GOOD TIMES, BAD TIMES

Per suicidarsi bisogna amarsi molto. (A. Camus)

Quando il 22 luglio del 1979 gli infermieri riconoscono il corpo schiantato sull’asfalto fuori dall’ospedale di Barcellona, l’idea è che anche stavolta l’uomo riverso sul selciato sia saltato per anticipare il suo diretto avversario.
Solo che in questo caso non si trattava di uno di quegli stopper che aveva sovrastato per tanti anni sui rettangoli verdi, ma di una morte certa che lo avrebbe falciato di lì a poco. La diagnosi, impietosa, parlava di leucemia e cancro allo stomaco: un uno-due non gestibile da nessun corpo umano.
Questa è la storia di Sándor Kocsis.

O anche della clamorosa somiglianza con Paolino Ruggi

Chiedi chi era la Honved – primo tempo

Nato a Budapest il 21 settembre del 1929, Sándor Kocsis cresce nel Kobanay per poi passare al Ferençvaros appena sedicenne. Sono gli anni che concludono la seconda guerra mondiale e allenarsi outdoor non era molto consigliabile. Così, narra la leggenda, i biancoverdi si preparavano per le partite in palestra e il buon Sándor affinava, in quegli spazi chiusi, il suo colpo di testa che diventerà una delle sue armi migliori. Andando a “rimbalzo” sui tiri a muretto dei compagni acuì in maniera esponenziale la sua capacità di coordinazione, salto e predizione delle traiettorie che, nonostante il fisico non esattamente da corazziere (misurava 177 cm), lo resero uno dei migliori colpitori di testa del secolo scorso.
Tesserato, come detto, dal Ferençvaros, Kocsis vince un campionato appena diciannovenne, buttandola dentro con una regolarità imbarazzante e venendo adocchiato prima e acquistato poi dalla Honved di Budapest.
Primo e svelto antefatto storico: la Honved in realtà si chiamava Kispest, nome del sobborgo appena fuori Budapest che aveva originato la squadra. Poi, all’inizio degli anni ’50, diventò la squadra controllata dal Ministero della Difesa ungherese che ne mutò il nome, rifacendosi a quello con cui veniva appellato l’esercito ungherese nel periodo dell’impero austro-ungarico: Honved, appunto. La diretta conseguenza di questo mutamento societario fu che tutti i migliori giocatori magiari arrivarono ad indossare la maglia rossa e nera dell’Honved.
Convogliati così tutti i maggiori talenti ungheresi sotto il proprio stendardo, la Honved vince quattro dei sei campionati disputati dal 1950 al 1956 per poi cadere in un periodo d’oblio che porterà la squadra a rivincere il titolo solo nel 1980.

 "Te lo giuro sui Beatles!"

Proprio fino al 1956… A Budapest…
Ma, per il momento, soprassediamo. Perché, come nel gioco delle carte, gli assi vanno calati con calma. Anche e soprattutto se sono di un colore solo.

Saltato, temporaneamente, l’ennesimo grande incrocio tra storia del novecento e storia del pallone, vi voglio ricordare che la Honved viene spesso invitata, in qualità di depositaria del miglior calcio d’Europa, all’estero per disputare amichevoli di prestigio che, sovente, è solita vincere. E nei rari casi in cui ciò non si verifichi, lascia comunque dietro di sé un alone di leggenda.
Una per tutte (e tutte per una): nel dicembre del 1954 i campioni d’Inghilterra del Wolverhampton invitano la Honved per una partita amichevole. Per provarsi la febbre – certo - ma anche per vendicare un paio di sconfitte epocali di cui parlerò più avanti.
La Honved si trova avanti di due reti, una ovviamente del nostro Kocsis, poi, sfruttando il fattore campo e il caldissimo pubblico del Molineaux, i “Lupi” ribaltano il risultato andando a vincere 3-2.
La partita venne giudicata talmente bella che il direttore dell’Equipe chiosò con un “Prima di dire che i Wolverhampton Wanderers sono invincibili aspettiamo che vadano a giocare a Mosca o a Budapest”. Così, ipso facto, nacque l’idea della Coppa dei Campioni: la competizione regina, infatti, nascerà ufficialmente proprio nella stagione successiva sull’onda dell’euforia del match in questione.
Una nota di colore: la Honved, che col suo gioco effervescente ha esercitato una spinta propulsiva fondamentale alla creazione del torneo, giocò solo due partite nella suddetta competizione. Ma, come prima, questa mettetela lì che ci arriverò più avanti. Sono affetto, in termini medici, da un vero e proprio attacco di logorrea acuta.
Vi basti sapere, per ora e a titolo meramente informativo, che il tabellino del nostro Sándor in maglia rossonera parla chiaro: 146 presenze certificate da 153 palloni messi in fondo al sacco.
Scusate se è poco, eh.

Gli anni d’oro della grande Ungheria – intro

cortocircuiti emozionali

Comprendo perfettamente che da un punto di vista metrico suonasse meglio “Gli anni d’oro del grande Real”, ma Max Pezzali ha compiuto un peccato di distrazione macroscopico non tirando in ballo la nazionale ungherese che spadroneggiò sul globo terracqueo durante i favolosi anni ’50.
Imbattuti dal maggio del 1950 al luglio del 1954, con uno score di 29 vittorie e tre pareggi 143 gol fatti e 33 subiti, i magiari dipinsero calcio e lasciarono a bocca aperta chiunque li vedesse dal vivo.
Ma andiamo con ordine.

L’invenzione del falso nueve – intermezzo pubblicitario

Storia incredibile: il centravanti di quella squadra è l’indomabile Deak, uno che, per capirci, sfondava regolarmente le cinquanta segnature a stagione. Al suo fianco, là davanti, giostravano il nostro Sándor e un giocatore discreto che di nome fa Ferenc e di cognome Puskás.
Un tridente da far drizzare i peli sulla schiena anche al difensore più scafato in circolazione. Non fosse che il buon Deak, dal carattere fumantino e dalla schiena rigorosamente diritta, decide di non mandarle a dire al regime comunista. Dichiara apertamente la propria ostilità all’ideologia e al partito, creando una situazione che lo induce a rinunciare alla maglia rossa a partire dal 1950.
Così si manifesta il problema della sostituzione: ci sono vari candidati in lizza, ma nessuno è così forte da accaparrarsi il posto senza discussioni.
Gusztáv Sebes, l’allenatore ungherese, apprezzava molto un’ala destra militante nel Voros Lobogo, che dimostrava una grande intelligenza tattica e una tecnica indiscutibile: Nandor Hidegkuti. Solo che in nazionale si trovava chiuso nel ruolo di competenza e non riusciva ad esprimere tutto il suo potenziale. Così, alla vigilia di due amichevoli propedeutiche alle Olimpiadi di Helsinki del 1952, Sebes, che non avrebbe seguito la squadra per problemi personali, consegnò una lettera al suo vice e gli intimò di aprirla e leggerla solo poco prima di scendere in campo nel primo incontro.

l'evoluzione: decisamente sopravvalutata

A sorpresa, invece delle programmate parole d’incoraggiamento per i suoi ragazzi, Sebes aveva semplicemente scritto: “Col 9 gioca Hidegkuti”. Fatto rivestire in gran fretta Palotás, il centravanti presunto titolare, e richiamato dalla tribuna Nandor, l’Ungheria sbaragliò 5-1 la Polonia. E quello che adesso viene chiamato “falso nueve” prese forma e diventò uno dei marchi di fabbrica della nazionale ungherese: il centravanti arretrato che apre spazi per gli inserimenti dei compagni nasce right there right then.

