LUPO ULULÀ, CASTELLO ULULÌ – Il rifiuto del Lobo – PRIMO TEMPO

C'è solo una cosa che odio di più degli argentini, i catalani. (Freddy José Mendez Luna)

La fame viene e scompare, ma la dignità, una volta persa, non torna mai più. (Nonno Kuzja, Educazione Siberiana, 2013)

Capire poco, capirlo male

I primi segnali che sarei finito a raccontare questa storia, riannodando i fili dei miei ultimi mesi, cominciano a fine agosto a Barcellona.

Freddy, Ramo e il sottoscritto stiamo facendo tappezzeria al Ke Bar, provando il miglior mojito di Barcellona – come scritto nelle insegne di tutti i posti dove siamo finiti – e discorrendo di musica. Imbeccato dal maestro di vita Federico Buffa sono entrato nel loop di Andres Calamaro e sto monopolizzando la conversazione su questa nuova fase di ascolti della mia vita.

Dapprima vengo compatito, poi guardato con diffidenza ed infine trattato con l’accondiscendenza che si deve ad un parente ormai consunto dall’età e che ha lasciato per strada la maggior parte dei venerdì.

Poi, però, succede che Ramo si mette a canticchiare piano un pezzo “Flaca no me claves 
tus puñales…” e io evidentemente vado giù di testa.

Perché?


el mas grande de todos

Momenti di vero giubilo anticipano la mia risalita dall’oblio in cui i miei fratelli venezuelani mi avevano relegato. E la pezza musicale può continuare.
Scandagliamo abissi e vette del nostro ascoltato e finiamo, immancabilmente, a parlare di Shakira.
Esordisco piano: “Se fossi seduto ad un tavolo con Hitler, Donald Trump e Shakira e avessi due proiettili da spendere, sparerei a Shakira. Due volte.” I ragazzi si ammutoliscono: percepisco forte il loro fastidio e un’indignazione fuori luogo. Un’indignazione che mai mi sarei aspettato di sollevare nei loro animi, specialmente parlando di Shakira.
Nel dubbio ordino tre birre, le pago e cerco di capire che cosa avessi detto di così sbagliato. Freddy mi dice che non ho mai capito un cazzo e che prima di parlare della Shakira dovrei sciacquarmi la bocca con la candeggina. Due volte. Touchè.
Salta fuori che, a mia insaputa, Shakira prima di diventare una star del mainstream era già un idolo in Sudamerica poiché di indole rock e in possesso di un pensiero e attività sociale per nulla scontati.
“Santu ascoltati Pies Descalzos invece di dire delle cazzate.” A poche persone presto il mio orecchio ma Freddy e Ramo sono sicuramente tra quelle. Per cui mi segno di passare dalla stazione Shakira appena ne avessi avuto tempo.  E prometto di mantenermi, per il resto della giornata e della vacanza, a distanza di sicurezza dallo spinoso argomento onde evitare altri cali di mood.
Lontano dagli occhi, lontano dal cuore.

Sol che.

Sol che, una notte, appena rientrato in casa ed impossibilitato a prendere sonno (Freddy non russa, testa motozappe smarmittate!), mi appoggio in balcone a fumare una sigaretta e a pistolare col telefono. La luna è grande e voglio ascoltare una canzone di Shakira, voglio capire. Finisco ovviamente lontano da qualsiasi singolo di Pies Descalzos – consigli? Thanks but no thanks! – ed incappo (?) su uno dei video più erotici della storia.
Indovinate un po’?

e così mi son messo ad ululare alla luna

Dalla Loba al Lobo

Poche cose sono imprevedibili come la mente umana. Una di queste è la capacità di profilazione degli utenti da parte dell’internet: il giorno seguente alle 17 visualizzazioni del video di Shakira, sulla mia timeline di Facebook compaiono – come consigliati – due articoli che riguardano un certo Jorge “el Lobo” Carrascosa.

proprio lui, il più atteso!

Inizialmente, come consuetudine, me ne sono battuto altamente le palle, poi, nel vedere quei baffi così ben curati e quello sguardo fiero che puntava sempre altrove, ho pensato che una possibilità al Lobo andava data.
Ed in effetti sì: la storia è interessante e possiede tutti i crismi necessari perché venga vergata sulle pagine degli 11 Illustri Sconosciuti. Solo che tra me ed “el Lobo” si frappone, in marcatura stretta e ineluttabile, la vita reale la quale torna a bussare con la consueta strafottenza richiedendo indietro con gli interessi il tempo speso in ferie. E i baffi del Lobo vengono inevitabilmente riposti nella soffitta del mio cervello.
I pianeti però hanno deciso di allinearsi seriamente e di fare di me la mano che darà altra visibilità alla storia.
Dopo il soggiorno a Barcellona e in virtù dell’amicizia che ci lega, Ramo ed io decidiamo che se anche siamo ad oltre 2000 km di distanza avremmo dovuto darci un’altra possibilità per suonare insieme.
Per questo motivo ricevo, ad intervalli vagamente regolari, registrazioni di canzoni che il mio songwriter preferito concepisce in terra di Catalogna. In questa maniera io ho la possibilità di sovraincidere pezzi di chitarra o di aggiungerci qualsiasi cosa mi venga in mente.
Sto un po’ divagando ma vi prego di avere pazienza perché poi il cerchio si chiuderà.

