Stadio
The
Dell,
città di Southampton, Inghilterra del Sud, 19 Maggio 2001.
È l'ultima partita di quello che è stato definito il più brasiliano dei giocatori inglesi ed è l'ultima volta del The Dell.
È l'ultima partita di quello che è stato definito il più brasiliano dei giocatori inglesi ed è l'ultima volta del The Dell.
Va
in scena Southampton - Arsenal, Santi
contro Cannonieri.
Matthew Le Tissier concluderà la propria carriera al termine del campionato e il Dell verrà sostituito da un nuovo e maestoso impianto: il St. Mary Stadium, 33.000 posti contro i soli 15.000 scarsi della vecchia dimora dei Saints.
Finisce un'epoca. Anzi, ne finiscono due.
Abbandona un calciatore dal talento cristallino, interprete di un calcio che scompare, un calcio per il quale non c'è più posto nella nuova Premier League che avanza. Tattica, velocità e corsa; in una parola: conformità. Non c'è più spazio per la tecnica sciolta, per la libertà di espressione e per la fantasia. Spariscono i calciatori-liberi pensatori. È destino che l'uniformità ingabbi la poesia.
Matthew Le Tissier concluderà la propria carriera al termine del campionato e il Dell verrà sostituito da un nuovo e maestoso impianto: il St. Mary Stadium, 33.000 posti contro i soli 15.000 scarsi della vecchia dimora dei Saints.
Finisce un'epoca. Anzi, ne finiscono due.
Abbandona un calciatore dal talento cristallino, interprete di un calcio che scompare, un calcio per il quale non c'è più posto nella nuova Premier League che avanza. Tattica, velocità e corsa; in una parola: conformità. Non c'è più spazio per la tecnica sciolta, per la libertà di espressione e per la fantasia. Spariscono i calciatori-liberi pensatori. È destino che l'uniformità ingabbi la poesia.
L'Arsenal
è il nuovo, è l'espressione di un calcio innovativo, moderno (per
quel che può significare), brillante ed europeo (sempre per quello
che può significare) e chiarendo fin da subito che forse non c'è
più spazio per le favole, al 28' Ashley Cole, terzino dei Gunners
e promettente mercenario, firma l'uno a zero per i londinesi.
Nonostante al 46' Kachloul pareggi i conti per i Saints, è il punk omosessuale svedese, quello che sembra uscito da Camden Town a certificare che Babbo Natale è morto e sepolto da un bel po', che Cristo non è morto dal freddo, ecc, e a segnare il gol del due a uno per l'Arsenal al 54'.
Tuttavia è l'ultima partita al The Dell, a Milton Road i tifosi non verranno più se non per sbaglio o nostalgia, e i giocatori lo sanno, non possono deludere i propri tifosi. Se vincere è difficile, pareggiare in casa, in un clima così, non lo è.
Nonostante al 46' Kachloul pareggi i conti per i Saints, è il punk omosessuale svedese, quello che sembra uscito da Camden Town a certificare che Babbo Natale è morto e sepolto da un bel po', che Cristo non è morto dal freddo, ecc, e a segnare il gol del due a uno per l'Arsenal al 54'.
Tuttavia è l'ultima partita al The Dell, a Milton Road i tifosi non verranno più se non per sbaglio o nostalgia, e i giocatori lo sanno, non possono deludere i propri tifosi. Se vincere è difficile, pareggiare in casa, in un clima così, non lo è.
61',
sette minuti dopo il vantaggio ospite è di nuovo il centrocampista
marocchino del Southampton a rimettere in pari la conta dei gol: 2 a
2, e fondamentalmente potrebbe anche andare bene così. Non è un
happy ending, ma è pur sempre qualcosa in più di una
bittersweet symphony, se si considera che la sorte, o dovremmo
dire, il cervellone elettronico della F.A. ha messo contro ai Saints,
in una partita così delicata per i deboli di cuore e i ricchi di
sentimenti, una corazzata come l'Arsenal.