Gli anni d’oro della grande Ungheria – svolgimento e conclusione

Ora possiamo rientrare, con più cultura di quando eravamo partiti, nell’orbita della grande Ungheria.
Olimpiadi di Helsinki, 1952.
Nel turno di qualificazione al tabellone principale i magiari sconfiggono, non senza qualche brivido di sorta, la Romania per 2-1. Il secondo gol è segnato, inevitabilmente, da Kosics che si ripete negli ottavi contro l’Italia (3-0 il finale) e si ripropone con una doppietta nel comodo 7-1 inflitto nei quarti di finale agli incolpevoli turchi.
Non ce n’è. Non ce n’è per gli avversari: i ragazzi in rosso sono troppo superiori, giocano un calcio avanti anni luce rispetto all’epoca e possono contare su una batteria di fuoriclasse che “Zio – tiggiuro - levati che mi fai ombra!”.
In semifinale le vittime designate sono gli svedesi che fanno quel che possono, ma vengono asfaltati 6-0 con doppietta dello scoppiettante Kosics.
La finale vedrà la nazionale magiara incrociare gli scarpini contro la Jugoslavia.

attaccarsi l'oro al collo: check!

Non mi dilungo su come i balcanici arrivarono allo scontro finale, ma l’impressione è che non saranno tutte rose e fiori per l’Ungheria.
Puskás si fa parare un rigore e, per lunghi lunghissimi minuti, i rossi, per l’occasione in bianco, sembrano irretiti. Poi, perché a forza di dai e dai ci si prende, Puskás la sblocca a 20’ dalla fine e Czibor la mette in ghiacciaia a al minuto 85.
È un alloro storico. Storico e bellissimo.

Ora facciamo un breve e circoscritto passo in avanti. Ci incamminiamo a Budapest dove c’è lo stadio più grande, giocoforza, della nazione che, fino a pochi anni fa, si chiamava NeptStadion: lo Stadio del popolo. Utilizzo l’imperfetto perché ora è stato rinominato alla memoria di Ferenc Puskás, capitano coraggioso di quella generazione indimenticabile che infiammò gli anni ‘50 del pallone.  Nei pressi del suddetto stadio c’è un wine-bar (o borozo nella lingua autoctona) il cui nome è strano e, solo apparentemente, senza senso: 6-3.

"Offrimi un bianco e parlami dell'Aranycsapat"

Adesso, invece, siamo obbligati a fare un passo indietro.
Dopo le Olimpiadi vinte, la squadra ungherese venne formalmente invitata dal grande capo della Football Association e plenipotenziario Fifa Stanley Rous a disputare un’amichevole contro i maestri inglesi nel tempio più tempio del calcio: the Wembley Stadium.
Abbreviando e giocando con la fantasia, posso sospettare che il dialogo si sia svolto così.
Rous: ”Vorreste farci l’onore di disputare un’amichevole a casa nostra, in quel di Wembley?”
Sebes: “Accettiamo di buon grado, ma permetteteci di scegliere la data”
Rous: “Accordato”
Sebes: “Allora ci si becca il 25 novembre 1953. Portate il pallottoliere”
Rous: “Eh?”
Stadio gremito, of course, ed entusiasmo alle stelle. Gli alfieri di sua maestà pensavano, naturalmente, di fare un sol boccone di quegli scappati di casa provenienti dalla parte sbagliata della cortina di ferro. Ma, ahiloro, fare i conti senza l’oste è uno sport pericolosissimo. Ed infatti l’Ungheria tritura letteralmente gli avversari ed infligge la prima sconfitta casalinga in 90 anni di storia ai bianchi d’Albione con il rotondo punteggio di 6-3 con tripla di Hidekguti e doppia di Puskas. Ecco, se siete stati attenti, spiegato il nome del wine-bar sopra citato.

ho sentito urla di furore di generazioni senza più passato, di neoprimitivi

Pochi mesi dopo Rous e Sebes si rincontrano e tornano in argomento.
Sebes: ”L’hai capita adesso quella del pallottoliere?”
Rous: ”Of course. Ci permetta però di domandarle soddisfazione e di chiedere una rivincita”
Sebes: ”Accordato. Ma ci faccia l’onore di ospitarvi nella nostra amata Budapest”
Rous: ”Sarà un piacere per noi, facciamo a maggio del prossimo anno (1954 ndr)?”
Sebes: ”Il ventitrè andrebbe benissimo. Sareste operativi?”
Rous: ”Decisamente. Ci si vede a maggio”
Sebes: ”Mi raccomando… Il pallottoliere!”
E così a Budapest va in scena, parafrasando il conte Guastardo della Radica messo in scena da Fabio De Luigi, la mattanza dell’inglese. AH LAMATTANZA DELL’INGLESE IN BUDAPEST! Con le doppiette del nostro Sándor e di quel satanasso di Puskás il risultato finale non dice, ma urla 7-1 Ungheria. Roba da stropicciarsi gli occhi e pizzicarsi ripetutamente per essere sicuri di non essere sotto acido. Ma è tutto vero, i maestri del football non sono più di là dall’acqua ma risiedono a Budapest.

Con queste prospettive di grandeur l’Ungheria si affacciava come una delle maggiori favorite ai mondiali di Svizzera del 1954.