il nuovo giorno arriverà

Pochi giorni or sono mi arriva un vocale su messenger e distrattamente lo faccio partire. Onestamente non avevo nemmeno guardato chi potesse essere il mittente ,anche se, al secondo accordo di chitarra, mi ero già fatto un’idea ben precisa.
Giovi sapere a chi legge che Ramo adesso scrive nella sua lingua natìa (lo spagnolo) e questo piccolo inconveniente mi permette di comprendere poco dei suoi testi salvo alcune parole basilari. Entiendo un poco ma no hablo espanol, carajo.
Il fatto grosso è che il ritornello parla di un lupo che ulula alla luna e, come potete immaginare, è evidente che Jorge Carrascosa fuoriesca dall’oblio dove l’avevo parcheggiato e diventi la principale questione che mi occuperà la vita nei giorni a venire.

la distanza è solo nella testa fratello

In Europa contromano – che poi dici che non ti porto mai da nessuna parte ATTO I

Il 20 marzo 1976, nella prima sfida della tourneè europea in preparazione ai mondiali casalinghi del 1978, la nazionale argentina aveva espugnato una Kiev innevata e sconfitto la temibile U.R.S.S. col punteggio di uno a zero, grazie al gol dell’uomo forse più rappresentativo dell’11 allenato dal "Flaco" Menotti: Mario Kempes.

gol di Kempes? non pervenuto

Dico forse perché sicuramente a livello mediatico è quello più riconoscibile, ma dentro lo spogliatoio c’è qualcun altro che – per carisma, personalità e tenacia – tiene le fila degli undici in campo: lo vedete dopo pochi secondi nel video, con il numero 3, la fascia al braccio e due baffi da uomo: è Jorge “el Lobo” Carrascosa.
È una squadra di gente tosta quell’Argentina: ci sono “el Tolo” Gallego, il funambolo Housemann, Tarantini, “el Loco” Gatti, Daniel Passarella, Bochini e perfino Ardiles. Tutta gente che ha scritto pagine brense del gioco del calcio: non solo in Argentina o in Sudamerica. E pensare che tra tutte queste personalità la fascia la tenga al braccio Carrascosa rende l’idea del rispetto, della personalità e di che giocatore e, soprattutto, uomo fosse “el Lobo”.

l'amore al tempo delle reflex

Approfondimento dovuto: quien es “el Lobo”? – La primera parte

Ma chi o cosa era Jorge Omar Carrascosa? E soprattutto: dove voleva andare?
“El Lobo” nasce a Valentin Alsina nel partido di Lanùs, a cinque minuti da Villa Fiorito (la Betlemme di molti amanti de fùtbol) e a undici km da Plaza de Mayo (centro di Buenos Aires), il 15 agosto 1948 e tira i primi calci professionali – imponendosi immediatamente - con la camiseta bianco-verde del Banfield non ancora ventenne.
Curiosità: per il ruolo, terzino, ma soprattutto per generosità e carisma un altro terzino che esordisce in un Banfield-River Plate del 1993 verrà paragonato al Lobo: la sua scrima è sempre perfetta e il suo nome è Javier Zanetti.

1993-2016: il tempo è solo una chimera

Potrebbe sembrarvi una curiosità fine a se stessa, ma - credo io - se dopo venticinque anni la squadra in cui hai militato due stagioni da pischelletto ti prende ancora come termine di paragone per chi calca la tua area di campo qualcosa l’avrai pur lasciato in dote, non trovate? 
O magari, più prosaicamente, tutti quelli che sono venuti nell’interregno Carrascosa-Zanetti facevano schifo al cazzo. Delle due l’una.
Personalmente propenderei per la prima, ma, assodato che l’operazione nostalgia di recupero di tutti i terzini che si sono succeduti in biancoverde nel periodo 1970-1993 mi attira come correre scalzo su cocci di bottiglia, ognuno è libero di schierarsi dalla parte che lo stuzzica di più o darmi lumi sulla prima o seconda ipotesi.
Nel caso, grazie in anticipo amico/a: avanzi una birra.

senza baffi, in piedi, il secondo da destra è proprio Jorge "el Lobo" Carrascosa

Da lì, nel 1970, si veste di giallo-blu e si sposta a Rosario sponda canalla, facendo felice, seppur in anticipo sui suoi tempi, l’avvocato più importante dell’Emilia Romagna e forse del mondo.

belli, belli, belli in modo assurdo

Jorge Carrascosa resta all’ombra del Gigante de Arroyito fino al 1972 accumulando esperienza e partecipando, seppure in maniera marginale (conterà solo 6 presenze in quell’annata sulle quasi 90 totalizzate nei tre anni al Central), alla conquista dello storico campionato Nazionale 1971: il campionato del cuore per i tifosi canallas.

sballoso vedere, sballoso fare

La palomita

Mi sarebbe piaciuto che Carrascosa avesse partecipato maggiormente alla vittoria del Central nel Nazionale del 1971, perché così questa connessione neurale sarebbe stata meno discutibile. Ma resta il fatto che non si può passare da Rosario, parlare di calcio e non dire nulla sulla palomita. Per fare un paragone: andare a Roma e non vedere il Papa sarebbe un peccato infinitamente meno grave.

Poy: baffi, nasone e palomita

Come già ribadito su queste pagine, l’organizzazione dei tornei in Sudamerica ha sempre risentito – o sempre beneficiato – della fantasia dei piani alti delle federazioni. Nello specifico la stagione argentina – dal 1969 al 1984 – era così suddivisa: per i primi sei mesi si concorreva al titolo di campione “Metropolitano”, nei secondi sei mesi al titolo di campione "Nazionale”. A testimonianza di questa meravigliosa schizofrenia nell’organizzazione aggiungo che il numero di squadre partecipanti, la loro suddivisione e la tipologia della fase finale sono mutate quindici volte in diciannove anni. E parlo solo del Nazionale. Immaginate il resto.

