglio raccontare è un episodio a cui la Coppa delle Alpi fa da cornice, ergo è inutile che vi spieghi tutta la trafila di questo illustre torneo sconosciuto così cervellotico da sembrar creato in Sud America.
In quell'anno le squadre erano suddivise in due gironi e la formula prevedeva una classifica finale unica.
All'ultima giornata Napoli e Juventus erano appaiate in testa e si sarebbero giocate il titolo al fotofinish. Il Napoli giocava a Ginevra contro il Servette mentre la Juventus se la doveva vedere, sempre in Svizzera, contro la Rappresentativa di Losanna e Zurigo (ho già spiegato prima come le regole del torneo, oltre ad essere poco chiare, lasciassero molto spazio all'immaginazione degli organizzatori).
All'intervallo il Servette conduceva 1-0 e Pesaola, irritato da Sivori che giochicchiava con la consueta spocchia, corruppe lo speaker e fece annunciare a tutto lo stadio che la Juventus stava sbancando Zurigo, portandosi virtualmente la Coppa a Torino.
Pesaola conosceva i suoi polli e sapeva che Sivori, dopo essersi lasciato polemicamente con la Juventus ed in particolare con l'allenatore Heriberto Herrera, avrebbe preso sul personale la questione e avrebbe risolto la partita.
Dopo l'annuncio, che i giocatori del Napoli sentirono nitidamente durante il loro rientro in campo, "El petisso" si avvicnò a Sivori e lo punzecchiò: "Lasci la vittoria al tuo nemico Heriberto, bella figura!". Punto nell'orgoglio il "Cabezon" ribaltò la partita praticamente da solo mandando in rete Canè, Bean e Montefusco. 3-1 e Coppa delle Alpi nella bacheca azzurra.

Pesaola stratega, ma soprattutto Pesaola catechizzatore, parlatore e fumatore instancabile. Pesaola uomo d'altri tempi. Pesaola che porta il Napoli al secondo posto nel 1967-68 e che, dopo svariate diatribe societarie ed ambientali, l'anno dopo di trasferisce a Firenze e vince lo scudetto. Pesaola uomo per tutte le stagioni che più avanti si trasferisce a Bologna, vince una Coppa Italia nel 1974 e che regala, prima e dopo un Atalanta-Bologna una delle migliori lezioni di sagacia mediatica che il calcio pre-Mourinho ricordi.


Nelle interviste pre partita "El Petisso" promise un Bologna votato all'offenisività sfrenata e pronto a mangiarsi i bergamaschi in un solo boccone, salvo poi condurre una partita catenacciara fino all'impossibile e portando a casa il tanto agognato punticino.
Nel post partita un giornalista lo apostrofò: "Lei ci ha preso in giro, lei è venuto a Bergamo pensando che siamo stupidi, spieghi perchè allora il Bologna ha giocato in difesa, al contrario di quello che lei aveva detto!". Pasaola allora rispose: "E si vede che l'Atalanta ci ha rubato l'idea".
Pesaola che prende gli insulti per la cessione di Pecci al Torino, Pesaola che va in Grecia e che salva il Napoli nell'incredibile stagione post-mondiale 1982-1983.
Pesaola che risiede a Napoli e che da lì non si muove, perchè "Napoli è come il quartiere della Boca, a Buenos Aires. Colori, gente, chiasso, allegria, favola, canzoni. Ma qui c'è il mare e là c'è solo un canale, il Riachuelo."


Tre sono i cappotti di cammello famosi. Quello di Alain Delon nel film "La prima notte di quiete". L'altro di Marlon Brando ne "L'ultimo tango a Parigi". Film del 1972. Ma il primo, e il più noto a Napoli, fu il cappotto di cammello portafortuna di Bruno Pesaola, allenatore del Napoli, indossato sette anni prima di Delon e Brando e immortalato nelle foto al San Paolo. (cit. Mimmo Carratelli)

NESSUNO CHE ULIGANA


Cosa ci ha lasciato Alexi Lalas?
Mi sento abbastanza sicuro nel dire: niente. 


Correva l'anno 1994 e, per la prima volta nella storia del calcio, un Campionato del Mondo non veniva disputato né in un paese europeo né sudamericano, ma si giocava negli Stati Uniti d'America.
Nessuno meglio di Elio seppe trasmettere tutta la perplessità nei confronti di questa scelta traducendola in musica con “Nessuno allo stadio” in cui, oltre a chiedersi quale interesse potesse riporre il marito di Lorena Bobbit nei Mondiali di calcio americani, lucidamente sottolineava come la manifestazione perdesse di tutte quelle caratteristiche che sarebbero state scontate se la Coppa fosse stata disputata in un paese dalla lunga tradizione calcistica: 

Nessuno petarda, nessuno fumogena,
nessuno coltella, nessuno bandiera.
Nessuno allo stadio, nessuno che uligana,
nessuno si accalca, nessuno fluidifica,
nessuno sugli spalti, nessuno in panchina. 