L’Ungheria era stata inserita in un girone comprendente anche Germania Ovest, Turchia e Corea del Sud. Proprio gli asiatici furono i primi a saggiare l’uragano ungherese che si abbatté sui malcapitati musi gialli evitando accuratamente di fare prigionieri. Il 9-0 finale, con tripletta di Kosics, lascia pochi dubbi sullo svolgimento delle operazioni.
Il secondo ed ultimo step del girone prevedeva la sfida ai tedeschi occidentali. Il risultato finale non lascia scampo nemmeno ai teutonici, ma qualcosa il 17 giugno a Zurigo si rompe. L’eclatante 8-3 finale, griffato da un poker dell’ineffabile Kosics, nascondeva nelle pieghe della mano gli interventi assassini che il panzer Liebrich aveva riservato al temutissimo Puskás e più specificatamente alla sua caviglia sinistra.
Così, vidimato il passaggio del turno, i magiari si presentarono al cospetto del Brasile senza uno degli uomini di spicco. Infatti Puskás non riuscì a recuperare per il match valido per i quarti di finale. La partita, passata agli onori delle cronache come “La battaglia di Berna”, si concluse 4-2 per l’Ungheria, in una gara nervosissima condita da una doppietta del solito Kosics e da una maxi rissa finale che Puskás, in abiti civili, decise di dirimere con una bottigliata in testa al capitano verdeoro Pinheiro.

tutto molto bello

In semifinale, contro l’Uruguay che aveva eliminato gli inglesi, ancora senza Puskás, Kosics si caricò la squadra sulle spalle e, durante i supplementari trascinò l’Ungheria in finale con due spettacolari colpi di testa che fissarono il risultato sul 4-2 finale.
Ed eccoci, finalmente, a parlare della partita più incompiutamente leggendaria di tutti i tempi.
Berna, 4 luglio 1954. Finale mondiale: Ungheria-Germania Ovest.
Passano 8 minuti e i magiari sono già avanti di due reti, ma i tedeschi, che corrono come cavalli imbizzarriti, rimettono la gara in carreggiata e al 18esimo si ritrovano già sul 2-2. Da lì in poi è un assalto ungherese all’arma bianca che si infrange su pali, traverse, salvataggi sulla linea e interventi fuori bollo di Turek. Così, come recita il vecchio adagio, tanto tuonò che piovve. A quattro minuti dalla fine, dopo un perfetto contropiede, Rahn ribadì in rete una corta respinta della difesa ungherese e piazzò l’impensabile 3-2 tedesco. I quattro minuti che restano sono un film a sé stante: Puskás si vede annullare un gol per dubbio fuorigioco, piovono palloni nell’area tedesca da ogni dove, Cszibor si divora la palla del pareggio sparando su Fritz Walter e infine… Infine la rovinosa caduta degli dei si materializzò e la Germania Ovest si laureò Campione del Mondo per la prima volta.
Breve e grottesca curiosità: in tutta risposta Israele proclamerà lutto nazionale.

Agli ungheresi rimase l’effimera soddisfazione di aver laureato capocannoniere del torneo con 11 goals Sándor Kosics e le recriminazioni per le pratiche chimico/farmaceutiche poco chiare utilizzate dai tedeschi per preparare la partita. Pratiche che portarono diversi elementi dell’11 teutonico a beccarsi un’epatite piuttosto sospetta nei giorni successivi al match.

Santu in love with Mad Season

Dopo quella sconfitta, l’Ungheria non si risollevò più e continuò stancamente a muoversi per l’Europa fino al 1956.
Kosics, che proprio in quell’anno abbandonerà la nazionale, lascia una traccia importante fatta di 75 reti in 68 apparizioni. Una delle medie-gol più alte di sempre per quel che riguarda le selezioni nazionali.

Chiedi chi era la Honved – secondo tempo

Arriviamo, adesso, all’anno che cambiò per sempre il calcio ungherese: il 1956.
La Honved, avendo stravinto il campionato ungherese, si era guadagnata il diritto di disputare la seconda edizione della Coppa dei Campioni appena nata. E con ragionevoli possibilità di arrivare fino in fondo.
Il sorteggio aveva parlato in basco e, per gli ottavi di finale, i ragazzi in rosso e nero dovevano affrontare l’Athletic Bilbao.
Al timone della Honved, nelle vesti di Direttore Tecnico, c’è un ebreo errante, calciofilo, filosofo e, nel tempo libero, lanciatore di maledizioni a mezzo stampa: Bela Guttmann.

in tutte le storie di calcio DEVE esserci un ebreo errante

Cittadino del mondo quando ancora la Lonely Planet non era un must per tutti, giocò e allenò praticamente ovunque (Italia, Argentina, Portogallo, Cipro, Brasile, Ungheria, Stati Uniti, Svizzera, Grecia e Austria), portando con sé l’aura misteriosa del vero innovatore e di un uomo che aveva vissuto molteplici vite racchiuse in una.

Laureato in psicologia, si trasferì a giocare negli Stati Uniti negli anni ’20, perse molti soldi in borsa nel crollo di Wall Street del 1929, tornò in Europa passando misteriosamente indenne le forche caudine del secondo conflitto mondiale (“Dio mi ha aiutato” era la sua chiosa classica), allenò ovunque vincendo tanto e insegnando altrettanto. Maledì il calcio portoghese prendendoci in parte, poiché solo il Benfica ha “beneficiato” delle sue parole. Sviluppatore empirico di un calcio basato su fitte trame di passaggi, imparò molto da Szebes, ma se ne distaccò in fretta fino ad avere una folgorante ed incredibile carriera a tutte le latitudini.
Ma in quella stagione, proprio in quella e poi mai più, era a Budapest a cercare di raccogliere i frutti degli alberi di una generazione senza precedenti.

lo zio Neil lo sa sempre prima

La Honved aveva superato per sorteggio il turno preliminare e si trovava, come scritto sopra, ad affrontare negli ottavi di finale i campioni di Spagna dell’Athletic Bilbao. L’andata prevista al San Mamès si disputò il 22 novembre del 1956 e vide i baschi imporsi per 3-2, risultato sicuramente ribaltabile nel ritorno. Ovviamente Kosics non si fece pregare e segnò il secondo gol dei suoi, quello che, se fossimo in condizioni normali, definiremmo della speranza.
Il ritorno si sarebbe dovuto disputare a Budapest, al Nepstadion, più o meno un mese dopo ed invece, il 19 dicembre, le squadre scendono in campo all’Heysel di Bruxelles.