Nel 1971 le squadre erano divise arbitrariamente in due gironi e le quattro migliori si sarebbero sfidate in gara secca in campo neutro sia per quel che riguarda le semifinali (la prima di un girone contro la seconda dell’altro) che per la finale.
I bizzosi dei del pallone stabiliscono che una delle due semifinali metta di fronte il Rosario Central e gli odiati leprosos del Newell’s Old Boys. Stiamo parlando delle due squadre più importanti e seguite (eufemismo!) di Rosario, città che respira e vive/muore a ritmo di fùtbol. E per questo, forse, si tratta delLA rivalità più sentita del calcio argentino. Qualcosa di assimilabile più ad una guerra culturale, anche se guerra è un termine del cazzo. Per capirci: le dispute tra guelfi e ghibellini o tra unionisti e lealisti o, addirittura, tra Maggie Simpson e il bambino monociglio, se paragonate al sentimento che contrappone leprosos y canallas, vengono derubricate a piccole ed infantili scaramucce.
Ma su questo sarebbe poco serio che mi dilungassi: Vi invito perciò, se interessati all’argomento, ad abbeverarvi ad una delle mie fonti maestre che, non troppo tempo addietro, ha esaustivamente trattato l’argomento. 

Rosario Central vs. Newell's Old Boys 

La suddetta semifinale tra Rosario Central e Newell’s Old Boys si disputò allo stadio Monumental di Buenos Aires il 19 dicembre 1971. La partita, ovviamente nervosa e tirata fino allo spasmo, venne decisa, al minuto 54, dal volo di Aldo Pedro Poy.

La palomita de Poy

Cuore canalla e attaccante vocazionale, Poy trascorse tutta la sua carriera al Rosario dimostrando un attaccamento ai colori ai limiti del patologico.
Un esempio per tutti: dall’esordio in giallo-blu datato 1965, Poy vede la porta con il contagocce (ok corre tantissimo, ok il sacrificio e il sudore, ma un attaccante deve buttarla dentro sennò vale tutto) segnando – fino al 1970 - 15 gol in 130 partite. Una miseria.
Così i dirigenti del Rosario si accordano con un’altra squadra di Primera Division – il Club Atletico Los Andes - per cederlo. Poy non accetta e fa saltare il trasferimento fuggendo di casa e riparando, da un amico, in un ranch situato su un’isola del Paranà. Lì rimane fino al salto della trattativa -  prendendo per sfinimento il presidente canalla Victor Vesco - e ripresentandosi soltanto sul pullman che stava portando il Rosario Central ad una partita a Buenos Aires qualche giorno più avanti.
Da lì in avanti, come per una macumba riuscita bene, Poy diventa sostanzialmente inarrestabile timbrando le reti avversarie regolarmente e diventando fulcro imprescindibile per il grande Rosario di quegli anni (2 titoli Nazionali e tre secondi posti tra Nazionale e Metropolitano tra il 1970 e il 1974).
Però per capirne l’immortalita bisogna tornare al 19 dicembre 1971. Quello che succede alle 19 e 09 è presto detto: la partita è bloccata che più bloccata non si può, ma Gonzalèz – “el Negro” Gonzalèz – scende sulla destra e la butta in mezzo all’area dove sbuca in tuffo, la palomita appunto, Aldo Pedro Poy che, de cabeza, griffa la sua eternità sportiva anticipando De Renzo.

el mas grande de todos, vol. 2

Il Rosario Central andrà in finale contro il San Lorenzo e vincerà 2-1. E visto che le cose se possono prendere una piega beffarda non si fermeranno mai a metà del guado, quella finale che consegnerà il titolo ai canallas, si disputò al Coloso del Parque (oggi Estadio Marcelo Bielsa) di Rosario, la casa degli acerrimi rivali del Newell’s Old Boys.


Ed è per questo motivo, per celebrare la palomita di Poy e renderla immortale ed immutabile nei secoli dei secoli amen, che ogni 19 dicembre, dovunque il puntero si trovi o dovunque venga convocato, ci sarà qualche sostenitore canalla nelle sue vicinanze pronto a crossargli un pallone più o meno regolamentare. E Poy, con una pancia più o meno regolamentare, si tufferà e colpirà quel pallone per indirizzarlo in una porta più o meno regolamentare e tramandare una, dieci, cento volte la leggenda de la palomita, del Campionato Nazionale 1971 e dell’orgullo canalla.
Esattamente come quel giorno a Buenos Aires e come quel 10 gennaio 1972 al Polo Norte - bar di Rosario - dove la celebrazione della sacra trinità cross-palomita-gol ha posto le sue fondamenta.

il 1971 per sempre

Approfondimento dovuto: quien es “El lobo”? – La segunda parte

Dopo l’ultimo positivo anno a Rosario, che gli aveva spalancato anche le porte della nazionale albiceleste, Carrascosa cambia per l’ultima volta casacca. Dal 1973 al 1979 la sua maglia sarebbe stata biancorossa e il suo domicilio eletto sarebbe stato a 5 km da Valentin Alsina, suo luogo natìo, al “Palacio” Tomás Adolfo Ducó casa del Club Atlético Huracán.