C'è che spesso vincono i buoni, e diciamocelo, ci siamo anche un po' rotti il cazzo che succeda.
O forse, diversamente, è una finzione che si vede solo al cinema, per cui diventa difficile credere che possa succedere anche nella realtà e preferiamo non illuderci troppo perché sappiamo che la disillusione è la condizione meno peggiore cui possiamo aspirare, dal vero.
89', un minuto dalla fine della partita e un minuto dall'interruzione di sogni, favole e amarcord vari da raccontare ai nipotini di quando si andava al The Dell per vedere i Saints di Le Tissier.
Le God, il numero 7 del Southampton, con una volée che solo un fuoriclasse avrebbe anche solo potuto lontanamente pensare in una partita così, ormai pareggiata per pareggiata, da festeggiare magari non con tarallucci and vino ma con fish & chips forse sì, regala il 3 a 2 ai suoi.
Matt era partito dalla panchina, giocava l'Arsenal e non si poteva chiedere ad un fantasista la corsa, la disciplina tattica, insomma, tutte quelle cazzate di protocollo da rispettare nei confronti della moderna interpretazione del calcio esibita dal club capitolino. E poi s'era anche un po' irrobustito negli ultimi tempi.
Già, si poteva ricorrere ai suoi servigi solo in casi eccezionali. Magari gli si potevano concedere alcuni minuti di gloria al termine della partita, del resto lui era stato la bandiera del Southampton, come non farlo? Nel caso la partita fosse andata male poteva entrare, e nella migliore delle ipotesi il suo ingresso avrebbe portato al pareggio. Oppure si poteva provare a mandarlo in campo sul 2 a 2, a pochi minuti dalla fine, nel caso fosse mai capitato. Del resto un 2-2 casalingo è pur sempre un over notevole, difficilissimo da prevedere.
Matt Le Tissier, classe '68, originario delle isole di Guernsey, per la particolarità governativa delle stesse (un Bailato autonomo facente capo alla corona inglese), poté scegliere per quale delle quattro nazionali britanniche giocare.
C'è che spesso vincono i buoni, e diciamocelo, ci siamo anche un po' rotti il cazzo che succeda.
O forse, diversamente, è una finzione che si vede solo al cinema, per cui diventa difficile credere che possa succedere anche nella realtà e preferiamo non illuderci troppo perché sappiamo che la disillusione è la condizione meno peggiore cui possiamo aspirare, dal vero.
89', un minuto dalla fine della partita e un minuto dall'interruzione di sogni, favole e amarcord vari da raccontare ai nipotini di quando si andava al The Dell per vedere i Saints di Le Tissier.
Le God, il numero 7 del Southampton, con una volée che solo un fuoriclasse avrebbe anche solo potuto lontanamente pensare in una partita così, ormai pareggiata per pareggiata, da festeggiare magari non con tarallucci and vino ma con fish & chips forse sì, regala il 3 a 2 ai suoi.
Matt era partito dalla panchina, giocava l'Arsenal e non si poteva chiedere ad un fantasista la corsa, la disciplina tattica, insomma, tutte quelle cazzate di protocollo da rispettare nei confronti della moderna interpretazione del calcio esibita dal club capitolino. E poi s'era anche un po' irrobustito negli ultimi tempi.
Già, si poteva ricorrere ai suoi servigi solo in casi eccezionali. Magari gli si potevano concedere alcuni minuti di gloria al termine della partita, del resto lui era stato la bandiera del Southampton, come non farlo? Nel caso la partita fosse andata male poteva entrare, e nella migliore delle ipotesi il suo ingresso avrebbe portato al pareggio. Oppure si poteva provare a mandarlo in campo sul 2 a 2, a pochi minuti dalla fine, nel caso fosse mai capitato. Del resto un 2-2 casalingo è pur sempre un over notevole, difficilissimo da prevedere.
Matt Le Tissier, classe '68, originario delle isole di Guernsey, per la particolarità governativa delle stesse (un Bailato autonomo facente capo alla corona inglese), poté scegliere per quale delle quattro nazionali britanniche giocare.