Crossroads – Il Novecento irrompe in campo

Stalin cade in area: rigore per la Roma 

Sono le 15 del 23 ottobre 1956 e gli studenti dell’università di Tecnologia ed Economia di Budapest scendono in piazza per mostrare la propria solidarietà agli studenti della città polacca di Poznan, in cui il governo filo-sovietico aveva represso nel sangue una manifestazione.
La folla si ingrossa e, superato il Danubio, punta minacciosa verso il Parlamento. Viene divelta la statua di Stalin e vengono date alle fiamme diverse librerie sovietiche. I soldati ungheresi strappano le stelle rosse delle loro uniformi e si uniscono al fiume umano di cui sopra.
L’AHV, la polizia di sicurezza, invece, spara sulla folla ma non è una grande idea.
Il casino assume immediatamente dimensioni ingestibili per il governo di Nagy e l’URSS decide che è ora di dare precisi ordini ai militari sovietici dislocati nel territorio ungherese.
Ma costoro, da anni in servizio permanente nelle terre del bel Danubio blu, oramai sono integrati alla perfezione e fanno finta di non capire e non intervengono in maniera appropriata.
Mentre Chruščёv non sa bene come comportarsi, l’AHV continua a sparare sulla folla e nelle fabbriche sorgono Consigli Operai che cercano di guidare la rivoluzione in maniera più organica e meno a cazzo di cane.
Nagy cerca di negoziare un cessate il fuoco con Chruščёv e ci riesce il 28 ottobre di quel 1956. Dal canto suo il plenipotenziario URSS cerca di cavarsela con una soluzione pacifica “alla polacca” che prevederebbe un aumento di diritti civili nominali, ma un sostanziale mantenimento dello status quo.
Ma l’affaire-Suez (URSS-Egitto vs USA-Israele-GB-Francia) appena scoppiato in Egitto non permette all’Unione Sovietica di mostrarsi troppo “gentile” nei rapporti con i propri satelliti al di qua della cortina di ferro.

live, piano piano, sottovoce, come piace a noi

Preoccupato da possibili spaccature interne al Partito e dalla paura di un possibile intervento militare degli USA a sostegno dei rivoltosi, paventato persino dalla celeberrima Radio Free Europe, il 4 novembre il PCUS (Partito Comunista dell’Unione Sovietica) – sotto forma di un ordine di Chruščёv - spedì 200000 uomini e 4000 carri armati dell’Armata Rossa verso Budapest per risolvere la questione. E così, fino alla richiesta accettata di cessate il fuoco di studenti ed operai il 10 novembre, furono attacchi di terra e bombardamenti mirati alle fabbriche dove risiedevano i Consigli Operai meno propensi a scendere a patti. In questo modo l’Unione Sovietica mise in pratica l’Operazione Barbarossa che costò la vita a oltre 2600 magiari e riportò l’Ungheria sotto l’egida moscovita.
Con il PCUS in totale controllo della situazione, i negoziati tra Consigli dei Lavoratori e Unione Sovietica continuarono fino al 19 dicembre ma portarono solamente alla nomina del capo del Partito Socialista Operaio Ungherese Jànos Kàndàr che, supportato pesantemente dai sovietici, permise loro di controllare in maniera sempre più capillare l’intera vita della nazione ungherese.

CHIEDI CHI ERA LA HONVED – 4 minuti di recupero

Spiegato a sommi capi perché non fosse auspicabile giocare a Budapest il 19 dicembre 1956, vi racconterò come va a finire questa storia.
Nella nebbia densa di Bruxelles succede che il Bilbao segna dopo 3 minuti, ma viene ripreso immediatamente da Lazslo Budai. Poi si infortuna l’estremo difensore magiaro Faragò e uno degli attacanti, Czibor, è costretto ad arretrare in porta in quanto a quell’epoca le sostituzioni non erano ancora state pensate.
Nella ripresa la Honved, per l’occasione in bianco, si sbilancia per cercare il gol che avrebbe portato la sfida a gara 3, ma prende due reti quasi in fotocopia. La parola arrendersi non è insita nel dna della squadra ungherese, così prima “The man with the golden head” – come lo avevano ribattezzato i giornali d’oltremanica – Sándor Kosics e poi Puskás portano il risultato sul 3-3. Ma il tempo è poco e rien ne va plus. La Honved, una delle favorite per il titolo, è eliminata subito.
Ma i casini veri devono ancora arrivare.

Molti giocatori erano riusciti, di straforo, a far espatriare le proprie famiglie e a farsi raggiungere a Bruxelles e avevano risposto alla richiesta di rimpatrio con una sonora pernacchia.
Bela Guttmann, sapiente e misterioso come di consueto, aveva cercato di salvare capra e cavoli organizzando due tournée per quella squadra di fenomeni: una in Spagna e una in Sudamerica nella speranza che la situazione si ricomponesse.


Invece la situazione peggiorò e la Federazione Calcistica Ungherese, ora in pieno controllo sovietico, scomunicò i rosso-neri e fece pressioni sulla Fifa che dichiarò fuori legge l’uso del nome Honved  e contestualmente illegale quella squadra.
Così molte strade si separarono (chi tornò in Ungheria, chi andò in Spagna, chi sparì misteriosamente) e da questo momento in poi il calcio magiaro vivrà di ricordi, Lajos Détári e poco poco altro.

Decisioni irrevocabili

Sándor Kosics, per una scelta e per un gioco del destino, si rifugia in Svizzera dove aveva incantato le folle avvezze all’arte pedatoria non più tardi di 5 anni prima. Vende elettrodomestici – non può essere tesserato da nessuna squadra perché ovviamente la Federazione Ungherese non dà l’assenso - e quello che guadagna lo utilizza per preparare l’espatrio della moglie Alice e della figlia Agnese. Quello che gli rimane lo utilizza per lenire la sua depressione con ingenti quantità di alcolici.
La stucchevole amnistia della Federazione ungherese per i giocatori che non erano rientrati in patria gli permette finalmente di accasarsi allo Young Fellows di Zurigo nella stagione 1957-58 e di migrare a Barcellona l’anno seguente.

un Sándor bello e impossibile

In questo modo Sándor può così prolungare la sua brillantissima epopea sportiva illuminando a giorno la capitale catalana insieme a stornelli del calibro di Luis Suarez, Ramallets e l’amico di sempre Zsoltan Czibor, e di vincere due volte il campionato spagnolo, due Coppe di Spagna e finalmente provare a primeggiare in Europa.
Cosa che in effetti contribuisce sostanzialmente a fare, poiché sono le sue reti che permettono al Barcellona di alzare la Coppa delle Fiere, prototipo di Coppa Uefa che prevedeva la partecipazione solamente di squadre di città influenti che ospitavano eventi fieristici di alto profilo (da qui il nome), nel 1960.
Ma una strana legge del contrappasso è dietro l’angolo e si materializza il 31 maggio del 1961.

e bravo il Barcellona: doveva perdere questa e venire a vincere contro il Doria. Stramaledetti!