Huracán 1973

Jorge questa volta tocca la storia con mano perché sarà titolare inamovibile dell’undici che vinse in maniera magistrale il Campionato Metropolitano del 1973. È lui, nell’idea di Menotti, il trat d’union perfetto tra la sfrontatezza guascona e geniale di molti suo compagni (“el Loco” Housemann su tutti che, per dirne una, si permise di zittire il “Monumental” di Buenos Aires segnando da sbronzo marcio riportandoci alla memoria un compianto protagonista di questo blog) e l’equilibrio che necessita ad una squadra che vuole vincere.
Una squadra che ancora oggi viene ricordata, oltre che dai propri tifosi, da tutto l’establishment del calcio argentino come una sorta di avvento del messia: sostanzialmente la storia del futbòl albiceleste si divide in prima e dopo quella squadra celestiale.
Allenato da Luis Cesar Menotti alla prima esperienza in panchina – che dopo la vittoria del Metropolitano e complice il fallimento della nazionale a Germania 1974 verrà ingaggiato come C.T. dell’Argentina quasi a furor di popolo – quell’Huracán si distingue per il gioco brillante fatto di fantasia e possesso, inusualmente scevro dai consueti giochetti borderline sudamericani, per la coesione estrema tra i giocatori e, soprattutto, per la continua spinta verticale volta a trasformare le partite in continui assalti alla porta avversaria indipendentemente dal risultato e dalla posta in palio.
In definitiva uno spettacolo coi controcazzi.

dal vangelo del calcio argentino: un equipo que marcò un antes y un después 

Menotti trasforma l’insieme di buoni giocatori ed eccellenti individualità in una macchina perfetta con due concetti fondamentali: bel gioco e rispetto umano per i suoi uomini. Crea rapporti simbiotici con molti di loro e riesce a spronarli nella giusta maniera, fino a portarli al – finora – unico titolo della storia del club. Infatti i 4 titoli vinti tra il 1921 e il 1928 non hanno valenza per l’AFA (federazione argentina) in quanto conquistati in epoca pre-profesiònal.
Le basi gettate da Menotti rimangono salde e permettono all’Huracán, anche in assenza del “Flaco”, di restare nelle posizioni che contano anche negli anni seguenti in cui i biancorossi raggiungono la semifinale di Coppa Libertadores (1974) e giungono due volte ad un passo dal titolo (1975 e 1976).
La bandiera, però, rimane “el Lobo” Carrascosa il grintoso terzino che decide di rimanere a vita e di lasciare, dopo 7 anni, quasi 300 presenze e con due anni in anticipo sulla scadenza naturale del suo contratto, alla fine dell’anno 1979 per ritirarsi a vita privata.

Un petit dejà-vù

Dal 1973 in poi l’Huracán ha avuto alcune ghiotte occasioni per tornare sul tetto di Argentina ma le ha gettate al vento. La più clamorosa è sicuramente quella del “Clausura” 1994 (non voglio più tornare sui cambiamenti a sentimento del format del campionato argentino): l’Huracán è in testa con un punto sull’Independiente – allenato dal grande ex Miguel Angel Brindisi, uno dei protagonisti del Metropolitano 1973 - e con una sola partita da giocare che, mi sembra ovvio, è proprio contro i rossi di Avellaneda.
La chiudo easy: l’allenatore dell’Huracán era Hector Cuper. Per cui 4-0 Independiente e bona lè.
Every day is the 5th of may Hector!

sempre per restare in tema Inter: 2 gol li segna Rambert meteora che ebbe un solo grande pregio: fare in modo che Moratti comprasse anche Javier Zanetti


continua...

IL CALCIO DEGLI ALTRI - VOL. 1

GENIALE DILETTANTEN

Ascolto consigliato: Where do I begin – Chemical Brothers

Che pezzo

L’ascolto consigliato è quanto mai appropriato perché per raccontare questa storia è davvero difficile stabilire da dove cominciare, tale è il numero di connessioni neurali particolarmente discutibili da cui è affollata. Tuttavia vale la pena provarci, improvvisando una sorta di documentario immaginario che attraversa politica, musica, calcio e soprattutto la Storia, ovviamente quella con la S maiuscola. E se esiste un posto, ed esiste, che ha ed ha sempre avuto un rapporto ombelicale ed abrasivo con ognuna delle suddette categorie di pensiero, quel posto è Berlino.
Mettiamo allora un week end degli anni’80 in quel luogo fisico ma ancor prima mentale che un novero di band tedesche ha eletto come proprio domicilio artistico: Berlino Ovest. Si potrebbe curare una retrospettiva malata di quali e quanti gruppi popolassero i locali della città tedesca nei fine settimana, sponda occidentale della Sprea. Infatti, per quei tempi, valeva un motto a me molto caro che mutuo da una delle mie serie tv favorite, “Game of Thrones”, ossia che “Chaos isn’t a pit, chaos is a ladder”

Nerz inside

La confusione berlinese di quegli anni era fortissima, fertilissima e generava creatività; la mancanza di punti di riferimento da seguire con assoluta certezza e serenità lasciava liberi di non definire alcun contorno e, a volte, limitare la vista delle cose costringe ma soprattutto autorizza a spingere lo sguardo più lontano. 

