GOSPEL - un disco di Davide Ravera

Siccome siamo gente normale, abbiamo pensato che, per tornare a ripopolare il blog, potesse essere un'idea abbastanza divertente recensire un disco utilizzando i nostri riferimenti footballistici.

Abbiamo così pensato di farlo per una persona che se lo merita per tutta una serie di motivi che non siamo tenuti ad elencarvi.

Lui è Davide Ravera, il suo disco si intitola Gospel e nelle righe sottostanti trovate la nostra personalissima recensione.


01. La vita segreta di Dio

Non una scelta usuale per aprire l’album, questa bossanova (utilizzo bossanova perché qualcun altro lo ha scritto e le mie fonti musicali mi assicurano che ci può stare) risulta essere un passo d'esordio particolarmente piacevole dell’intero album e soprattutto un cappello perfetto per quello che sarà il dipanarsi della trama.
Un’improvvisazione filosofica che cerca e, infine, riesce a non scadere nella banalità della ciarla da bar o nella dissertazione da matricola fumata persa a guardare le stelle che si mostrano sopra il parco Novi-Sad.

Parco Novi Sad - Modena - Nightime

Fermandosi solo ed esclusivamente al titolo, l’alter-ego calcistico naturale del pezzo sarebbe l’unico vero D10S esistito su un campo da gioco; uno che di vite segrete ne ha vissute tante da dimenticarsene sicuramente alcune, anche solo per manifesti stravizi. Invece, dando un’interpretazione più pedissequa del testo, il punto è che questa vita segreta non è improntata al vivere al massimo per godersi tutto, ma piuttosto un tentativo di astrazione dalle aspettative di infallibilità. Dio vorrebbe essere umano per poter, forse, sbagliare, ma soprattutto, per come ho inteso, per poter osservare senza la pressione che lo contraddistingue com’è la vita degli esseri da lui creati.
E allora, per forza di cose, da Villa Fiorito, dove mi ero erroneamente diretto, ci dobbiamo spostare a Manchester. Perché la vita segreta di Le God ce la può spiegare solo lui.
Scrivere di Cantona sarebbe come cercare di dare un senso a dio: tanti ci hanno provato ma nessuno ci è riuscito in maniera perfettamente compiuta. E come avrebbero potuto?

“Con quella fascia al braccio e con quel petto in fuori sembrava il fottuto padrone di Old Trafford.” Roy Keane

Eric Cantona è la perfetta incarnazione di un dio bizzoso, altezzoso ma anche magnanimo, buono, dal cuore d’oro. Ha peregrinato portando la sua parola, le sue gesta. Ha predicato nel deserto, contro farisei ostili (per informazioni recarsi presso la Commissione disciplinare della federcalcio francese) e contro folle adoranti che continuavano a voler libero Barabba invece che lui. È passato da Marsiglia, Montpellier, Nimes, Leeds e Manchester. E non ha solo vinto, ha incantato. I segni del suo passaggio riecheggiano ancora oggi negli stadi che frequentato. Perché essere dio significa portarsi dietro il magnetismo e il carisma di un essere soprannaturale.
Ha segnato gol bellissimi ed indimenticabili. Gol importanti e dal peso specifico incalcolabile, ma fedele alla sua natura, ci confessa, nel film di Ken Loach il mio amico Eric, che i gol per lui non erano niente di così speciale.

Perché tra tutti i momenti di assoluto protagonismo che Cantona regala alla grigia Manchester, quello che sente più suo è qualcosa di altro da sé. L’attimo migliore della vita segreta di God non è un gol, non un numero finalizzato a segnare, a tenersi la gloria in solitudine – come tutti gli esseri umani – ma un passaggio smarcante, un assist. Nella fattispecie quello per Denis Irwin in uno United-Tottenham: un’invenzione deliziosa di esterno sinistro. È l’attimo migliore per la fiducia che ha nei suoi compagni pur essendone il condottiero, per la possibilità di vedere negli occhi dei tifosi la gioia per una rete inaspettata, geniale, ma non messa a referto da Eric Cantona.
Perché Eric ha capito. Ha capito che essere God è ergersi sopra tutta la sua gente – compagni compresi – ma che senza di loro lui non sarebbe nulla. Perché la sua divinità è stata creata da loro e non viceversa. Per questo motivo è lui ad avere bisogno di loro, anche più di quanto loro ne abbiano di lui. Ed Eric lo sa, ma è l’unico a saperlo.
Esattamente come Dio che ha bisogno degli uomini per esistere.



Perché “Quando i gabbiani seguono il peschereccio è perché pensano che delle sardine stanno per essere gettate in mare”.




02. Dovresti leggere di più il vangelo

Questo è un pezzo semplice nella migliore accezione del termine. È bello e lineare come, appunto, solo le cose semplici sanno essere.
La straordinarietà dell’ordinario di questa canzone può essere paragonata solo e soltanto ad un uomo: il loquace Dino Zoff.


Non un gesto fuori posto, lasciando spazio, proprio come il pezzo di cui sto pontificando, alla sostanza - senza la quale è un po’ un casino approcciarsi a tutto il creato - facendo fuori l’eccentricità  e certe sovrastrutture che il rock e il ruolo del portiere si portano appresso sin dalla notte dei tempi.

Esattamente come quando, il 5 luglio 1982 nell’immortale giornata del Sarrià, Dino si esibì nella parata più importante della sua carriera.
Con l’Italia misteriosamente in vantaggio 3-2 su di un Fanta-Brasile, risultato che avrebbe qualificato gli azzurri alla semifinale del mondiale di Spagna 1982, una punizione di Eder dal lato sinistro dell’area dell’Italia andava a finire diritta sulla testa di Oscar (che il buon Martellini scambiò per Isidoro) che indirizzava il pallone nell’angolo alla sinistra di Dino. Sarebbe stato il 3-3 e l’eliminazione, ma Zoff andò giù e inchiodò il pallone alla riga di porta, sancendo l’eliminazione carioca.


“La fermai sulla linea e lì, veramente, passai 5 secondi terribili di paura che l’arbitro potesse veder male”.

Ma no Dino, la semplicità non è un delitto e viene sempre riconosciuta.
Come il pezzo n° 2 di Gospel.



03. Emozioni deboli

C’è un uomo che rappresenta alla perfezione “Emozioni deboli”, ma specialmente la ricerca di esse: il suo cuore è rosso e nero e il suo nome è Mauro Tassotti.

La sovrapposizione tra questo pezzo che attinge al rock più classico (ci sento tanta influenza degli Stones, ma magari sto prendendo una cantonata epocale) e la storia di Mauro Tassotti mi è apparso in tutta la sua completezza nel verso “c’è un angolo di backstage dove gli sbirri non vengono” e il perché si esemplifica nel filmato che segue:

"C'è un angolo di backstage, dove gli sbirri non vengono"

Terzino destro sagace e di assoluta intelligenza ed abnegazione, Tassotti ribalta un classico luogo comune essendo lui un romano che trova il paradiso – anche se sarebbe meglio dire l’inferno dato che stiamo parlando del Milan – nel capoluogo meneghino.