A Berna – e mi sembra ovvio! – si affrontano per la finale di Coppa dei Campioni Benfica e Barcellona.
Sarebbe un commiato perfetto: vincere proprio dove si è consumato il maggior dramma sportivo della tua vita. La fenice che risorge dalle proprie ceneri, la celebrazione della seconda possibilità, la potenza del ritorno alle origini.
Ed invece le aquile lusitane guidate in panchina da – rullo di tamburi doveroso – Bela Guttmann riescono ad avere la meglio per 3-2. Credo sia quasi superfluo dirvi che i gol del Barcellona li mettono a segno Kocsis e Czibor, ma lo voglio fare lo stesso.
L’incompiutezza aveva vinto di nuovo.

un ricordo commosso anche per Mario Monicelli

E questo senso d’incopiutezza accompagnerà Sándor Kocsis fino al 1965, anno del suo ritiro dal calcio e poi ancora oltre. Oltre il ristorante che aprì a Barcellona, oltre alle nostalgie per la sua terra d’origine, oltre il mestiere d’allenatore, oltre le bottiglie, oltre i malanni irrevocabili che lo colpirono.

Oltre quella finestra d’ospedale, oltre la mattina del 22 luglio del 1979.

IL CALCIO DEGLI ALTRI VOL. 2

Segue da IL CALCIO DEGLI ALTRI VOL. 1.


Non è stato per niente facile collegare tutto


Questa è, last but not least, la storia di Lutz Eigendorf, un uomo cui la Storia mostrò il fianco ma che all’osteria della DDR fece probabilmente i conti senza il suo terribile oste ed i suoi tirapiedi.

Gieẞen, 20 Marzo 1979. Non credo che qualcuno abbia mai sentito parlare di questa città tedesca. Io no di certo, per lo meno. Ebbene, è situata nello stato federato dell’Essen, una volta Germania Ovest, e per esigenze di prosa va precisato che la seguente vicenda ha inizio proprio lì, in un’area di sosta in prossimità di una strada che porta oltre Cortina. 

In realtà ho scoperto che Gieẞen è un'importante città universitaria

È una notte brumosa e un tassista fermo lì immagina che quello sia un buon posto per far salire qualcuno e condurlo a destino. Immagina più che bene. Perché, esattamente nell’istante in cui si meraviglia nel vedere il pullman della Dynamo Berlin stranamente ma inequivocabilmente a Occidente, parcheggiato davanti a lui, un ragazzo spalanca la portiera del suo taxi ordinandogli di portarlo via da lì. Il tassista è un tipo sveglio, non impiega molto a capire che l’uomo trafelato appena montato a bordo della sua auto, che fatica a respirare, che ha paura e continua a voltarsi indietro per accertarsi che nessuno lo abbia visto…  in realtà avrebbe dovuto salire sulla corriera della Dynamo e rientrare a Berlino Est. 
L’area di sosta di Gieẞen ha assicurato un cliente al tassista, la cui scelta di attendere qualche pendolare s’è dimostrata una buona idea. Tuttavia se la destinazione della corsa è “chiara”, il destino verso cui sta accompagnando l’ormai ex-calciatore della Dynamo Berlin non lo è altrettanto. Anzi, per Lutz Eigendorf la strada verso Kaiserslautern, perché è lì che ha chiesto d’essere condotto (o meglio, come vedremo, “RI-accompagnato”), rappresenta il più grande tuffo nel buio di tutta la sua vita; nondimeno sono sempre esistite ragioni giuste per fare cose sbagliate, e lui, quella sera, ne ha giusto un paio per decidere di litigare con il proprio passato, darsi alla fuga e diventare un rifugiato politico.

Lutz Eigendorf

Lutz Eigendorf nasce nel 1956 a Brandeburgo sulla Havel. 
Fino a quattordici anni milita per la squadra locale, la Motor Süd Brandenburg, in cui si mette in luce grazie al suo limpido talento. Gioca nel ruolo di centrocampista centrale ed è in grado di alternare ripiegamenti difensivi a fasi di cerata costruzione. Gli scout della Dynamo Berlin sentono parlare di lui, vanno sul fiume Havel con carta e penna e lo “convincono” a prendere in considerazione l’idea di trasferirsi nella Capitale. 
Circa quattro anni dopo debutta in prima squadra e nel 1978 è uno degli artefici del trionfo in campionato dei berlinesi color vinaccia. Qualcuno, date la giovane età, il ruolo da regista davanti alla difesa e l’indiscutibile stoffa da fuoriclasse, lo ribattezza “Il Beckenbauer dell’Est”. A ventidue anni scarsi viene convocato in Nazionale, la sua carriera è in ascesa e tutto sembra promettergli un futuro radioso. Si sposa con Gabrielle e ben presto Frau Eigendorf gli regala una bimba, Sandy. Ciò potrebbe apparire come una nota di colore, un promemoria da Studio Aperto, ma se questa storia fosse un film, il suo matrimonio sarebbe un dettaglio tutt’altro che insignificante. E presto se ne evinceranno i perché.

Se invece questa storia fosse una canzone sarebbe senz’altro “Today” degli Smashing Pumpkins perché il testo le si addice perfettamente, le sta bene addosso come un vestito cucito per l’occasione.

My angel wings were bruised and restrained

Il “Today” di Lutz Eigendorf si manifesta a Kaisersalutern, dopo un amichevole tra la Dynamo e "I Diavoli Rossi", terminata 4 a 1 per i padroni di casa. Il ragazzo dell’Est cova la voglia di abbandonare Berlino e lasciarsi per sempre alle spalle la Cortina di Ferro.  L’opportunità è propizia, “la situazione è eccellente”: deve solo trovare la forza di separarsi da tutto, non solo dai propri compagni e dal proprio paese, ma anche e soprattutto da moglie e figlia. 
Come recitano le lyrics di “Today”, quel giorno per Lutz è il più grande che possa mai vivere, non può aspettare un domani, quel domani che sarebbe troppo lontano, troppo evanescente. Vuole di più rispetto a quanto possa garantirgli la vita di Berlino, è quasi annoiato, forse schifato, dallo spiacevole compito di servire la squadra della Stasi, e assecondare così le manie e i capricci di Mielke, il padre-padrone della DDR e della Dynamo. 
Prima di rinnegare sé stesso, before get out, si strappa anche il cuore, tale è il bisogno di voltare pagina, di non sapere più cosa ci sia al di là del limes. Quello che non può aspettarsi, o forse sì ma è meglio non confessarselo, è che non potrà mai volare come desiderato, le sue ali saranno sempre “bruised and restrained”, qualcuno farà di tutto per ammaccarle e tenerle sotto il proprio controllo, finanche a distruggerle.

Non proprio un premier di specchiata onestà

Dopo un anno sabbatico trascorso lontano dal campo, causa il nein da parte del Regime Orientale del transfer necessario perché l’ex-calciatore della Dynamo possa riprendere a giocare per una squadra della Bundesliga, Eigendorf viene tesserato nelle fila del Kaiserslautern. 
La strada sembra diritta ma in realtà non è proprio così, anzi. Purtroppo Lutz è costretto a lasciarsi le aspettative, almeno quelle sportive, alle spalle. Non garantisce infatti quella continuità di rendimento tale perché l’allenatore lo veda e gli possa affidare le chiavi della regia dei Diavoli Rossi. Il rapporto tra Eigendorf e il K’lautern si interrompe nell’estate del 1982 quando viene ceduto all’Eintracht Braunschweig.