Potrei richiamare alla memoria un sacco di band che identificano la Berlino di allora. 
Penso agli Einsturzende Neubauten, definizione per antonomasia della città stessa a cavallo degli anni’80. Tradotto significa infatti “Nuovi edifici che crollano”, come a voler dire che Berlino era il centro del mondo, anzi, era il centro di due mondi, uno dei quali, quello orientale, rappresentava il nuovo che non avanzava e che crollava su sé stesso. Da citare anche i Deutsch-Amerikanische Freundschaft, confidenzialmente chiamati D.A.F., risposta ad una domanda mai formulata, un effetto senza causa o una causa senza effetto, ‘na roba cui, anche sol per necessità di catalogazione, si fa fatica a trovare casa. Eppure forse è una delle più sintetiche di un’ipotetica compilation: senza stare a fare troppe messe in piega i loro brani descrivevano con ritmo arrembante, con un cantato rivedibile ed una buona dose di idee sconnesse il clima caotico di cui ho sbabbelato in precedenza. Insomma, me li immagino, ‘sti ragazzotti incerti del loro presente e del loro futuro ammassarsi in poghi selvaggi dentro discoteche losche e sporche, che nulla hanno da dire se non a chi non ha niente di meglio da fare. Quasi a dire, e chiudendo un ideale cerchio che ho aperto solo nella mia testa:”Delle sale da ballo un po’ più che di merda, un’opinione pubblica un poco meno stupida”.

Ascolto indispensabile: Live in Punkow – CCCP

Non esiste un mio articolo senza Noel Gallagher o i CCCP

Proprio come canta Giovanni Lindo Ferretti, l’Europa di quegli anni è persa in trance, in Alexanderplatz come in Piazza del Duomo a Reggio Emilia, sua immaginifica periferia, e Berlino era la sintesi perfetta di tutto questo. Meglio ancora l’Est della città stessa perché come ha ben descritto Massimo Zamboni, ossia l’alter ego del pardo di Cerreto Alpi, scattare foto nella parte filo-sovietica della città era fin paradossale perché le immagini sembravano in bianco e nero anche quando in realtà dovevano essere a colori, e questo perché Berlino Est era bicromatica anche quando c’era il sole e faceva bel tempo. 

Ed è proprio alla parte orientale del muro che -fosse una ghost track di una supposta selezione delle canzoni di quell’epoca, sarebbe quella più adatta-  è dedicato un famosissimo brano che chiunque di noi ha ballato almeno una volta nella vita senza minimamente capire che cosa diavolo significassero le parole: "99 Luftballons" di Nena, al secolo Gabriele Susanne Kerner, nata e cresciuta nella città di Hagen in Renania, Germania Ovest. 
La coincidenza delle nomenclature e delle casistiche ha imposto alla mia attenzione due rilevanti curiosità legate a questa artista. Di Berlino Est era infatti originaria Nina Hagen, una cantautrice molto celebre al tempo, il cui nome differisce da quello di Nena per una sola vocale (I di NIna contro la E di NEna) e il cui cognome è uguale a quello della città da cui proveniva quest’ultima. La cantante berlinese ebbe grande successo con “Du hast den Farbfilm vergessen”, che in italiano suonerebbe come “Hai dimenticato di prendere il rullino a colori”, il cui testo è una sottile e arguta critica al nebbioso regime della DDR.
Ufficialmente infatti le parole del brano raccontano di una ragazza che rimprovera il proprio fidanzato di non essersi ricordato il rullino a colori con cui avrebbero potuto scattare meravigliose foto della loro bellissima vacanza, da mostrare agli amici e farli rodere d’invidia. Ufficiosamente, ed è questa la seconda curiosità, quello che Massimo Zamboni poteva permettersi di dire riferendosi alla triste bicromia di Berlino-Est senza incorrere in alcun pericolo di censura, non era tollerato se proferito da un tedesco orientale, a meno che non venisse ironicamente incardinato tra le righe di una canzone apparentemente di tutt’altro taglio e registro, così come aveva fatto Nina.

Un collage degno del miglior Riccardo Cavani

L’artista berlinese fa da filo d’Arianna tra musica e calcio perché Nina, proprio lei, è l’autrice di Eisern Union, inno di una delle più amate e pasionarie squadre di Berlino Est: il Fuẞballclub Union Berlin. 

Ascolto imprescindibile quanto irritante: Eisern Union – Nina Hagen

In questo inno c'è il peggio del peggio della musica

Bisognerebbe aprire un numero incommensurabile di parentesi per descrivere questa squadra e tutto ciò che le ruota attorno perché non solo si tratta della più british delle squadre tedesche, e già questo basterebbe a renderla diversa da tutte le altre, ma è stata anche la meno irregimentata di tutta la DDR. È stato l’omologo orientale di quello che tra l'Elba e la Reeperbahn sarebbe divenuto il St. Pauli: anticonformista, forte di una radicata identità territoriale e destrutturato a livello gerarchico e decisionale. 


LA VECCHIA CASA DEL GUARDABOSCHI

Occorre però andare con ordine, ripartire dall'alfabeto tedesco e pescare nel torbido di quegli anni.

Ascolto necessario per potersi dire uomini completi: Black Water – Apparat

Fact isn’t what you see, 
not anymore what it used to be

Al tempo della Berlino divisa dalla guerra fredda, i biancorossi della Union erano la seconda squadra della Capitale. Fondamentalmente le cose non sono cambiate nemmeno adesso, ma se ora lo è alle spalle della più celebre, ricca e foraggiata Hertha, al tempo divideva la popolarità del tifo berlinese orientale con la più blasonata e potente Dynamo, il cui massimo sponsor era rappresentato dalla Stasi, il Ministero per la Sicurezza dello Stato. 

N'c'è n'cazzo da ride.