“e poi d’improvviso il Diavolo”

Mauro è parte insostituibile dei mitici Beatles della difesa degli invincibili rossoneri (composta, oltre che da lui, anche da Baresi, Costacurta e Paolo Maldini) con cui ha attraversato le paludose annate di inizio anni ’80 tra serie A e serie B fino al tetto d’Europa e a quello del mondo, ma resta spesso sempre un passo indietro agli altri specie quando c’è da farsi “vedere” in situazioni che di calcistico hanno ben poco.
Il momento di massimo protagonismo lo vede alzare la Coppa dei Campioni 1994 ad Atene, vinta maramaldeggiando sulla spocchia di Johann Crujiff e del Barcellona.

"C'è un angolo di backstage dove i narcotici abbondano"

Per il resto della carriera e anche nel periodo successivo, Mauro Tassotti è un uomo schivo, un uomo che ha già vissuto “forte” e che, per sé, vorrebbe solo emozioni deboli.
E se da un punto di vista sportivo sceglie di rimanere a Milano e al Milan restando nell’ombra – insostituibile ma nell’ombra – è da un punto di vista personale che restare lontano dalle emozioni forti diventa un imperativo categorico oltre che, credo io, un gesto di forte protezione per sé e per i suoi figli. Perché il colpo della scomparsa della moglie (nel febbraio del 1997, sua ultima stagione da calciatore) è una ferita che mai si rimarginerà ed è una cicatrice da custodire gelosamente senza dover prendere parte alla giostra di dolore mediatico che colpisce chi vive o ha vissuto sotto i riflettori.

Per questo immagino che allenando la primavera o facendo il secondo ad Ancelotti, Allegri, Seedorf e Inzaghi, o adesso, mentre controlla lo status dei ragazzi rossoneri che girovagano in prestito per la penisola, Mauro si sia ritagliato il suo angolo di backstage.
Un angolo da cui “Se stringi gli occhi e fai due passi indietro la verità sfuocata fa meno male” e poter nuovamente guardare la foto di Antonella e ripetersi di nuovo “Non so più dove finisco io e cominci tu”.

il video è un'opera d'arte moderna a firma Domenico Guidetti e Order of the Black Knights

04. Amore chi amore cosa

è alla stessa pagina di ‘O Rey de Crocefieschi, al secolo Roberto Pruzzo: una canzone ed una storia che cantano un amore non corrisposto di una tristezza invincibile. Quando l’11 Luglio del 1982 l’Italia intera scendeva nelle piazze per festeggiare gli eroi che in Spagna s’erano appena laureati Campioni del Mondo, c’era chi, chissà dove, quella sera un po’ moriva. 

Con me al posto di Zoff, Pertini non avrebbe mai picchiato i pugni sul tavolo

Roberto Pruzzo, capocannoniere della Serie A, non era stato convocato ai Mondiali spagnoli: chi aveva diramato le convocazioni, ovvero “Il Vecio” Bearzot, al suo posto aveva chiamato l'unico calciatore mai nato in Basilicata (certificando pure che la Basilicata esistesse veramente), ossia Franco Selvaggi e perfino il giovanissimo Daniele "Provvidenza" Massaro, all'epoca ventunenne. 

Mister Baffo

‘O Rey de Crocefieschi, qualora fosse stato selezionato si sarebbe trasformato, divenendo un uomo più forte, in grado di rendere l’Italia una squadra più forte, ma chi scriveva i testi della sua vita non lo aveva preso in simpatia, lo teneva in considerazione, certo, ma pur sempre sotto un cono d’ombra oltre il quale non avrebbe potuto spiccare il volo e librarsi per sempre “tra quelle nuvole”. Avrebbe potuto far parte della spedizione ma con lui le immagini nello specchio degli attaccanti si sarebbero ripetute all’infinito, quando il Vecio aveva già scelto, aveva già stabilito chi sarebbe stato l’amato e cosa sarebbe stato l’amore. Avrebbe dovuto chiedere a ‘O Rey di accontentarsi di un ruolo da comparsa ma sapeva che una richiesta così non avrebbe avuto alcun senso e nessun pro: non si poteva chiedere di atterrare alle aquile. Non credo possa mai aver detto una cosa del genere ma potrebbe averla pensata (e nel qual caso mi sentirei di condonare la cosa) ma forse, quell’11 Luglio 1982, tra cinquanta milioni di italiani c’era qualcuno che, forse a Crocefieschi, augurava alla propria amata, da cui era stato orribilmente rifiutato: “Magari solo per un po’ ma stasera muori”.



05. Senza te.

L’essere figlio di un dio minore o, peggio, essere stato abbandonato dal dio più alto in grado: è questa la sensazione trasmessa dalla musica e dal testo di questa sofferta canzone di passione a latere. Il ritmo è incalzante e allo stesso tempo nervoso perché non c’è nulla di più urgente di qualcosa che non si può più avere né ricostruire. 
Potrebbe essere la storia di Paul “Gazza” Gascoigne e del suo rovente amore con il calcio, che lo rivuole indietro perché senza di lui tutto muore, non c’è un attimo di sole, non c’è più nessuno che illumini la scena. 

Gazza ed io in un'immagine di repetorio

Nella partita doppia dei ricordi sono troppo spesso i magoni ad averla vinta e solo quando finisce il mazzo ci si rende conto delle carte che sono andate perse, che erano troppo belle per non bruciarsele tutte subito. Dimenticare amori così, giocatori così non è possibile; non ha più importanza di cosa si sia trattato: se di affetto o sveltine gratis o a pagamento. 

Da guardare e riguardare fino a che uno non si stanca

Ciò che conta è che qualcosa non c’è più, che non si riuscirà più a farci ridere come Gazza che litiga con Vinnie Jones, che ammonisce l’arbitro, che si presenta sbronzo in pigiama durante un blitz per incastrare un assassino, che “vaffanculo Norvegia”, e che piange come un bambino ai Mondiali di Italia ’90 dopo essere stato ammonito contro la Germania Ovest. Il calcio non potrebbe dimenticare Paul Gascoigne nemmeno se volesse.




06. Cose calde.

Il ritmo e le intenzioni di questa canzone celano dietro un velo di leggerezza una storia di amore, tradimento e morte. La chitarra pulita in levare, la voce piacente, la batteria sorniona e informale inducono a credere il contrario, ma il significato è all’opposto del prisma: l’ennesima dimostrazione che non sono le note che vengono suonate ma quelle che non lo sono, a fare la differenza, a bucare i nostri schermi mentali con la rabbia di un treno. E se c’è un racconto che con la rabbia di un treno ha bucato il mio, di schermo mentale, è quello di Agostino Di Bartolomei.