JÄGERBOMB

La squadra sassone non ha una storia gloriosa ma può vantarne alcune curiose. 
Innanzitutto detiene il non marginale primato di essere stata la prima società ad applicare uno sponsor sulle proprie divise di gioco. 
Dato che la sponsorizzazione sulle maglie era vietata, l’Eintracht B. con sottile giurisprudenza aveva cambiato il proprio stemma leonino con quello del cervo Hubertus, il simbolo del liquore Jägermeister. E in quel momento aveva cambiato il destino della storia delle sponsorizzazioni nel mondo del calcio. 

Che festa di merda, io non ci andrei mai in un posto in cui ti danno solo Jägermeister.
A) Morirei al quarto giro se me li dessero tutti lisci; 
B) Subirei attacchi di tachicardia fino a svenire se me li dessero con la Red Bull.

Personalmente la trovo una vicenda davvero interessante per vari motivi. 
Il veto ai brands muoveva dal fatto che, concedendo alle squadre la possibilità di esibire sulle maglie il marchio di una qualsivoglia impresa o azienda, si sarebbe alimentata un’eccessiva competitività tra i giocatori. A ben guardare e col senno di poi questo pericolo non s’è mai concretizzato né se n’è mai verificata l’ipotesi (a dire il vero io non ho nemmeno capito cosa volesse realmente dire). 
Inoltre gli sponsor sono diventati qualcosa di intrinsecamente legato alle squadre, un ulteriore simbolo identificativo. 
Da bambino pensavo che il marketing stuprasse tutta la poesia della fede calcistica; paragonavo il panorama pedatorio europeo a quello sportivo nord-americano in cui ogni franchigia poteva esibire solamente il proprio nome, novanta volte su cento deciso dai tifosi, le altre dieci scelto per acclamazione, e ritenevo che il secondo sistema fosse più genuino del primo. Col tempo ho cambiato diametralmente idea, realizzando che in fondo, forse molto in fondo, c’è una sorta di suggestione anche nello sponsor sulle divise dei giocatori. 
Chiunque abbia a cuore la Serie A saprebbe affermare, con discreta certezza, quali marchi e di cosa comparivano sulla maglia del Napoli di Maradona o su quella dei Gemelli del Gol della Sampdoria. Insomma, non è qualcosa che può essere derubricato a “di più” commerciale: è un “di più”, un accessorio, e su questo si è tutti d’accordo, ma con una relativa importanza capitale, a tratti romantica. Poi, è ovvio, se uno ha un logo di merda, puoi metterlo dove ti pare che farà schifo, però si tenga buono il primo dei due discorsi.

Immagini evocative


VI FACCIO UN FAVORE E ME NE VADO

Quando Lutz EIgendorf si trasferisce all’Eintracht B. è il 1982, e proprio in quell’anno un’icona del calcio tedesco rinuncia al proprio “marchio di fabbrica”, la barba ispida, per lanciare la sponsorizzazione di un after-shave. Il giocatore di cui parliamo, personaggio controverso e contro tendenza, è Paul Breitner, la cui carriera -e non potrebbe essere diversamente- è collegata al Braunschweig e rappresenta la seconda curiosità di cui sopra. Evidentemente esisteva un feeling particolare tra la squadra della Sassonia e l’eversivo sottobosco sinistrorso e socialista che s’annidava al limitare della Cortina di Ferro.


Che foto è? Breitner e Hoeneẞ del Bayern

Vorrei cercarla di farla il più breve possibile ma sintetizzare Breitner è un abominio. 
Infatti Der Afro, soprannome con cui era conosciuto per via della capigliatura folta e la barba incolta, ha sempre fatto parlare di sé e non solo come calciatore ma anche come intellettuale dissidente. Non ha infatti mai nascosto le sue simpatie di sinistra, posando anche con il Libretto Rosso di Mao Tse-tung, e ciò gli è valso anche un secondo soprannome: il Maoista
Come calciatore è stato uno dei più grandi interpreti del gioco nel ventesimo secolo tedesco ed uno dei più rappresentativi di tutta la storia della Nazionale. Fa parte, tanto per capirci, della ristretta e selezionatissima nicchia di calciatori ad aver segnato in più di una finale mondiale. Viene ricordato per due celebri rigori, quello della bandiera nel 1982 contro l’Italia e quello del freddo e teutonico pareggio contro i Paesi Bassi nel 1974, che spense la magia dell’Olanda del calcio totale anticipando poi il gol vittoria del folletto Muller. 

Come distruggere favole: si veda dal 1' e 46''

Tuttavia non era stato il proprio bagaglio ideologico ad impedirgli di trasferirsi a Madrid, proprio dopo il Mondiale vinto in casa; il passaggio aveva stonato a livello intellettuale perché il Real era la massima espressione calcistica della Spagna franchista, non esattamente la stessa parrocchia di Breitner. 
Tanto per fare una chiacchiera pepata da bar varrebbe la pena domandarsi se a Herr Paul interessassero più la fama e gli sghei anziché la convinzione in precise idee politiche. E poi, a voler essere maliziosi, c’è sempre una certa seduzione nell’essere alternativi, hipster ante litteram o, per dirla con Bertolt Brecht, nel sedersi dalla parte del torto quando tutti gli altri posti sono già stati occupati.

Con Kevin Keegan

Da queste poche righe risulta incomprensibile come sia stato possibile che il Maoista, non proprio il re dei coglioni, sia finito a giocare a Braunschweig dopo l’esperienza madridista. 
Ebbene, nel 1977 a Frau Breitner era venuta un’improvvisa nostalgia di crauti e stinco e aveva insistito perché il marito lasciasse la penisola iberica. Il guaio però consisteva nel fatto che Paul era socialista solo coi soldi degli altri e prima di decidere di rientrare alla base voleva essere certo che in Germania qualcuno lo riabbracciasse con moneta sonante. Tornare a Monaco non sembrava essere una buona idea, data l’accoglienza che proprio quell’anno gli avevano riservato i suoi ex-tifosi in occasione della partita di Coppa Campioni contro Il Real Madrid. Nondimeno però nessun’altra squadra aveva la capacità economica per accontentare l’eclettico calciatore cappellone. O meglio, qualcuno quella disponibilità ce l’aveva: un nemmeno troppo insospettabile Günter Mast, il proprietario dello Jägermeister, sponsor multimilionario dell’Eintracht Braunschweig.