Tuttavia ciò che ha sempre fatto discrimine tra la Union e le altre squadre di Berlino va ricercato alla radice del tifo. Infatti i suoi stessi fan hanno sempre vissuto una relazione simbiotica con il club, tant’è che nel 2007 lo stadio, ormai inadeguato ai nuovi tempi e al nuovo stile, venne ristrutturato a spese e grazie alla manodopera dei tifosi che si armarono di paletta, cazzuola e motopicco, e lo sistemarono secondo i crismi moderni, fino a trasformarlo in un piccolo gioiellino. Chi non era adatto al lavoro edile si occupò di non far mai mancare salsicce, birre e vodka per il ristoro dei volontari: una cosa molto da “libro Cuore” del calcio. L’Union Berlin vendette letteralmente la propria anima ai tifosi. E lo fece in una maniera unica, che non trova quasi paragoni nel resto del mondo, dove lo stadio, quando va grassa, è al massimo proprietà dei club.

Il messaggio è "Vendere l'anima ma non a tutti": meno male che Silvio, che rappresenta il Diavolo, c'è.

Pertanto l’impianto con uno dei nomi più caratteristici al mondo, lo Stadion An der Altern Försterei, che in italiano suona più o meno come “Stadio alla vecchia casa del guardaboschi”, divenne proprietà degli Eisern, termine con cui vengono chiamati i tifosi della Union. 
“Uomini di ferro” perché appartenenti alla classe operaia forgiata nelle officine meccaniche e siderurgiche del quartiere cui riconduceva la sua più fiera appartenenza: il Köpenick, ove una volta sorgeva l’omonima foresta. Gente dura e pura, cresciuta con la tuta blu del lavoro, un socialismo pratico e non di facciata, disincantato rispetto all’imperante regime autoritario dell’epoca, più attento alla psicotica conservazione dello status quo piuttosto che allo sviluppo del proprio tessuto sociale. 
I ribelli Eisern, dicevo, gente che attendeva la partita del proprio club non solo per svagarsi ma anche e soprattutto perché l’Alte Försterei ogni domenica diventava l’unico porto franco della Germania Orientale in cui poter celare dissidi e malcontento dietro cori inneggianti all’Hertha, la squadra dell’Ovest Berlinese, contro la Stasi, che nel vociare omertoso dei tifosi non poteva individuare i ribelli, e specialmente contro il paranoico potere politico. Significativo era l’incoraggiamento a calciare il più forte possibile quando alla Union veniva assegnata una punizione e la squadra avversaria correva ai ripari schierando una barriera di giocatori tra il tiratore e il portiere:”Die Mauer muss weg”. Il muro deve cadere: un consiglio lapalissiano ma criptico a sufficienza perché gli insubordinati tifosi biancorossi fossero immuni da qualsiasi accusa e da qualsiasi reato d’opinione.

Vi giuro che non c'è un'immagine migliore. Comunque tutto intorno c'è una mega foresta.

Prima di passare oltre, val la pena lanciarsi in un’ultima digressione riguardo lo stadio che sorge lì dalla vecchia casa del guardaboschi, e dire due cose su una singolare tradizione che ha preso piede da una dozzina d’anni: il Weihnachtssingen.

La Vigilia di Natale del 2003 una novantina di tifosi della Union si diede clandestinamente appuntamento all’Alte Försterei per augurarsi buone feste prima della pausa invernale, bere qualche birra insieme e cantare qualche coro in quella che era diventata la loro seconda casa.
Un po’ perché le belle idee sono manifestamente fertili, un po’ perché lo spiccato senso organizzativo è prerogativa teutonica, dieci anni dopo sonostati 27.500 tifosi della Union, e non solo, a trovarsi allo stadio e a rinnovare questa meravigliosa usanza: birra, Glühvein, inno degli Eisern e canti di natale. Come miscelare l’epico al quotidiano e al contempo fare business di sé stessi.

In un contesto così se non si scopa sicuro è perché ci si vuole opporre al destino

Ultima grande e propedeutica curiosità prima di proseguire oltre. Alla Foresteria è rimasto un cimelio dei tempi che furono, un tabellone di legno, vecchio e ingiallito, su cui è fissato un risultato passato alla storia, quello di una paga orba che fece e chiuse un’epoca: l’8 a 0 che nel 2005 gli Eisern inflissero agli odiati nemici della Dynamo, l’altra squadra di Berlino Est, cui l’Union era sempre stata legata a doppio filo.


ORTODOSSIA

Per quanto io possa sembrare lontano dal vero oggetto della discussione, e per quanto in effetti lo sia, l’intenzione è indagare tra le pieghe di un incredibile unione a incastro, sfregare tra loro le vicende eccezionali che la rendono tale, e infine unire i puntini, smascherando la storia del calciatore di cui è ancora presto rivelare le generalità. O meglio, è interessante approfondire ancora un po’ il background berlinese dell’epoca, prima di finire con le scarpe e tutto in eventi vorticosi che non sono mai stati narrati con completezza.