Quando si dice avere le stigmate del Leader

Ago, detto anche Diba, è stato lo storico capitano della Roma di fine anni ’70 e inizio anni ’80. Giocò più di trecento partite per la Lupa e quasi la metà di queste con la fascia al braccio. Segnò sessantasei gol, un bottino strepitoso per un centrocampista che spesso ripiegava in fase difensiva. Guidò la Roma alla conquista dello Scudetto e di tre Coppe Italia, arrivando sino a disputare l’unica finale di Coppa Campioni del club capitolino, perdendola contro il Liverpool ai rigori. E per giunta proprio a Roma.

Nonostante questa sconfitta potesse apparire come un'avvisaglia del vecchio e tragico motto che vuole che nessuno sia profeta in patria, ad Ago era stato chiesto di amare la propria squadra e lui, romano e romanista, con cura lo aveva fatto.
Ma nell’estate del 1984, Sven Goran Eriksson, un emergente tecnico svedese che ben presto avrebbe fatto parlare di sé, e che impostava il gioco delle proprie squadre sulla corsa e sulla velocità, non vide negli schemi lenti ma ragionati, e nel piede compassato di Ago, qualcosa di adatto al proprio stile. 

Barilla è stato in assoluto il miglior sponsor della Roma

La Roma, la sua amata, non si fidò di lui e cominciò a vacillare fino a tradirlo, quando, dopo la finale di Coppa Italia dello stesso anno contro il Verona dei miracoli di Mister Bagnoli, Di Bartolomei disputò la sua ultima partita con la casacca giallorossa. 
Si traferì quindi a Milano, sponda rossonera dei Navigli e dopo poche giornate si ritrovò di fronte la sua ex-squadra, il suo vecchio amore. Segnò il gol della vittoria ed esultò con vibrante spirito di rivalsa. Fu la goccia che fece traboccare il vaso: la Roma gli voltò completamente le spalle, riservandogli una ruvida e triste accoglienza in occasione del match di ritorno, quando il tradimento e l’abbandono si fecero cassazione e non poterono più essere perdonati.

Poi, come qualcosa destinato a proseguire ineluttabilmente male, o comunque peggio che mai prima, a Di Bartolomei vennero riservate ancora piccole gioie perché era un uomo forte e refrattario al tramonto. Si trasferì a Cesena, ove gli vennero affidati i gradi per manifesta superiorità tecnica e in virtù di un’esperienza tale da poterne dare via in sconto. Guidò la compagine romagnola ad una tranquilla salvezza, cosa che alle latitudini della Riviera equivale a vincere un campionato. 

Noi siamo dell'Erotica, tifosi del Cesena, c'abbiamo il cazzo in canna e la cappella bianconera

Tuttavia la sua stella stava tramontando. Sebbene Diba cercasse di anteporre l’ottimismo della volontà umana al pessimismo della ragione calcistica, un pericoloso sentiero era stato tracciato lungo quello che sarebbe divenuto il suo inferno privato, e lui non poteva far altro che percorrerlo. La stampa, quella più o meno autorizzata, gli esperti o sedicenti tali, lo stavano abbandonando: ormai apparivano come una folla lontana che ogni tanto passava a trovarlo. Niente di più. 
Agostino Di Bartolomei chiuse la carriera a Salerno, traghettando l’undici campano fino alla cadetteria, facendo quello che sapeva fare meglio: trascinare i compagni, esserne il Capitano.

Tuttavia anche queste ultime magre soddisfazioni scemarono del tutto e, infine, quasi fosse chiuso in buco, venne il buio; la sera della sua esistenza lo raggiunse un notte di Maggio in cui ricorreva l’anniversario più nefasto: la sconfitta della sua Roma contro il Liverpool nella finale di Coppa dei Campioni di dieci anni prima. Una delle partite più amare di sempre, conclusa ai rigori e di cui si ricorda il portiere-pagliaccio Grobbelaar che stregò Bruno Conti prima e scherzò Ciccio Graziani poi. Quando vale il detto: oltre il danno, la beffa.

Ognuno fa quel che può

Ebbene, esattamente dieci anni più tardi, quella tragedia sportiva veniva drammaticamente rievocata, e se ne celebrava un’altra di tutt’altra fatta, quando Ago si sparò al petto con la sua Smith & Wesson calibro 38.

Senza parole

Aveva dato speranza a tutti quelli che aveva incontrato: evidentemente non aveva tenuta alcuna per sé stesso.
Lo aveva bevuto fino in fondo, il suo amore perfetto, sperando forse che qualcuno lo desiderasse ancora mentre premeva il grilletto.





07. Io, lui, lei a l'altro

In una lussuosa villa di Porto Alegre un uomo sulla sessantina esce dalla doccia e si guarda allo specchio. Si piace: per la sua età è ancora un gran bell’uomo.
Stretto nell’accappatoio rosso si rimira nello specchio e trova un lieve difetto nel momento che sta vivendo: non c’è musica. E, come ben sappiamo, per i brasiliani la musica è parte integrante del tutto.
Perciò si reca nei pressi dell’impianto hi-fi, regalo di un datore di lavoro italiano a cui – ricambiato - ha voluto molto bene e comincia a rovistare nell’infinita collezione di vinili che lo circonda.


Da quando Paulo Roberto Falcao è entrato in possesso di ‘Gospel’ è entrato in uno strano loop psicologico. Pubblicamente ha sempre dichiarato di aver rimosso, o almeno di essere venuto a patti, con quella serata di maggio del 1985. Ma intimamente, specie in alcune giornate di solitudine nella villa di Porto Alegre, sapeva che non era così. Non riusciva a spiegarsi perché decise, di botto, di rinnegare la sua leadership e di lasciare la sua Roma senza il suo carisma.
Tutto questo fino a che, un amico che non si volle firmare, gli spedì questo disco. Al suo interno, Paulo Roberto, trovò solo un post-it con scritto in stampatello una sola frase: OUVE A 7 (trad. ascolta la 7).

Si è sempre considerato, a ragione, un uomo intelligente Falcao ma al primo ascolto di ‘Io, lui, lei a l’altro’ non trovò nessun nesso con la sua vita.
Poi in questo tramonto passato sul suo prominente balcone ad osservare il paesaggio mozzafiato di Porto Alegre, sorseggiando un bianco di Frascati che gli era arrivato insieme al disco, Paulo Roberto capisce tutto.
Scosso da un fremito potente e liberatorio, corre ad alzare la puntina del giradischi per far ripartire il pezzo in questione. 1, 10, 1000 volte. Ha finalmente capito tutto.
“È chiaro! Come ho fatto a non arrivarci prima!”
Paulo Roberto Falcao prende la cornetta e compone un numero che non faceva da anni: stava chiamando Roma.