Scelse
i Leoni, scelse l'Inghilterra. Chi lo può dire cosa sarebbe
successo se ne avesse scelta un'altra? Sta di fatto che la sua
decisione non fu azzeccata. Quando l'Inghilterra venne battuta uno a
zero dall'Italia a Wembley, Matt fu considerato il capro espiatorio
della sconfitta, e mandato fuori dal giro della Nazionale. Le God
non fece altro che rinnovare la propria fedeltà ai Saints,
a quelli che erano sempre stati i suoi unici colori, sempre bianco e
sempre rosso, ma rappresentativi di una città e non di una nazione.
Strana storia, la sua.
Poter scegliere a quale nazione appartenere e sbagliarla.
Capitare casualmente in una città e venirne adottato, fin anche a rappresentarla e diventarne l'idolo incontrastato di generazioni e generazioni e così sia.
Sedici anni nella file del Southampton, più di 200 reti tra campionati e coppe. 54 rigori segnati su 55 tirati: un record, anzi, il record assoluto.
Un gol, decisivo solo per concludere una favola che altrimenti nessuno avrebbe mai raccontato perché ogni opera di fantasia deve comunque essere verosimile, più importante degli altri.
Forse non è il suo gol più bello e neppure il più cruciale, nonostante si tratti pur sempre di un tiro in controbalzo, di sinistro, pur sempre nel sette, allo scadere del tempo. Di sicuro è il più favoloso, per ogni ragione il migliore.
Strana storia, la sua.
Poter scegliere a quale nazione appartenere e sbagliarla.
Capitare casualmente in una città e venirne adottato, fin anche a rappresentarla e diventarne l'idolo incontrastato di generazioni e generazioni e così sia.
Sedici anni nella file del Southampton, più di 200 reti tra campionati e coppe. 54 rigori segnati su 55 tirati: un record, anzi, il record assoluto.
Un gol, decisivo solo per concludere una favola che altrimenti nessuno avrebbe mai raccontato perché ogni opera di fantasia deve comunque essere verosimile, più importante degli altri.
Forse non è il suo gol più bello e neppure il più cruciale, nonostante si tratti pur sempre di un tiro in controbalzo, di sinistro, pur sempre nel sette, allo scadere del tempo. Di sicuro è il più favoloso, per ogni ragione il migliore.
Potrei
far su baracca e burattini e salutarvi, raccomandandovi di
risintonizzarvi presto su questi teleschermi, ma non lo farò, e vi
tedierò con uno di quei dibattiti surreali e inutili che non fanno
più nemmeno al Circolo Arci di Sozzigalli.
Io
e il mio vicino di casa, che in questa sede chiameremo Ridge
Forrester per la folta capigliatura che lo ha accompagnato nei suoi
migliori anni di Becca (strano che il Noto Scrittore Emiliano Emanuel
Gavioli non abbia menzionato l'importanza di avere una fluente chioma
tra le dieci
regole essenziali per conquistare l'altra metà del cielo quando
non piove), parliamo di calcio da quando respiriamo. E discuto spesso
con Ridge circa il primato di un campionato su un altro.
Molto
spesso il dibattito finisce che qualcuno dei due si spazientisce
(nove volte su dieci si tratta del sottoscritto) e il Becca conclude
con un secco:”Non
posso parlare con chi vede il pallone triangolare!”,
modo sarcastico per dire che non capisco un cazzo.
Quello
che mi fa veramente incarognire è che anche solo dieci anni fa
nessuno nemmeno li cagava i campionati che ora sono di spicco,
nessuno li conosceva. Quando io seguivo, per esempio, la Premier
League (e ne sono testimonianza libri in lingua madre, libercoli
comprati su e-bay a prezzi esorbitanti, pagine di giornali o riviste
strappate qua e là) il mio vicino Ridge Forrester manco sapeva la
differenza tra l'Arsenal, l'Athletic di Bilbao e l'Audax di
Casinalbo, anzi, il fatto che iniziassero tutte con la A lo traeva in
inganno e lo confondeva.