Ascolto fondamentale che ci distingue dall'essere bestie: Disperato Erotico Stomp - Lucio Dalla

Mi guarda con la faccia un po’ stravolta, mi dice “Sono di Berlino”

Lucio Dalla cantava d’essere stato a Berlino con Bonetti, di aver trovato la città un po’ triste e molto grande. In realtà il cantante bolognese amava la metropoli tedesca e fu proprio su una panchina nelle vicinanze di Check Point Charlie che scrisse il testo di Futura, una tra le sue canzoni più profonde, più intrise di ottimismo e speranza. Tuttavia quello che esternamente passava di Berlino, in particolar modo della parte orientale, era un irrisolto senso di malinconia, un grande e mesto grigiore che veniva declinato in ogni aspetto della società, compreso quello calcistico. Ed era in proprio in quest’ultimo scenario, uno dei più foschi, che si inseriva perfettamente la Dynamo Berlin, l’oscura antagonista della Union, il cui Presidente era Erich Mielke, il secondo uomo più potente della DDR, vale a dire il massimo dirigente della Stasi.

Film consigliato: Le vite degli altri di Florian Von Donnersmarck

Quei film che guardo solo io perché sono un malato di mente ma da cui ho tratto il nome per l'articolo.

Come la Stasi di celluloide si insinuava ne “Le vite degli altri”, arbitrandone le sorti e volgendole a quello che riteneva un orwelliano bene supremo, così Mielke condizionava i direttori di gara e i presidenti dei club avversari. Gli arbitri assumevano un atteggiamento favorevole a partigiano nei confronti dei calciatori in maglia vinaccia, mentre ai patron delle altre squadre veniva “caldamente consigliata” la cessione dei propri giocatori migliori pro bono di Berlino. Non può che risultare assurdo il fatto che tra il 1979 e il 1988 la Dynamo abbia conquistato dieci campionati di fila (tra l’altro i soli che abbia vinto in tutta la sua storia, e in forza dei quali, per autorizzazione concessa dalla Deutscher Fuẞball-Bund, sfoggia tuttora una stella con all’interno il numero 10), e che a metà degli anni ’80 sia rimasta consecutivamente imbattuta per 36 partite. Per la cronaca questo infido dominio non solo le valse perfide etichette, su tutte “elf Schweine”, ossia gli undici porci, ma paradossalmente fu anche causa del crollo nelle affluenze dei propri tifosi che disapprovavano lo sfacciato e avvelenato favoritismo nei confronti della Dynamo.

Notare la palla rossa e nera

Naturalmente non si è mai trovata alcuna autentica prova vòlta a dimostrare che le partite fossero state realmente accomodate e che l’acquisto dei migliori calciatori della DDR fosse avvenuto liberamente, per legge di mercato o bilaterali interessi economici. Oggi è certamente facile e più che lecito crederlo ma è altresì corretto riconoscere come la Dynamo potesse vantare un eccellente settore giovanile e contare su un prominente e vivace lavoro di scouting.

In secondo luogo non va assolutamente dimenticato come in territorio neutrale, ossia sotto l’egida europea dell’UEFA, la BFC (acronimo che sta per Berliner Fuẞballclub) abbia raggiunto per ben due volte i quarti di finale dell’allora Coppa dei Campioni: traguardo degno di nota, specie quando si pensa che significa appartenere alla cerchia delle otto squadre più forti d’Europa. E questo, per come la vedo io, è sempre sinonimo di qualcosa che va (o per lo meno deve andare) oltre molti sospetti. E che riesce ad essere indipendente dalle epopee degli uomini e delle nazioni.

Che belli i filmati con i pixel così grandi che non si riesce a capire un cazzo.

Nel 1984 fu la Roma a fermare la Dynamo, quella stessa Roma che poi perse rocambolescamente col Liverpool la più bizzarra rigorata mai andata in scena nel corso di una finale di Coppa dei Campioni. Sorvolando sull’epilogo di quell’edizione e riprendendo le fila del discorso, all’Olimpico finì con un rotondo 3 a 0 per i giallorossi, mentre a Berlino Est il risultato di 2 a 1 disse bene ai ragazzi in maglia vinaccia ma non fu sufficiente per ribaltare le sorti della doppia sfida. Uno dei due gol dei tedeschi venne messo a segno da un attaccante magro stellato su cui val la pena soffermarsi il tempo di una birra, o forse due, o forse una serata intera al bar: Andreas Thom, uno che non sapeva o che forse sapeva benissimo che avrebbe potuto ballare per tanto, troppo tempo, con la ragazza sbagliata.

Questa potrebbe tranquillamente essere la copertina di un album brutto dei Joy Division

Per il giovane centravanti della Dynamo, quella contro “’a Maggica” era solamente la sua terza partita ufficiale in Europa. Aveva fatto il suo debutto ufficiale nella massima competizione continentale a Belgrado contro il Partizan, poco più che diciottenne, quando l’attaccante titolare Falko Goetz s’era dato alla fuga riparando nell’ambasciata della Repubblica Federale Tedesca nella capitale jugoslava insieme al compagno Dirk Schlegel, con cui poi sarebbe salito su un treno che sarebbe precipitato nella notte, destinazione Monaco di Baviera. Evidentemente doveva esserci un filo rosso che collegava le carriere dei due avanti della Dynamo perché si sarebbero rincontrati proprio a Berlino, in circostanze diverse ma sempre legate al calcio, parecchi anni più tardi.

Ascolto folkloristico: Falco - Amadeus
Non chiedetemi perché ma all'Addio al Celibato di #bertalife Amadeus è stato sempre nel lettore insieme a Eins Zwei Poilzei

Ad ogni buon modo Andreas Thom fece carriera fino a diventare capocannoniere nel 1988 e aggiudicarsi, lo stesso anno, il titolo di miglior giocatore del torneo. Imprescindibile in Nazionale che capitanò più volte, fu della stessa epoca di Matthias Sammer, col quale condivise le storiche marcature nella vittoria del derby socialista contro l’Unione Sovietica, giocato l’8 Ottobre del 1989.

