THE MIRACLE IS BEGINNING TO HAPPEN - L'AMARA STORIA DI ARCHIE GEMMILL

Chi già conosce l'argomento di cui vado a parlare, o lo ha presente per vissuto, o lo ha presente perché citato in un film culto degli anni '90, che però ricorderò solamente alla fine di questo saggio breve. Infatti io, che come sapete sono una persona strana, non ho conosciuto questo personaggio nei suddetti modi ma per vie traverse.
Ora, per vostra gioia, vado a raccontarvi come.

PREMESSA MUSICALE

Sud Est di Londra: fine del secolo e del millennio. È il compleanno di Joel e nel bel mezzo della sua festa suona il campanello. Alla porta si presenta un uomo sui 35 anni, giacca di pelle nera, foulard zingaresco, jeans scuri e gazzelle dell'Adidas. Faccia smunta, sguardo amichevole ma furbo. Considerando che l'età media della festa s'aggira intorno ai 5/6 anni, l'ospite è decisamente inaspettato. L'uomo fa per presentarsi, ma la madre di Joel lo interrompe, anticipando la di lui richiesta con un:"So chi è, le chiamo mio marito".

Qualche ora più tardi, in un pub di Barnes, i due improvvisati compagni di bevuta parlottano fitto fitto, e di tanto alzano le pinte a mezz'altezza brindando agli Who e ai Three Lions. Avete presente quando parlano tra loro Zia Frida e donna Mirella: ecco, tutto il contrario.
Il primo dei due (tanto per capirci, ci stiamo riferendo all'ospite inaspettato) è un affabulatore di categoria, il classico personaggio con cui chiunque vorrebbe farsi una birra al pub, ben sapendo (o forse nascondendo a sé stesso) che, a stretto giro, da una sola birra si passerà presto a dieci cinquanta cento birre, una rissa, qualche scaramuccia con le forze dell'ordine locali, e le immancabili conseguenze di una ghega ciclopica, come cascare in un burrone, andare a casa senza scarpe, perdere per l'ennesima volta il telefono, pisciarsi addosso vicendevolmente, insomma le solite cose. Il secondo (sempre per capirci, il padrone di casa) è un tipo tranquillo, che più che parlare, asserisce, risponde affermativamente, quasi incantato dalle fole dell'amico. Ha l'aria del ragazzo della porta accanto, quello che ogni pater familias vorrebbe che la figlia maritasse.
Una coppia insolita di personaggi agli antipodi e, proprio per questo, performante, perché il detto "gli opposti s'attraggono" vale sempre.
L'argomento di discussione riguarda una proposta "lavorativa".
L'affabulatore sta chiedendo al tipo tranquillo di suonare per la propria band.
Colin, perché è così che si chiama, è un chitarrista di band di merda che non hanno mai sfondato, un eccellente chitarrista.
A interessarsi a lui è uno dei terribili fratelli Gallagher, the oldest one, che lo vorrebbe nel gruppo perché, per dirla così, si sono creati nuovi posti di lavoro nella band dopo qualche atto di mobbing e svariati processi di epurazione di precedenti membri, colpevoli di non remare dalla stessa parte dei sopraccitati fratelli (ammesso e non concesso che questi abbiano mai remato nella medesima direzione) o, più generalmente, colpevoli di fare schifo al cazzo, tutti quanti.
Per Colin Archer è l'occasione della vita. Poco importa che gli Oasis stiano attraversando un periodo di appannamento, che sarebbe meglio definire di burrasca bella e buona; sono pur sempre una delle band più beloved di tutto il Regno del Re più fasullo di Inghilterra.
Per cui accetta, ma ad una sola condizione, ossia che Liam, il fratello più giovane dei Gallagher, sia d'accordo.
La risposta di Noel è degna dell'uomo che volle farsi Re e ci riuscì:"'It's my fucking band. I'll have who I want" che in italiano suona un po' come:"Il pallone è mio e decido io".

Il Signor Archer imbraccia allora una Gibson Firebird (o un Epiphone Riviera a seconda del contesto), dà un'impronta leggermente diversa al suono del gruppo, un po' più ruvido e allo stesso tempo un po' meno malinconico, e riesce, caso più unico che raro nella storia dei musicisti inglesi che hanno avuto contatti con i due mancuniani, ad entrare nelle grazie di entrambi i fratelli, senza che questi lo mandino affanculo o gli cantino il rosario.