A
pensarci bene, la mia generazione ha iniziato a rivolgere lo sguardo
oltremanica in seguito ad alcune pubblicità della Nike o
dell'Adidas, che mai come in quel tempo si dimostrarono lungimiranti,
facendo leva sul sempre valido detto “l'erba del vicino è
sempre più verde” e puntando su un diffuso sentimento di
anglofilia.
Certo
tutti ci ricordiamo dell'AU REVOIR di Eric Cantona (tra
l'altro suggerito di recente pure sul gruppo Facebook degli 11IS),
sbaglio?
Ora
vi chiedo: ma Cantona era poi questo grandissimo calciatore?
Sicuramente
si trattava di un campione capace di giocate straordinarie; questo è
pacifico. Ma era paragonabile ai 7 che sarebbero passati anni più
tardi dall'Old Trafford, che ne so, sparo: Cristiano Ronaldo? Io dico
di no.
Però
questi personaggi avevano un fortissimo fascino, (ci) sembravano
alieni che però parlavano la nostra stessa lingua, ovvero quella del
calcio, e che eravamo pertanto in grado di capire e recepire subito,
senza sapere niente del campionato in cui, dello stadio nel quale, e
della squadra per cui giocavano.
Fascino:
niente di più, niente di meno.
Col
tempo però questo concetto è stato ripetutamente travisato, e si
sa, il tradimento è sterile (altrimenti non sarebbe tale) per cui
ciò di cui si sente parlare adesso, quando ci si riferisce alla
Premier League (o alla Liga) non è certo il “fascino” di cui
sopra, ma qualcos'altro, qualcosa che sa di barocco, di enfatico, di
esagerato.
Exempli
Gratia.
Se
il Chelsea perde contro la penultima in classifica si parla di
fascino della Premier League mentre se lo fa il Milan significa che i
rossoneri fanno schifo, la Serie A è una merda, gli stadi sono da
rifare, le tifoserie sono oscene, ecc.
No,
vi tolgo dal dubbio, non è così, semmai è il contrario.
Poi
se volete parliamo di un livellamento verso il basso della Serie A, e
quindi della conseguente facilità nell'incappare in risultati
rocamboleschi, ma il CLAMOROSO AL CIBALI è tutta roba nostra,
l'abbiamo inventato noi, è un trade mark italiano vecchio come il
cucco. Altro che fascino del foresto, di quel che viene da via:
bisogna saper discernere.
Il
Chelsea perde contro la penultima in classifica perché Villas Boas,
a parte il nome da Cocktail frignanese, non sembra avere niente di
buono, e pare che per ora abbia avuto più fortuna che meriti.
Poi
una cosa va detta, sottoscritta e confermata.
La
Premier League è senz'altro il Campionato più imbottito di stelle e
di, come va di moda dire adesso, Top Players (il fuoriclasse che, per
inciso, è una parola strepitosa, non esiste più; un po' come non
esiste più “la sorpresa” sostituita nelle notti di Champions
dall'Underdog), ed è l'unica serie che fa sold out in ogni stadio in
cui si gioca, qualsiasi giorno della settimana. Chapeau.
In
“Tanto rumore per nulla” William Shakespeare ha
scritto:”Solo questo posso riconoscerle di buono: che se fosse
diversa da com'è non sarebbe bella, e che, essendo com'è, non mi
piace.”
Credo
proprio si riferisse della Premier League di adesso.
Quando
ero al Liceo (circa quarantanove anni fa) un mio amico calciofilo
sfoggiava con orgoglio una maglia del Liverpool quando io, a parte i
Beatles, non riconducevo al nome della città nient'altro. Ora invece
tutti sanno cos'è la Kop, chi sono gli Scousers, cos'è
Anfield.
Peccato
però che quando tutti sanno tutto di tutto è come dire che nessuno
sa niente di niente.