Bel ragasol

Quella di Karl Marx-Stadt non fu l’ultima partita della DDR, ma solo perché ne vennero giocate altre per formalità e per carità di Patria. Di certo fu quella più surreale perché un mese più tardi sarebbe caduto il Muro e le due Germanie sarebbero diventate una in tutto, compreso il calcio. Ebbene, i mercanti del tempio della Bundesliga fiutarono il sangue delle squadre dell’Est, e dato che queste non erano più in grado di trattenere i propri talenti vi si precipitarono addosso come avvoltoi. 

  • L’Amburgo convinse Thomas Doll, un promettente ventiduenne della Dynamo Berlin a trasferirsi sulle rive dell’Elba. 
  • Lo Stoccarda prelevò dalla Dynamo Dresda, l’unica squadra ad essere riuscita a spezzare la decennale egemonia di Berlino, il futuro Pallone d’Oro Matthias Sammer. 
  • Il Bayer Leverkusen s’assicurò, con due colpi da maestro del Direttore Sportivo della stessa Werkself (una storia nella storia che qualcuno ha già scritto molto meglio di come potrei fare io e rispetto cui non ho tempo per addentrarmici) gli attaccanti principi delle due storiche rivali di oltre Cortina: Ulf Kirsten e, naturalmente, Andreas Thom. Per inciso, questi quattro calciatori Ossis (come venivano chiamati i tedeschi dell’Est) sono tra i pochissimi (in totale sono otto) a poter dire di aver militato sia per la Nazionale della Germania Orientale che per la Mannschaft.
Comunque sia, Thom, dopo essersi accasato nell’industriosa Leverkusen e avervi giocato per cinque anni ad un livello più che discreto, trascorse due stagioni al Celtic e fece infine ritorno a casa, proprio in quella Berlino da cui era “regolarmente scappato” una decina scarsa di anni prima. 

Nel frattempo la ragazza sbagliata, la Dynamo, con cui aveva ballato per tanto, troppo tempo, aveva perso fascino e influenza, e nella Capitale tedesca c’era spazio solamente per "die Alte Dame", la Vecchia Signora di Germania: l’Hertha Berlin. Se nel calcio c’è un Dio, non credo che questo giochi a dadi, per cui mi risulta anche difficile credere che sia solo una coincidenza il fatto che all’Olympiastadion fosse di istanza Falko Goetz, il cui nome dovrebbe dirci qualcosa, dato che era stata proprio la sua fuga attraverso i Balcani a dare il la alla carriera del buon Andreas.
Stando alle informazioni che si recuperano in rete, proprio il poc'anzi summenzionato transfuga dell’Est era l’allenatore dei biancoblu. Io però patisco sempre sbrusia di verificare le mie fonti, se non altro per evitare di sparare cazzate "tanto per". E, actually, scopro che sì, quel vecchio bucaniere di Falko (non dimentichiamolo: Scuola di Nanto) era davvero a Berlino, era davvero allenatore, ma della squadra riserve. Fa li stèss perché val comunque la pena prender buona nota di questa improbabile fatalità e farne un piccolo tesoro di coincidenza e retroscena.

Nessuno qui aveva ancora preso i cartoni di Ken Shiro come punto di riferimento: inammissibile. 

In un personalissimo “a rebours” a tinte rossonere, si rincorrono alcuni nefasti ricordi di un Hertha Berlin – Milan 1 a 0, Champions League ‘99/2000. Ho chiara memoria di quella partita. Era l’ultimo anno di Liceo e stavo guardando quella partita insieme ai miei compagni. Rammento che per tutta la durata dell’incontro pigliammo per il culo il semplice quanto efficace portiere avversario, Gabor Kiraly, la cui unica (ma grossa) colpa era un dress-code particolarmente discutibile. Il suo outfit per la serata di gala prevedeva una maglia a maniche lente e larghe ma, soprattutto, un paio di pantaloni grigi e anche un po’ bracaloni. A corti discorsi sembrava indossasse un pigiama da nonno, che, di base, non solo è l’anti-sesso per antonomasia, ma non è il massimo della vita quando giochi in Champions League contro il Milan.

Quanti di voi avevano menzione di lui prima che venissero disputati gli Europei di Francia 2016?

Al di là di questo, fa quasi sorridere pensare che di quella rosa faceva parte Andreas Thom e che un giorno ne avrei parlato.
Tuttavia, per quanto questa divagazione possa essere apparsa singolare, l’Hertha non è altro se non l’attrice non protagonista di una più elaborata sceneggiatura e, come è stato possibile raccontare la bella storia del suo biondo attaccante, c’è stato un altro giocatore cui la sorte non disse bene come a Thom. Un calciatore il cui abbandono della Dynamo non aprì scenari insperati e orizzonti di gloria più che meritati, un eroe normale cui mancò la fortuna, non di certo il coraggio...

To be continued...

Bibliografia essenziale:
Quello che deve accadere, accade - Michele Rossi
http://www.storiedicalcio.altervista.org/stadio_union_berlin.html
http://www.lacrimediborghetti.com/2015/05/andreas-thom-da-est-ovest-senza-scappare.html
https://questoluridogioco.wordpress.com/2014/05/20/la-fine-della-storia-e-il-crollo-del-football-nella-ddr/
http://indieopenbar.blogspot.it/2014/12/die-genialen-dilettantent-retrospettiva.html

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