Alcol e soldi sono sempre stati un'accoppiata immorale

In Sassonia Paul Breitner, tra Coppe e Campionato, avrebbe messo a referto quindici reti ma non sarebbe durato più di una stagione perché il suo protagonismo sarebbe stato mal sopportato dai compagni di squadra e dalla società. Se ne sarebbe andato senza troppi cerimoniali e naturalmente a modo suo:”Ich me euch jetz den Gefallen und gehe”; che in italiano suona come:”Vi faccio un favore e me ne vado”.
Confrontando le annate si desume che Eigendorf e Breitner non abbiano mai giocato insieme nell’Eintracht, ed è così. Ciò che li accomuna è solamente aver militato nella stessa squadra, cosa che, scandagliate alcune sue vicende nonché le annesse specificità, risulta comunque singolare.


LA LETTERA SCARLATTA

Eigendrof ed Eintracht Braunschweig

Torniamo a bomba nel 1982, l’anno in cui Lutz Eigendorf firma per il Braunschweig, cosa che ho già scritto duecento volte. Va detto, e per onor di cronaca e perché questa -l’avrete capito dai vari preamboli- non è una storia Disney, non è previsto un happy-ending e non è nemmeno sulla falsariga del film Miracle, va detto, ripeto, che il cosiddetto Beckenbauer dell’Est ci capisce poco nella sua nuova realtà, fatica ad imburrare il pane dalla parte giusta. Insomma, è come se subisse una sorta di maledizione di Anteo, il mitologico eroe che rimaneva senza forze una volta perso il contatto con la propria terra. 
Il fatto è che forse a Lutz non interessa poi tanto confermare la sua bravura o sfondare, non gli interessano nemmeno i soldi, quello che gli interessa maggiormente è lo stile di vita dell’occidente tedesco, in una parola: la libertà. 
Insomma, quella che prima scorreva come poesia ora sembra essersi concretizzata in prosa. A Ovest si sposa con un’altra donna, ritrova un vecchio amico (il pugile Karl-Heinz Felgner, come lui un transfuga dell’Est, almeno all’apparenza) e va pure in televisione per consigliare ai suoi colleghi orientali di trovare ingaggi in Bundesliga. Quest’ultimo è un errore capitale perché con esso firma presumibilmente la sua condanna a morte (e in senso letterale, non figurato) perché, come fosse un principio fisico, ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. A qualcuno oltre il muro il suo endorsement è suonato più come l’ulteriore tentativo di dare scacco matto al Re e quella che ora attende Lutz è la più terribile ed obliqua delle vendette.

Infatti il guaio è che per quanto Lutz creda d’essere lontano da ogni pericolo, il detto “Out of sight out of mind” non vale se le menti sono quelle, diaboliche e rancorose, degli uomini della Stasi, le stesse che lo hanno preso di mira (e dire così è un eufemismo) fin dal momento in cui l’“ex-calciatore” della Dynamo di Mielke è salito sul taxi nell’area di sosta della sperduta Gieẞen. O per lo meno questo è ciò che credono molti giornalisti che hanno indagato sull’accaduto e diversi sono i fatti che corroborerebbero questa ipotesi.
Senza fare i complottisti e immaginando che questa storia sia una sorta di sceneggiatura cinematografica, della vicenda personale di Eigendorf s’alternerebbero capitoli di quanto successo a est e a ovest del muro, quasi fosse un inestricabile parallelo di accadimenti che a tutto fanno alludere, perché dire che piove sul bagnato è fare un complimento all’acqua che vien giù.

Ebbene, ricorderete che svariate righe fa ho menzionato un dettaglio a prima vista insignificante, uno slice of life riguardante la vita privata di Lutz quando ancora era di istanza a Berlino Est, ossia la nascita della figlia Sandy, cosa che però non gli aveva impedito di scappare a Ovest. Senza risultare stucchevole mi son chiesto come un padre possa avere in animo di abbandonare la propria creatura: io faccio fatica a intenderlo, è una questione d’istinto. Lo stesso pensiero devono averlo avuto anche gli uomini della Stasi che, in un’istante di ravvedimento umano, avranno sicuramente preso in considerazione il più nobile dei sentimenti, intuendo che brutalizzandolo potevano renderlo un mezzo, un gancio per tirare e ritirare a sé qualcuno che s’era allontanato troppo velocemente da casa-base. E in più, cosa che non guastava, era tutto legale. 

Lasciate stare che sia in tedesco, guardate quando il padre rincontra il figlio che ha appena conosciuto il proprio fratellastro e la propria sorellastra

Esprimendosi con parole molto più povere, può certamente darsi che negli anni del Muro ci siano state un sacco di storie simili perché non era così insolito che certi abbandoni familiari presupponessero un inevitabile e romantico riabbraccio a occidente. Questo la Stasi lo dava per inteso, per cui era attivo un fraudolento sistema di corteggiamento di chi, uomo o donna, era rimasto a oriente; nel caso si trattasse di una “Damen”, tra gli innumerevoli agenti sotto traccia presenti nel regime poliziesco della Germania Est, ve n’era uno “dedicato”, che prendeva il nome di “Romeo”. Significava che un soggetto particolarmente avvenente e intraprendente venisse incaricato di sedurre la donna del transfuga affinché il di lei marito lo imparasse e decidesse di tornare, letteralmente, sui propri passi. A quel punto l’opera dell’agente Romeo si sarebbe potuta dire conclusa. 
A Frau Gabrielle (in) Eigendorf viene riservato questo languido trattamento ma quella che doveva essere una finta parentesi passionale si trasforma in realtà, senza che ciò interferisca nei progetti occidentali di Lutz. Anzi, uno dei vari seduttori si innamora della moglie del calciatore, la quale corrisponde l’amore chiedendo il divorzio dall’ex-marito, i due si sposano, Sandy viene adottata e la vita di Eigendorf continua a procedere lungo un binario parallelo come se nulla fosse. Addirittura, come già resocontato, anche lui convoglia in seconde nozze, per cui l’operazione “Rose” (così, stando ai documenti scoperti negli archivi, era stata nominata) va a carte quarantotto.

L’intelligence della DDR non si dà però per vinta, crede di poter cambiare l’oroscopo di Eigendorf e innesca un piano B. Ora torna buono il pugile Karl-Heinz Felgner perché da sempre vale il motto:”Dai nemici mi guardi Dio che agli amici ci penso io”. Il problema è che Lutz ci pensa poco, non ci fa caso, non ci pensa proprio, si fida dell’amico. Tra l’altro non sa né può immaginare che anche lui sia stato uno degli agenti Romeo che senza successo hanno insidiato Gabrielle.

In un certo senso c'entra e se n'evincerà il perché. 