Pochi giorni dopo quell’epifania, due uomini, con addosso l’evidenza del loro essere forestieri, stavano citofonando per entrare nella villa di Falcao.
“Entrate e accomodatevi” fece lui.
Misero in piedi un’intervista alla svelta, tanta era la fretta di Paulo Roberto di condividere quello che aveva compreso.
“Torniamo a quel Roma-Liverpool Paulo, ti va?” fece l’intervistatore con un chiaro accento romano.
“Sì. Ora ho capito tutto.” rispose Falcao che, nel frattempo, si era alzato per far partire il pezzo sul giradischi. “Non ero mai riuscito a spiegarmi realmente cosa accadde quella notte, ma ora lo so. Ascolta attentamente.”
Passati i 2 minuti e 57 secondi, nella testa dell’intervistatore balenò un lampo: Falcao è diventato completamente scemo.
“No, non sono diventato scemo, amico mio. Hai ascoltato il pezzo? Sì? E cosa ti fa venire in mente?”
“Una storia d’amore particolarmente complicata.”
“Nient’altro?”
Silenzio.
“Questa è la storia di un calcio di rigore. E, in particolare, del rigore che non ho voluto tirare contro quel maledetto Liverpool.” Falcao si alzò di nuovo e fece ripartire ‘Io, lui, lei e l’altro’.


“Ascolta bene. Contestualizza il pezzo in quella notte di maggio. L’io della canzone è il rigorista alle prese col tempo che stringe e con l’ineluttabilità dell’evento. Lei è la palla (“a volte si confonde, per questo non ci chiama mai per nome"). Lui è il portiere. E l’altro, beh, l’altro è quel bastardo di un arbitro: un uomo senza cuore che gode nel dettare regole agli altri. Capisci adesso?”
“Onestamente Paulo non ci sto capendo un cazzo.”
“Tu la vorresti vivere una storia del genere?”
“No. Credo proprio di no.”

“Esattamente. Nessuno vorrebbe vivere una situazione così. Ed è la stessa situazione del rigore di Roma-Liverpool. Non è che mi sono solo rifiutato di calciare un rigore, io ho preso una posizione netta nella mia vita. Affanculo la squadra, la città, l’appartenenza e tutte queste retoriche da bar, io una storia così non la volevo vivere. E non la voglio vivere nemmeno adesso. Io non volevo essere nessuno di quei 4, ho solo voluto essere e voglio essere solo Paulo Roberto Falcao: uomo e, per un po’ di anni, calciatore.“




08. Canzone Ruvida.

Scrivo a braccio perché non posso che fare così.


Allo showcase presso IL POSTO, Davide, prima di presentare questa canzone, avrebbe riferito che qualcuno un giorno gli avrebbe chiesto: ”Ti ricordi quando ancora scrivevi belle canzoni?”. E il nostro avrebbe poi chiosato sentenziando:” Ecco che razza di persona vi siete persi”. Purtroppo però questo è quello che credo o che mi sono immaginato dopo (e forse a causa di) una lunghissima giornata alcolica trascorsa con Santu, donna Ilenia e Salvia, tra mansarde che guardano i tetti di Modena, negozi di cinesi “ciao-glaziah!” e duemila birre in Pomposa. Infatti io ero convinto che Dave stesse ricordando qualcuno che non c’è più e cui ho la presunzione, abbastanza certa, sia dedicata la canzone in questione. La realtà è ben diversa, infatti Santu, qualche tempo più tardi, mi ha rivelato che con la sua introduzione Dave non voleva menzionare nessuno se non il suo bassista, quindi potrebbe essere stato bellamente un viaggio mentale presente solo nella mia testa.


Sono stato cacciato fuori da questo locale

Tuttavia nulla mi impedisce di prendere questa cosa e farne un po’ la testa di ponte per quello che mi viene in mente, specie perché collegare una canzone così dentro Modena, così dentro l’Emilia (ruvida di nome e di fatto), ad un calciatore o alla sua storia è davvero difficile, per non dire impossibile.
Questo pezzo è uno squarcio drammatico di Modena, una sorta di “festa al contrario”, un invito che farei a qualcuno che non conosce la città, chi la vive e la fa vivere, chi l’anima. Molinari, Via Carteria, la Pomposa, Ermes… c’è una passione viscerale dietro queste parole, quasi malata, fatale è forse la parola giusta.
E allora voglio cambiare totalmente registro e buttarla letteralmente in caciara.
Prima però va fatto un breve amarcord. Qualche anno fa, sarebbe meglio dire diversi inverni fa, io e alcuni amici eravamo i massimi fruitori di un forum cui partecipava la persona cui credo sia dedicata la canzone. Successe che una volta, su questo social, l’omino cui mi sto riferendo decise che si doveva organizzare un fanta-quadrangolare tra squadre inventate, assortite in base a criteri di animali, colori, nobiltà e luoghi. Ai topic contribuì ogni membro del forum ma il commissario del flusso creativo fu lui.
Nella prima partita si affrontavano la squadra dei colori contro quella degli animali. Notare che la squadra dei colori in panchina potesse contare anche su Ross Brawn. Quella degli animali schierava un interessantissimo 2-6-2, con due pastori tedeschi, e in panca aveva SB9.

SQUADRA COLORI
Gen.Rossi
Negro DeRosa Brown
DelNero Rosina Morrone DeRossi
Bianchi Gius.Rossi Bruno

All.: Carlos Bianchi; Del Neri; Delio Rossi
Arbitro: Rosetti

Panchina: S.Rossi, Bianco, Verdelli, Rossitto, Celestini, M.Rossi, Ross Brown




SQUADRA ANIMALI
Lupatelli
Falcone Tedesco
Gatti Palombo Volpi Tacchinardi Aquilani Gattuso
Leon Quagliarella

All.: Wolf
Dirigente: Galliani

Panchina: Orsi, Galli, Piccioni, Riccio, Volpato, Bertacchini, Galletti





Purtroppo la compagine dei luoghi non disputò mai la partita contro quella della nobiltà, ma abbiamo le rose.

ROSA LUOGHI
PORTIERI:
Berni (Berna, città Svizzera), Campagnolo, Navarro
DIFENSORI:
Ascoli, Cordoba, Di Loreto, F.Pisano, M.Pisano, Potenza, Sardo, Siviglia
CENTROCAMPISTI:
Bresciano, Caserta, A.Filippini, E.Filippini, Foggia, Milanetto, Gia.Tedesco, Gio.Tedesco
ATTACCANTI:
Brienza, DiNatale (il luogo "natale"), Forestieri, Pato (Prato), Pisanu, Pozzi (Pozza)




ROSA NOBILTA'
PORTIERI:
Castellazzi, JulioCesar, JulioSergio
DIFENSORI:
Castellini, Contini, Galante, Modesto, Santacroce, Santos, Signorini, Stendardo
CENTROCAMPISTI:
Abate, Barone, Baronio, Cesar, Conti, Marchisio, Morfeo, Sammarco
ATTACCANTI:
Chiesa, Palladino, PapaWaigo, Recoba, Reginaldo, Rocchi




Mi rendo perfettamente conto di essere andato off topic, ma questo passa il convento.
Ecco che razza di persona ci siamo persi.