 
E rivedendo il video, e con esso sia Feiez che i capelli di Elio, viene veramente tanto magone e io mi sento pure abbastanza vecchio.

Tuttavia, indipendentemente dal Paese ospitante, dalla sua credibilità organizzativa e dalle beffe alla tradizione, una cosa rimane certa, ossia che i padroni di casa, anche nel caso in cui non abbiano il favore dei pronostici, devono comunque farsi valere. E gli USA del pallone non sfigurarono, cedendo agli ottavi solo al Brasile, futuro Campione del Mondo, per una rete a zero.

Caso vuole che gli Stati Uniti persero proprio nel giorno del loro compleanno, il 4 Luglio.
La cosa mi colpì enormemente e, nonostante avessi solo 13 anni, riuscii a realizzare che quella del calcio non era proprio la loro favola.
Se avessero vinto, ci avrebbero sicuramente girato sopra un film, un “Miracle” in chiave moderna, dal tipico spirito pretoriano del “Noi contro tutti”, dove Capitan Meola e compagni, sulla base della grande teoria dei sognatori cazzoni ammerregani per cui “le cose non organizzate riescono meglio” (perché da sempre sembra che “di necessità, virtù” sia un'esclusiva dell'I have a dream made in USA) e tirando fuori giusto un ombrello per affrontare l'apocalisse, battono il Golia della situazione e si consacrano come eroi di una nazione e di un'intera generazione.
Ma quella volta la storia disse loro male e il loro Mondiale e la loro favola si conclusero proprio quel giorno.

Idea tutta mia è che grazie a quella sconfitta gli americani abbiano imparato molto da noi e noi abbiamo avuto modo di disimparare molto da loro, e credo che sia stato un bene per entrambi. Conoscendo i nostri polli credo che probabilmente quel giorno fossero convinti di vincere esclusivamente perché era il 4 Luglio, ed era quindi loro dovuto per qualche ragione di business cinematografico, di nazione eletta o di sogno popolare, ma si resero conto che il Brasile rimaneva il Brasile anche il 4 Luglio, e che in quello che loro chiamavano soccer non c'era differenza tra Potenze, Superpotenze e Stati B, insomma, si resero conto che aveva ragione Elio, che il calcio era un grande rito da rispettare, e che in una situazione di 11 contro 11 non avevano proprio niente da insegnare a nessuno.
Le distanze reali e immaginifiche tra il loro mondo e tutti gli altri s'erano drasticamente ridotte.

Fine della prima parte.


Inizio della seconda parte.


Fin dalla partita d'esordio l'attenzione di tutti i telespettatori viene immediatamente catturata, oltre che dalla maglietta carnevalesca degli Stati Uniti, ricavata in un secchio pieno di varechina, anche dall'ultimo giocatore inquadrato dalla carrellata, proprio quello alla destra del fratello brutto di Dave Grohl.
Gli altri dieci sono totalmente avulsi da ogni contesto, roba che se fossero persone a caso estratte dal pubblico, nessuno se ne farebbe meraviglia.
Ma l'ultimo ha un suo perché e, di primo acchito, anche tanti perché no.
Si chiama Alexi Lalas, e oltre al nome esotico dalle chiare origini elleniche, la bizzarria del personaggio è evidente: capello rosso-carota folto e fluente, pizzo caprino, faccia da rock star.
La prima impressione è che sia un caso umano, uno che col calcio non c'entra nulla, e che non sa nemmeno distinguere la linea di metà campo da una linea telefonica.
La scena naturalmente è tutta per lui: come è vero che ogni frutto ha la sua stagione, ogni Mondiale ha il suo fenomeno da baraccone, e lui ha le carte in regola per sbaragliare tutta la concorrenza.

Eppure, nonostante tutto, il campo gli dà ragione, si dimostra un difensore affidabile e generoso, un buon spazzino che tira giù la saracinesca con puntualità, e qualcuno dall'altra parte del mondo, certamente anche per ragioni di marketing legate a trucco e parrucco dell'americano, decide di ingaggiarlo.