Ma
è bello così, è bello che il mio amico Ridge Forrester me la meni
sugli stadi sempre pieni, è bello che mio padre e il suo vicino di
casa si trovino la sera a guardare un'insulsa partita del Sunderland
che gioca la Carling Cup che nessuno ha ancora capito cosa sia, è
bellissimo che tutti possano dire di essere stati ad Upton Park (che
ormai compare in tutte le guide turistiche di Londra prima di
Trafalgar Square), è fantastico che esistano millemila siti italiani
dedicati al calcio inglese che fanno deliberatamente il tifo per le
squadre di Sua Maestà e se ne sbattono bellamente il cazzo delle
nostre (che, non dico di tifare Inter o Napoli, ma una tra Milan,
Juve, Samp, Udinese, Roma, Lazio, cazzo: sceglietela!)
Così
com'è, tornando a Shakespeare, a me non piace, ma manc'o po'
cazz'e.
Chiarisco,
non sono qui a scrivere che rimpiango i banchi di
fòrmica delle elementari, e lo so benissimo che tutto cambia e che
niente -eccezion fatta per il chewing-gum di Cafu- è per sempre;
dico solo che se ora Luis Suarez ed Evra non si danno la mano scoppia
un polverone che finisce diretto sulle prime pagine dei giornali
sportivi e sull'home di ogni sito di calcio che si rispetti, ed è
nota a tutti, anche il gatto di Baranzone si fa una propria opinione
in merito.
In
compenso la storia di Matthew Le Tissier non la conosce nessuno.
Se
c'è o c'è stato qualcuno in Premier League cui andrebbe fatto
credito non solo di birre, ma anche culturale, è proprio questo
omarino e sono quelli della sua stessa beata razza.
Non
sono i Van Persie, i Dzeko, i Lampard, i Bale: questa è tutta gente
con lode, laurea e fiocco: e proprio per questo motivo mi rimangono
belli ma senz'anima, un po' come le modelle magre stenche che sfilano
in passerella.
In
un bellissimo libro che ho finito di leggere lo scorso autunno e che
mi guardo bene dal citare perché lo sto deliberatamente derubando di
parole, frasi e locuzioni varie, l'autore scrive:”Indomabili
come solo certi amori sbagliati sanno essere”.
Ecco,
e quando Noel Gallagher ha definito Balotelli il più grande
essere umano vivente nonché l'unica rock star esistente (e tra
l'altro, tanto per cambiare, un esule lumbard: roba nostra) ho
avuto una sorta di folgorazione anche se non stavo andando a Damasco.
È
vero. Purtroppo però è vero ma è uguale a zero. Aveva forse
scelta? No, perché non c'è più nessuno in Premier League che si
scosta dal branco, nessuno che sniffa la linea di fondo campo, nessun
sbronzone che finisce in rehab, non ci sono più i portieri
ciechi che danno palla agli altri, non ci sono più i Gazza ma,
soprattutto, non c'è più nessun Matthew Le Tissier, un giocatore
che, se fosse finito a Manchester sponda rossa sarebbe diventato un
dioscuro del calcio, ma non aveva nessuna voglia di essere uno dei
tanti devils quando era Le God a Southampton.
In
Inghilterra non c'è quasi più nessuno di cui valga la pena parlare,
nessuna storia da raccontare, non ci sono più fedi da vivere con
passione, cuori da gettare oltre l'ostacolo del tifo senza alcuna
possibilità di andarseli a ripigliare. Non ci sono più amori
indomabili.
E
se viene a calare tutto questo, è come se venisse a mancare una sola
cosa: il fascino, lo stesso di cui ho tanto sbabbelato qualche riga
sopra.
Pochi
anni fa io e alcuni cari amici siamo entrati in un pub di Liverpool
con la sciarpa del Milan al collo. Dopo aver offerto un giro a tutti
i presenti giusto per mettere in un angolo una o due cose per cui ci
si sarebbe potuti accapigliare, uno di loro mi chiede:”Siete del
Milan, avete San Siro, cosa venite a cercare qui?”
È
che una volta, prima che svendeste fascino e tradizione ad americani,
sceicchi e compagnie aeree, avevate delle favole meravigliose da
raccontare, my friend.
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