09. Ridammi i miei trenta denari

Che Davide abbia un po' di Francia dentro, lo si evince da due cose: dai vini pregiati che sovente arredano le sue preziose cene e da questo episodio del disco.

Scrivo episodio anziché pezzo, perché questa è una roba a sé stante, un flash onirico ed estemporaneo che arreda (come i vini di cui sopra) il disco.

Ciao sono Davide e vi spiego un paio di cose

Se foste nei miei panni e, quindi, conosceste il valore intrinseco e purtroppo profetico di questa canzone, avreste, come ho io, seri problemi a trovare il bandolo della matassa.

Di primo acchito, rimanendo fedele al titolo, volevo semplicemente mettere una foto di Cristiano Doni o di Joseph Blatter. 
Ma non è così che si fanno le cose seriamente.

E allora voglio battere la strada del tradimento, del tradimento che poi diventa delitto e castigo.
Perché questa ballata da chansonnier non è altro, per me, che un trattato su incomprensioni minuscole che diventano insormontabili e ti rovinano addosso.

"Mio padre per Mancini, io ora con Pazzini" è stato un due aste pesante che ha campeggiato nelle prime file della Gradinata Sud di Genova per un paio d'anni (da gennaio 2009 a gennaio 2011) e dimostrava l'innamoramento totale tra i tifosi della Sampdoria e il centravanti venuto da Pescia.

Operazione nostalgia: maneggiare con cura

Pazzini arriva a Genova, sulla sponda giusta del Bisagno, a gennaio 2009 come un ragazzo di grandi potenzialità ma che ancora deve esplodere. Vuole giocare, necessita di fiducia e di minuti sul terreno di gioco. Oltre a queste componenti troverà al suo fianco il miglior Cassano di sempre che, all'epoca, voleva dire giocare al fianco di uno dei 5 migliori giocatori allora presenti sui campi di calcio.

Pazzini segna 48 gol in due stagioni: Cassano (tra assist diretti e indiretti) mette lo zampino in 16: ovvero 1 gol su 3 il Pazzo lo segna perché c'è Antonio.

Dopo la sanguinosa eliminazione nel preliminare di Champions League 2010-11 ad opera del Werder Brema, qualcosa in quella Sampdoria si rompe e Cassano, previa sfuriata con coefficiente di maleducazione illegale, si accomoda fuori rosa da ottobre prima di essere regalato al Milan nel mercato di gennaio 2011.
Pazzini invece è l'anima e il giocatore più decisivo in rosa. È il totem a cui aggrapparsi in una situazione che sta rapidamente scappando di mano. Ma qualquadra non cosa.

L'ultimo gol in maglia blucerchiata il "Pazzo" lo segna al Milan in un freddo sabato di novembre. Una partita di sofferenza contro il Milan migliore degli ultimi anni. Io c'ero e Ibra, Nesta e Thiago Silva, vi giuro, erano degli stornelli difficoltosi da arginare e/o superare. 

Genova 27/11/2010: Tibie & Peroni

La Samp naviga in acque tutto sommato tranquille: niente Europa ma la colonna sinistra della classifica è saldamente nelle corde dei blucerchiati.
Poi, improvvisamente, Pazzini cominciò ad accusare fastidi vari ad una caviglia e si mise in polleggio pronto per rientrare dopo la sosta natalizia.
Ed invece, pur continuando a millantare il suo infortunio, in una notte senza luna si fece cedere all'Inter e - magicamente - i fastidi alla caviglia cessarono e Giampaolo era già pronto per debuttare a San Siro.
E che debutto!

Doppietta e rigore procurato all'esordio. Da subentrato.

Tutto perfetto quindi.
Manco per il cazzo, caro Giampaolo. Traditi i blucerchiati, a parte qualche fuoco di paglia, Pazzini ha sempre navigato da seconda linea, da panchinaro. Le ha decisamente provate tutte - cambiando anche sponda dei Navigli - ma non c'è stato niente da fare.
Sempre e solo ruoli da comprimario e nemmeno troppo decisivo, anzi.

Per cui, riallaciandomi al tema portante della canzone, valeva la pena tradire e non parlarsi più (anzi evitarsi addirittura) per trenta denari?
Cosa ti sei portato a casa caro Pazzo?
Te lo dico io: ti sei portato a casa il delitto e castigo del non poter mai più sapere che cosa poteva essere ed invece non è stato.

Che "tanto nessuno ci può restituire l'amore".




10. Via della Cerca

per almeno qualche giorno d’ascolto è stata solamente LA TRACK 10, e l’articolo LA davanti a TRACK va messo perché siamo in Emilia e in Emilia si mette sempre l’articolo davanti ai nomi propri di donna; comunque sia, dicevo, questa track, questa canzone però, per lo meno nella mia testa, un nome non ce lo aveva. Infatti, come spesso mi capita quando mi avvicino ad un nuovo disco, non ne leggo mai la tracklist, preferisco non aver influenze di alcun tipo, non voglio rischiare di concentrarmi sulla hit di turno, il singolone, il titolo accattivante, il brano che conosco per sentito dire, e focalizzare solamente intorno a quello il mio interesse. 
Certo è che, fin da subito, della Track 10 sono state due, le cose che, dopo aver solleticato la mia diffidente curiosità, hanno completamente rapito la mia attenzione.
Innanzitutto il chiaro richiamo ad una via di Modena battuta e percorsa un numero incommensurabile di volte, il riaccendersi di quella che a me piace chiamare “la memoria delle sensazioni”, sensazioni troppo spesso lontane, purtroppo sbiadite e ormai derubricate tra i ricordi degli anni del Liceo e di Economia.

Liceo Scientifico Alessandro Tassoni di Modena, l'equivalente modenese di Hogwarts

In secondo luogo la forte percezione di quanto anche l’infelicità sappia essere coinvolgente e possa far colore, perché è questo ciò che trasmette la struggente ballata di Via della Cerca. 
E per un fortuito susseguirsi di eventi e coincidenze, proprio mentre ascoltavo l’album Gospel, un calciatore a me molto caro, uno di quelli che posso dire d’aver amato per davvero, comunicava d’esser pronto per una nuova carriera d’allenatore, dall’altra parte dell’oceano, a Miami. 

Modena Vice

Il suo nome è Alessandro Nesta, soprannominato “Tempesta Perfetta”, e la sua storia, per quanto possa sembrare distante sia per geografia che per pensiero da Modena e da Via della Cerca, esprime lo stesso tormento di questo brano; come se le parole per raccontarlo si fossero ammaestrate da sole, all’incedere, lento e angoscioso, della musica.