Sbarca in Veneto e gioca per il neopromosso Padova.
Dopo un difficile periodo di ambientamento in cui appare sofferente in terra ed in ritardo in cielo, scansa lo scetticismo generale a forza di cucci e spintoni, diventa titolare inamovibile dei biancorossi di Sandreani, e si piglia pure la soddisfazione di segnare ai Campioni d'Europa del Milan.
Giocherà un totale di 44 partite in Serie A e segnerà altri due gol.
Dopodiché tornerà negli Stati Uniti, e qualche tempo dopo metterà letteralmente la testa a posto, passando da barbiere, sarto e bancario.


Ma tutto questo ci interessa poco.

Alexi Lalas, il Rocker di Padova, è stato una delle ultime figure di puro folklore del nostro calcio.

Nella Serie A del tempo, straseguita e, di conseguenza, straviziata, le sole cose che contavano erano divenute prestazioni e stipendi. Ma Alexi era un hippy, moderno se vogliamo, ma pur sempre un hippy, e questi legacci gli stavano stretti. Per cui, se in campo faceva il suo, una volta fuori si scatenava come nessun giocatore faceva più, troppo occupato a barattare a peso d'oro ogni minuto di allenamento o di partita con società e dirigenza, troppo impegnato a prendersi sul serio per ritrovarsi schiavo del personaggio-calciatore.
Proprio per queste ragioni Lalas, dopo aver trascorso i pomeriggi a giocare a calcio coi ragazzi del quartiere, la sera si esibiva nelle osterie di Padova, imbracciando una delle tante chitarre che aveva importato dal Michigan al Veneto e strimpellando un pezzo della sua band, i Gypsies, per poi rincasare a notte fonda, tra schiamazzi (come direbbero i carabinieri delle barzellette “così molesti da essere definiti notturni”) e pallonate contro i portoni dei garage del vicinato.

Anche quando doveva piegarsi alle regole del business e del bon ton televisivo, e veniva chiamato a rispondere in maniera scontata a qualche domanda banale del Mario Sconcerti del tempo che nessun José aveva ancora mandato in mona, il Rocker di Padova riusciva sempre ad uscirsene in maniera originale.  
"Io penso che Zeman è un vaffanculo", ebbe a dichiarare il nostro eroe. 
Purtroppo il video in cui era possibile gustarsi questa intervista è stato rimosso dai canali di Youtube proprio mentre viene pubblicato questo articolo.

Gli altri potevano avere i soldi, ma lui aveva anima e passione, e questo faceva sì che stesse sempre dalla parte degli angeli anche e soprattutto quando, in dopo-gara concitati, provava a spiegare agli agitati tifosi patavini che lui aveva dato tutto, e che non si poteva sempre vincere.
Calza bene quanto scritto una volta da Giovanni Arpino:“Gli straccioni di una volta: ciascuno un fenomeno, matti ma uomini veri”.
Peccato però che agli italiani, che come diceva Churchill: “perdono le guerre come se fossero partite di calcio e le partite di calcio come se fossero guerre”, puoi spiegare tutto, ma non che non si può sempre vincere. Tutt'al più devi trovare capri espiatori, qualcosa cui aggrapparti a mo' di giustificazione, insomma: c'è sempre un rimedio per uscirne lerci dentro ma puliti fuori, perché siamo in Italia, perché accà nisciun' è fess, e perché siamo esperti nel lavarci la coscienza.

Noi amiamo i flamers, stravediamo per gli istrioni maliziosi alla Mourinho, viviamo sui provocatori, e il rapporto è reciproco, tutta gente che non riesce a fare a meno di noi.
Del resto un paese che in ogni ambito è retto da secoli di testadicazzocrazie è inevitabilmente terra fertile per figli di puttana conclamati.
Ed è proprio per questo che, come anticipavo all'inizio, il Generale Custer dei Colli Euganei a noi italiani non ha lasciato niente.
Se qualcuno ci divide siam più che pronti a organizzare comitati a favore o contro, ma i personaggi peace & love che non pretendono di spiegarci nulla se non le braccia, da noi non durano tanto; hanno la stessa storia della vacca Vittoria: morta la vacca e finita la storia.

Alexi Lalas ha brillato come un petardo, è stato spettacolare quanto breve e qualsiasi testamento ci abbia lasciato noi non l'abbiamo letto, neppure quando avremmo dovuto farlo, se non altro per riderci sopra.

 
Non so voi, ma quando io ho rivisto Gennaro e Luis mi sono commosso.
E soprattutto Aldo, Giovanni e Giacomo facevano ridere anche quando non si impegnavano.
Come ha detto un mio amico:”un tuffo al cuore”.

Curiosità: la maglia che Alexi Lalas indossa nel corso di questa straordinaria performance è quella del college dove ha tirato i primi calci, il Rutgers.

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