Più che essere una storia sportiva, i tratti sono quelli di un fatto di cronaca nera, qualcosa che se fosse successo in Italia avrebbe avuto titoli rotondi sui giornali, ne avrebbe sicuramente parlato Lucarelli nelle sue rubriche noir e/o qualcuno l’avrebbe trasformata in un film. In Germania, e rimando qui, il regista Heribert Schwan ha girato il documentario Tod dem Verräter (in italiano:“Morte del traditore”). Tuttavia non sembra avere avuto, per lo meno in patria, quadri e cornici adeguati, né quell’eco che una storia del genere avrebbe -ripeto- potuto avere in Italia dove, solo a titolo di esempio, si trova parecchia letteratura in più. 

Certe cose germaniche io me le spiego sempre ipotizzando che i tedeschi abbiano seri problemi a fare pace con i loro burrascosi passati per cui ripongano tutto in soffitta e si augurino che nessuno s’addentri in un qualche polveroso e oscuro corridoio della memoria, e che al massimo l’inquirente di turno si ritrovi costretto a cercare nuvole in mezzo alla nebbia, e si rassegni presto o tardi a riconoscere che il gap tra domande insistenti e risposte inesistenti è incolmabile.
La verità è come una scopata, metà è peggio di niente.

Ciao e grazie

Facciamo però un passo indietro e torniamo a Karl-Heinz Felgner, perché a questo personaggio in cerca di autore viene affidata la missione di sorvegliare Eigendorf nel modo più subdolo possibile: deve diventargli amico e passare quante più serate possibili in sua compagnia, un po' come il personaggio che all'inizio appare nel trailer di Total Recall. In realtà l’ex-pugile dell’Est oltre a rappresentare gli occhi e le orecchie della Stasi, impersona lo strumento con cui gli spietati servizi della DDR perseguono il proprio obiettivo di rivalsa. E se c’è una verità dietro alla conclusione di questa storia, Felgner ne simboleggia la chiave.


FLASH FORWARD

Corre l’anno 2009 e siamo a Dusseldorf, Karl-Heinz Felgner viene accusato da un negoziante di avergli rubato i soldi in cassa e averlo minacciato con un coltello. Viene condannato a sei anni e sei mesi, e non ci sarebbe nulla di eccezionale in tutto questo, non fosse che in tribunale gli scappa detta una frase che fa più rumore della storia in sé. 
L’ex-pugile rivela in aula che avrebbe dovuto ammazzare Eigendorf, di aver anche accettato un contratto per farlo ma di non essere andato fino in fondo. Il fatto è che Felgner sembra avere un alibi per the night of, ossia la notte in cui il calciatore trova la morte in un incidente stradale in circostanze per nulla chiare.
Se all’inizio degli anni ’80 fosse esistito Twitter e, di conseguenza, gli hashtags, #romeo sarebbe grottescamente stato quello più adatto alla storia di Lutz Eigendorf, o comunque la parola più ricorrente. Infatti, e vado dritto al punto, è proprio con un’Alfa nera che l’ex-calciatore della DDR si schianta contro un albero il 5 Marzo 1983, nei dintorni di Braunschweig nell’alta Sassonia.


Nelle ore precedenti alla sua morte il calciatore s’era fermato a bere un paio di birre in un bar e poi s’era messo al volante. La Polizia chiude il caso per guida in stato di ebbrezza, determinando un inverosimile tasso alcolemico, specie se rapportato a quanto aveva bevuto Eigendorf. Qualcosa non torna e, stando ai documenti recuperati da Schwan, è per lui lecito credere che l’incidente, per quanto possa risultare assurdo, sia stata una messinscena volutamente tragica. Non ci sono prove inequivocabili a suffragio della tesi del giornalista ma restano diversi sospetti. Tra il materiale passato al vaglio, vi sono note che riportano le specifiche di una neurotossina (in particolare di una sostanza chimica in grado di modificare la percezione di alcune cellule nervose e alterare il senso della vista), la possibilità di orchestrare un falso incidente e la parola “abbagliare”.
Combinando gli elementi, sia Schwan che Jochen Döring (altro giornalista che ha condotto indagini sull’accaduto) ritengono probabile che EIgendorf sia stato costretto a bere qualcos’altro oltre la birra, un intruglio alcolico miscelato con la droga, gli sia stato intimato di andarsene in macchina e, in prossimità di una curva stretta, abbia incontrato una macchina con i fari spianati, probabilmente guidata da un agente della Stasi. Con la visione deteriorata dagli additivi stupefacenti, il calciatore ha perso il controllo dell’Alfa, sbandando e riportando, dopo l’impatto, gravissime ferite alla testa che non gli hanno lasciato scampo. 
Come se non bastassero queste congetture ad avvalorare l’idea di una “morte organizzata”, tra il materiale ritrovato dai due giornalisti si fa anche cenno ad una presunta ricompensa di 500 marchi occidentali che -a detta di Schwan- gli agenti coinvolti avrebbero ricevuto. 

Everything's grey, now you're here, now you're away.

È praticamente impossibile dimostrare che le cose siano veramente andate così, che si sia realmente trattato di un omicidio politico e non di un incidente. Quel che rimane è l’intreccio di storie e Storia che delineano la vita e la carriera di Eigendorf, un personaggio larger than football ma soprattutto than life (nel bene e nel male), che non aveva compreso che a quei tempi in Germania non era così facile essere cittadino di ogni cielo, e che certi rimedi potevano essere peggiori dei mali. 
Con sua buona pace, davvero, e per quanto queste vicende siano tragiche e piene di dubbi che forse non troveranno mai risposta, sono certamente degne di un documentario come quello di Schwan, qualcosa che si spinga dentro le cose, se non per giustizia almeno per far luce su questa oscura pagina che avrebbe nascosto, ancora una volta, le nefandezze della Storia dietro lo sport e, in questo caso specifico, dietro la vita e la morte di un calciatore, quello che avremmo potuto ricordare come il “Beckenbauer dell’Est”.

Fonti:
https://it.wikipedia.org/wiki/Lutz_Eigendorf
https://it.wikipedia.org/wiki/Paul_Breitner
https://it.wikipedia.org/wiki/Braunschweiger_Turn-_und_Sportverein_Eintracht_von_1895
http://www.lintellettualedissidente.it/storia/lutz-eigendorf-morte-di-un-traditore/
http://storiedicalcio.altervista.org/blog/lutz_eigendorf.html
http://www.heribert-schwan.de/werke/tod-dem-verraeter-der-lange-arm-der-stasi-und-der-fall-lutz-eigendorf/
http://www.dw.com/de/eigendorf-tod-dem-verr%C3%A4ter/a-16646636
http://quandoilbiscionemordeva.forumalfaromeo.it/forum/viewtopic.php?t=99&start=80


Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...