Il Cantuccio

Quando Dave canta “Poi una sera, di botto, al Cantuccio è venuto giù il mondo” a me viene distintamente in mente quando a Roma, sponda biancoceleste del Tevere, la più grande Lazio di tutti i tempi andò letteralmente in pezzi, ed ognuno di questi venne svenduto al miglior offerente. La “Lei” di cui parla Dave aveva “tre uomini certi”; i biancocelesti ne avevano di più, ed erano quelli su si cui poteva contare e intorno ai quali erano state conquistate le vittorie più gloriose, ma la sostanza non cambia, perché in entrambi i casi non erano abbastanza.
Tuttavia la Lazio di allora aveva trovato il proprio amore perfetto nel suo giovane Capitano,

Tempesta Perfetta

Alessandro Nesta, un centrale difensivo di caratura assoluta che, dopo aver scontato tutte le trafile giovanili, era approdato in prima squadra, buttato nella mischia dal boemo più famoso che il calcio ricordi e da cui ho mutuato il soprannome, e in poco tempo aveva preso il comando delle operazioni, piedi a terra e testa in aria. A stretto giro di posta era diventato uno dei giocatori più corteggiati da tutti gli altri club italiani ed europei e, proprio per questo motivo, nonostante gli avesse giurato eterno amore, la squadra per cui militava era sempre in tensione: non era assolutamente cosa facile mettere a tacere le sirene foreste e trattenere un campione di tale calibro.

Poi, non a Gennaio come Dave favella nel suo testo, bensì verso la fine di Agosto, oltre che alla ragione e al cuore, a Roma sparirono del tutto i soldi, e Nesta venne allontanato per fare cassa, perché la contabilità, ancor prima della sostanza, s’era vendicata sulla poesia. Alla più splendente bandiera che la storia laziale potesse vantare venne riservata la fine più amara che questa potesse meritare: essere ammainata per soldi.
Quella Lazio era stata preda degli istinti dei suoi padri/padroni, delle loro voglie e dei desideri di renderla la più bella del reame calcistico continentale ma i commercialisti congiurati non avevano fatto i conti con i sentimenti che, una volta esaurite le migliori intenzioni ma soprattutto una volta finiti i soldi, si sarebbero pagati a caro prezzo e con interessi ad elevato tasso di usura umana.

Quando si pensa ad una conferenza stampa diversa dalle altre

L’obbligato addio di Nesta fu improvviso e inaspettato, la subitanea presentazione a Milano fu surreale, la separazione dolorosissima: una ferita che nemmeno il tempo avrebbe saputo rimarginare perché si trattava di tutt’altra questione, ossia che un essere umano di fatto si poteva, e si può, spezzare. Non il calciatore perché la classe è materia innata, ma l’uomo, quello sì. L’amore in cui Nesta aveva profuso, fin da quando era un ragazzino, carne e calore, credendolo il più sincero e trasparente possibile, altro non era che una maschera, e una maschera fa troppo male quando cade.
Dopo essere stato il Capitano più vincente del club biancoceleste, e questo nonostante la giovane età, Nesta si costruì una seconda carriera, ma forse sarebbe meglio dire “una seconda vita”, nel Milan, del quale divenne una colonna imprescindibile e col quale vinse tutto quello che c’era da vincere, ripetutamente.

Lo Scudetto mettilo nel culo

Fa strano che poche volte ne abbia indossato la fascia, quasi non volesse legarsi troppo per paura di rimanere bruciato, nuovamente. Un disincanto.
Negli ambienti rossoneri venne ribattezzato “Tempesta Perfetta” e credo che difficilmente si sarebbe potuto coniare un epiteto migliore, perché dietro la precisione stilistica e la puntualità degli interventi, s’era sedimentata l’irruenza, la perentorietà agonistica ed il tormento che solo chi si è sentito dire “ti amo” per poi venire allontanato può conoscere. Chi ha imparato l’abbandono sa di non poter tornare nei luoghi dove s’è consumato l’amore perché ogni ricordo che riaffiora è una pugnalata, perché rivedere anche solo mentalmente le gioie passate mischiate alla disillusione del presente, impone inesorabilmente che le porte del cuore vadano chiuse a doppia mandata, che lo si voglia oppure o no.
Dave sussurra: “Io non riesco più a passare dal voltone di Via della Cerca”, mentre io mi trovo a ripetere come questa canzone sia qualcosa di molto lontano, e per pensiero e per geografia dalla Lazio, da Alessandro Nesta e dal calcio, anche inteso nella peggiore accezione del termine. In fondo però si tratta anche di qualcosa di estremamente vicino, se non altro per il disarmante e allo stesso tempo coinvolgente senso di infelicità, e per la trasformazione di un amore perfetto in una furiosa, ma a suo modo perfetta, tempesta.




11. La messa non conta


"Dave perché il primo singolo è La messa non conta?"
"Scherzi? Sei nel ritornello dopo, tipo, 20 secondi. È per forza il primo singolo!"

Cosa significhi la frase del titolo, adesso, nessuno può veramente saperlo.

Perciò vi affido la mia interpretazione di questa strana ballata post-punk, che potrebbe essere tradotta con il sempreverde e banale: Stasera vale tutto.  Perché – ok – siamo stronzi e a volte tristi (cit.), ma tutti noi abbiamo vissuto e, mi auguro, vivremo serate in cui davvero vale tutto e i conti li andremo a fare più avanti.

Partendo da questo assunto e dall’ennesima connessione neurale particolarmente discutibile, vi voglio portare a pochi chilometri da Modena (location del disco in generale e di questo pezzo in particolare) e, per la precisione, sotto le Due Torri ad ammirare un tramonto infuocato che disegna la silhouette di San Luca.
Esatto miei cari: ce ne andiamo a Bologna a rivivere una serata che avrebbe avuto tutti i crismi per essere annoverata in quelle indimenticabili - di quelle in cui La Messa Non Conta - e che, invece (e per fortuna aggiungo io), è rimasta nella memoria come uno dei coiti interrotti calcistici più dolorosi per l’intera città e per i tifosi rossoblù.

Per entrare pienamente nel mood faccio un passo indietro e stabilisco che per costruire una serata perfetta in cui La Messa Non Conta, occorrono:
- un cammino, di vita o in questo caso di sport, lungo e tortuoso;
- un manipolo di outsider e underdog generici;
- una location che non è più abituata a certi palcoscenici e che, principalmente, vive nel passato;
- avere tutti i pronostici contro;
- sfiorare la gloria con dito.

Il cammino dei rossoblu comincia il 18 luglio 1998 quando a Bologna si presenta, per il terzo turno di Coppa Intertoto (all’epoca anticamera della Coppa Uefa), il National Bucarest. Quello dei rumeni è il primo di una lunga serie di scalpi che la banda Mazzone porterà con sé.
Nella semifinale di Intertoto il Bologna avrà la meglio, come in tutte le occasioni di quella maledetta annata, sulla Sampdoria e regolerà in finale i polacchi del Ruch Chorzow.

La Coppa Intertoto: un design partorito da menti brillantissime

Guadagnato l’accesso al tabellone principale della Coppa Uefa il Bologna eliminerà, nell’ordine, Sporting Lisbona, Slavia Praga, Betis Siviglia e Lione arrivando alla semifinale e, soprattutto, giocando un calcio inspiegabilmente spumeggiante e redditizio. (un cammino, di vita o in questo caso di sport, lungo e tortuoso? CHECK).

Ora: voi sapete che antipatia calcistica mi provochi il Bologna, ma devo ammettere che quella era una squadra pazzesca: Paramatti, Signori, Kennet Andersson, Binotto, Antonioli, Carlo Nervo, Fontolan… Incredibile. (un manipolo di outsider e underdog generici? CHECK).

In semifinale il Bologna se la sarebbe dovuta vedere con una nobile del calcio europeo che però veniva dalle macerie lasciate dall’affaire Tapie e si stava ricostruendo con alterne fortune: l’Olympique Marsiglia. (avere tutti i pronostici contro? CHECK).

Lo 0-0 con cui si concluse la gara di andata al Velodrome di Marsiglia caricò ulteriormente un ambiente euforico e non più abituato a celebrare il presente, ma piuttosto avvezzo a commemorare il luminoso passato dello “squadrone che tremare il mondo fa” o dello scudetto di Bulgarelli e Haller. (una location che non è più abituata a certi palcoscenici e che, principalmente, vive nel passato? CHECK).


Quasi 40.000 spettatori gremivano il Renato Dall’Ara nella serata del 20 aprile di quel 1999, la serata della semifinale di ritorno.
Il primo tempo è preda della voglia di storia dei ragazzi di Carlo Mazzone che la sbloccano con una zampata di Michele Paramatti, uno degli uomini simbolo della squadra felsinea. Proprio Paramatti aveva inaugurato la campagna europea, ora arrivata alla sedicesima partita, segnando la rete dell’1-0 contro il National Bucarest nel terzo turno di Coppa Intertoto.

Time is a flat circle, maybe.

Sia nell’arrembante prima frazione che nella seconda, passata a guardare il cronometro e a rintanarsi via via sempre più indietro, il Bologna avrebbe la possibilità di raddoppiare e di effettuare il check-in per Mosca. Per la finale.
Ma a 3 minuti dalla fine Robert Pires imbuca Maurice a tu per tu con Antonioli che non può fare altro che stenderlo.

è andata così, è 'ndata

Laurent Blanc non si scompone, pareggia e pugnala nella culla il sogno rossoblù di andarsi a giocare il trofeo. (sfiorare la gloria con dito? CHECK).
Da lì in poi è far west, delusione, pianti, fumogeni, polizia in campo e altre situazioni che lasciano la bocca ancora più amara.
A Mosca andrà l’Olympique che verrà dilaniato dal Parma di Malesani.

l'ultimo allenatore a vincere in Europa! dighelo Monica!

… e comunque vada stasera la messa non conta.



12. Chi mi tocca muore,

o anche: parole, opere e omissioni di Davide Ravera. La salmodia secca e minimale di chi potrebbe litigare col cielo anche solo nel malaugurato caso in cui non gliene piacesse il colore, così, come a volere certificare che il sopravvivere in assenza di grazia non è un’esclusiva concessa a tutti. E il mio pensiero non può che andare a Mario Balotelli, il cui taglio nel costato è allo stesso tempo vita e morte. 

Niggah Style

Chi lo tocca può morire, attendere una sconfitta annunciata; chi lo tocca può vivere come mai prima: aspettarsi pietre e raccogliere petali di rose. Come Balo, il giocatore che vorresti vedere in campo quando sei disperato, travolgente come solo un amore sbagliato riesce ad essere, quello che “figurarsi se non si mette in un qualche modo nei guai”, che ad ogni bivio della vita ha sempre sbagliato svolta. Il Genio, non quello delle tartarughe, ma quello di una città una volta chiamata Titograd, ha detto che Mario Balotelli è come quella vacca che fa 20 litri di latte e poi ne rovescia i secchi con un calcio. Dobro… ma non dobrissimo.

Ero un bamboz ma lo ricordo come fosse ieri

Chi lo tocca muore. Lentamente, con furore, di rabbia o di mal di cuore. Ma chi lo tocca vive, chi lo tocca sta bene: ogni colpo lascia traccia e del tempo che gli si dedica non v’è minuto che potrebbe essere sprecato in maniera più saggia. Chi lo tocca crede che la vita possa non finire, che la partita debba ancora cominciare, che i titoli di coda li possa scrivere solo chi ha ancora un goccio da offrire.





13. Gospel.

M’è capitato molte volte di identificare una canzone con un atleta e qualche volta pure con un calciatore. Tuttavia un’operazione capillare come questa, ossia di individuarne uno per ogni brano è stata tutt’altro che agevole. A volte si è trattato di qualcosa di naturale, specie quando il testo non sembrava far altro che raccontare il personaggio o l’aneddoto sportivo che avevo in testa; altre volte invece è stato qualcosa di più forzato, quasi dovessi sviscerare un’idea lontana leggendo le lyrics parola per parola. Ma la cosa più complicata in assoluto è stata non deviare dal tema musicale della canzone. E questo s’è dimostrato impegnativo perché, come è vero che trovo piacevole metà dell’album, l’altra non è proprio nelle mie corde, ed è stato quindi difficile farsene trasportare, anche quando le parole erano più intriganti degli accordi. Ad ogni buon conto mi son sforzato di ascoltare anche le canzoni che non mi piacevano, anche quando erano quelle che davano il nome all’album. 


A Gospel, il brano, non trovavo un vestito adatto, non riuscivo nemmeno a dargli coordinate musicali precise, tanto era lontano dal mio gusto. Allora ho chiesto aiuto ai numi della rete, agli esperti di musica cui il Dio del lavoro ha donato il mestiere più bello che ci sia: estrarre a sorte dal bussolotto dei termini desueti, delle metafore impossibili e degli inglesismi da Milanese Imbruttito, parole per descrivere dischi e canzoni. Su Rock.it, e riporto letteralmente, “Gospel” è musicalmente un omaggio a Bo Diddley, che costituisce una sorta di testamento spirituale. 

Tipo... solo che Davide non è nero

Ascolto qualche suo pezzo e mi sforzo di indovinare un nesso, con esiti incerti. Accetto dogmaticamente la definizione del giornalista e vado oltre, rendendomi tristemente conto di non poter far di meglio e, anzi, convenire su un punto, quello del testamento, anche se traslandolo su altre latitudini, sia di concetto che di geografia. 

Berta impegnato in un'onda energetica contro Bill Shankley che, abilmente, respinge il colpo

La prima strofa solletica in me sensazioni provate anni fa, a Liverpool. Quel “porta a spegnersi il mio cuore fuori dal cemento” mi ricorda una statua che s’erge davanti ad Anfield, quella di Bill Shankley, storico allenatore dei Reds, la cui immensa passione non poteva essere contenuta dallo stadio sul cui terreno era sceso per ben quindici anni di fila né poteva limitarsi a quell’arco temporale. Doveva spingersi oltre, portata fuori da quel cemento, e tramandata a tutte le generazioni di scousers che si sarebbero succedute. E le parole “cerca un fiume dove riposare” sembrano suggellare questa idea, e l’alveo della Mersey esserne l’esatta declinazione d’acqua. Infine “chiama gli amici e canta una canzone, quella sarà la mia religione” è un invito fin troppo facile per non pensare a “You’ll never walk alone”, sublime preghiera profana di chiunque abbia i colori del Liverpool nel cuore.

Davvero interessante

Quando Shankley divenne allenatore dei reds prese una squadra in sfacelo che con calma e gesso ricostruì, partendo dalle fondamenta. Riuscì a vincere tre campionati, due coppe d’Inghilterra ed una Coppa Uefa. Restituì al Liverpool il lustro e l’orgoglio che gli erano propri e, nonostante i maggiori trionfi dei suoi successori, viene tuttora considerato il più grande manager della squadra. 

Evviva l'Emilia, evviva Liverpool, evviva il Socialismo!

Nota di colore, durante la sua permanenza alla guida dei reds irrise spesso i cugini meno blasonati dell’Everton, ricordando sempre come a Liverpool esistesse, de facto, una sola squadra, la sua. Per cui le parole di Dave potrebbero suonare come di Bill, un Bill lieto di cambiare lato del sipario:”Non voglio tristi funerali o telegrammi tutti uguali”
William Bill Shankley avrebbe solamente voluto che la sua gente cantasse una canzone e quella sarebbe stata la miglior preghiera per tributargli onore. E il fegato alle carogne, forse di blu vestite come i tifosi della seconda squadra di Liverpool, che di fegato allora come ora, ce n’è e ce n’è sempre stato bisogno.



14. Cammino

Per chiudere il disco e, in una qualche misura – credo io – questa serie di racconti dispari su una comunione underground che scompare, Davide sceglie un pezzo molto diverso dal resto.

Cammino è una canzone che, se andassi a correre e possedessi un iPod, avrei rigorosamente nella mia playlist. È una canzone di sofferenza ma soprattutto – per come la vedo io - è una canzone di redenzione, una canzone di rinascita. Di sicuro è uno dei miei pezzi preferiti dell’intero disco.
Mi gasano gli arrangiamenti minimal, come in tutto l'album del resto, ma soprattutto la volontà di non volersi fermare alle apparenze, di non volersi rassegnare, di non voler mollare la presa sulla propria vita. Muoversi per avere la piena coscienza di sé. Che a stare fermi si fa la muffa, insomma.

Se “Cammino” fosse un colore sarebbe verde speranza, se fosse un giocatore di pallone sarebbe per forza Hidetoshi Nakata.


Che parte da una media squadra del Giappone e arriva in quella corte dei miracoli, con annessi nani, ballerine e campionario completo di fenomeni da baraccone pescati in giro per il globo, che era il Perugia di Gaucci della seconda metà degli anni novanta.
Una scelta di coraggio (“sono fuori di testa e cammino”) data la scarsa considerazione che l’Italia del pallone nutriva per i giocatori asiatici . Ed invece una doppietta all’esordio contro la Juve, seppur in una sconfitta casalinga per 3-4, è la scintilla che fa scoppiare l’amore. Chiuderà la stagione 1998-1999 addirittura in doppia cifra e contribuirà in maniera determinante alla salvezza del Perugia.

Il giorno in cui l'Italia conobbe Nakata

Nella stagione successiva Hidetoshi non si ferma e a gennaio Fabio Capello lo vuole a Roma per aumentare le qualità del centrocampo giallorosso. Parafrasando Davide, “Dove altri hanno osato ma sono caduti, cammino”, Nakata accetta la sfida (e Gaucci accetta il monte di soldi di Franco Sensi) e si trasferisce nella capitale.
Nella prima stagione assiste al tricolore degli eterni rivali della Lazio, ma nella stagione di giubileo (come la precedente) 2000-2001 è fondamentale nel mantenere lo scudetto in città e nel cucirlo sulle casacche giallorosse. Principalmente con queste due giocate:


Se non volete vederlo tutto, partite da 4:10

Poi Nakata, forse stufo di essere usato col contagocce da Capello o forse perché sentiva il progetto di grande Roma già naufragare o semplicemente perché stare fermo troppo tempo non è salutare, fa i bagagli e passa in Emilia.  Precisamente al Parma.

Non c'è niente di vero, niente di certo, cammino

Qui, come a Roma, contribuisce in maniera determinante – e sempre contro la Juventus – a vincere un trofeo: è la Coppa Italia stagione 2001-2002.
Il fondamentale gol dell’1-2 nella partita di andata verrà convertito in oro, al ritorno, da Junior. È questo, per il momento, l’ultimo trofeo e il canto del cigno del grande Parma degli anni 90/2000.

Cammino tra i rifiuti di un mondo che muore, quest'oggi cammino (anche qui da 4:05)

Hide resta un’altra stagione e mezzo a Parma, poi a gennaio 2003 si muove verso est e si accasa a Bologna.
A fine stagione migrerà a Firenze e, nella stagione successiva, proverà anche l’esperienza della Premier League militando nelle fila dei Bolton Wanderers.

Poi, a 30 anni ancora da compiere, Nakata dice basta.
L’icona massima del calcio del sol levante decide che questa non è più la sua strada e, dopo un’emozionante gara d’addio a Yokohama davanti a 60.000 persone, prende lo zaino e comincia un percorso di ricerca personale e non in giro per il mondo.

“Sono passati più di 20 anni da quando cominciai il mio viaggio chiamato calcio - scrive il calciatore giapponese - Non c'è stato nessun episodio né un motivo in particolare che mi ha portato a prendere questa decisione. Semplicemente sentivo che era arrivato il momento di staccarmi da questo viaggio chiamato calcio professionistico e volevo cominciare un altro viaggio che mi porti a scoprire un nuovo mondo. Tutto qui”. 

Se “Cammino” fosse un colore sarebbe verde speranza, se fosse un giocatore di pallone sarebbe per forza Hidetoshi Nakata.

Cammino dove il tempo ha già perso ogni significato, cammino.





Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...