Ma di tutto questo, fondamentalmente, non frega un cazzo a nessuno. Quel che conta è che nessuno conosce né conoscerà mai Colin Archer con nome di battesimo e il cognome del suo vecchio, ma solo col soprannome "Gem", che non si pronuncia come Jem delle Jem & The Holograms, ma "gHem", abbreviazione di Gemmill, nella fattispecie "Archie Gemmill", che per professione -o forse per meraviglioso rammarico- ha segnato uno dei gol più entusiasmanti nella storia del pallone a chiazze bianche e nere. Perché abbia questo soprannome nessuno lo sa.




ARCHIBALD GEMMILL


Archibald Gemmill nasce in Scozia nel 1947.
Calcisticamente cresce nel St. Mirren, squadra della sua città. Ceduto alla compagine inglese del Preston per 16.000,00 sterline, si mette ben presto in evidenza fino a quando, in un tranquillo giorno della birichina estate inglese, qualcuno suona alla sua porta. È sua moglie ad aprire e chi le si para davanti fa per presentarsi, ma la donna lo lo blocca all'istante:"So chi è, le chiamo mio marito."
L'uomo sullo stipite è un uomo sui 35 anni, in giacca e cravatta, e dal volto sorridente. È un allenatore emergente che definire ora come un "Mourinho ante litteram" non è sbagliato, anzi. Il suo nome è Brian Clough. e ha messo gli occhi su Archibald Gemmill fino ad averne perso la testa, e guidato da Derby a Preston esclusivamente per convincerlo a non ascoltare le sirene dell'Everton Campione d'Inghilterra che farebbe carte false per averlo, e giocare per lui e per i Rams.


Su Mister Clough bisognerebbe aprire cinque o sei parentesi graffe su, ma non è né il tempo né il luogo, accontentatevi di sapere che nella piazza di Nottingham ci sono due statue: una è quella di Robin Hood, l'altra è la sua, e che Bill Shankly (un tizio che ha vinto di tutto e pertanto dotato di illimitato potere di offesa) ebbe a dire di lui: "Brian Clough è peggio della pioggia a Manchester. Almeno il Padreterno ogni tanto fa smettere di piovere a Manchester."
D'accordo, vi lascio anche con qualche citazione, giusto per dimostrarvi che gente come Josè da Setubàl ha avuto ottimi maestri.

- Uno: Non direi di essere il miglior allenatore al mondo, ma sono sicuramente nella top one.

- Due: Roma non fu costruita in un giorno, ma io non ero lì.

- Tre: Fate schifo al cazzo, tutti quanti. Tanto varrebbe che vi rivestiste e ve ne tornaste a casa, fuori dai coglioni. Un branco di incapaci del cazzo, dal primo all'ultimo. È la prima partita della stagione e voi giocate così; la prima cazzo di partita. Perdete oggi e perderete tutti i cazzo di giorni, e lo farete davanti a spalti deserti. Ci sono 35.000 persone qui a vedervi, hanno pagato per vedervi, pagato bei soldi, soldi che si sono sudati, cazzo; credete che torneranno la settimana prossima? Col cazzo che torneranno. Adesso uscite là fuori e mostrate a quelle 35.000 persone e a quella squadra di vecchietti e cosiddette superstar di che cazzo di pasta siete fatti, come vi guadagnate i vostri profumati stipendi, e se a quel cazzo di fischio finale starete ancora perdendo non disturbatevi a tornare al lavoro lunedì mattina perché non avrete un cazzo di lavoro a cui tornare. ci sarà la vita reale, per tutti quanti voi 


Dicevamo. Questo adorabile figlio di puttana però non ha la stessa fortuna che avrà Noel quando suonerà alla porta del Gem del futuro. Archibald infatti non ne vuole sapere di suonare nella band del signor Clough. 
Brian le prova tutte ma quel che ottiene sono solo nein nein nein. Minaccia allora di passare la notte in macchina al freddo, e di farlo finché Archie non accetterà. Al giocatore non glie ne fotte manco p'o cazz, ed è allora sua moglie ad impietosirsi e ad offrire a Clough di dormire in casa. Non ci è dato di sapere come, ma l'indomani mattina, forse esclusivamente per levarselo di torno, Gemmill dice un sì che costa a Clough 60.000,00 sterline.
A quel punto le due carriere sono strette a doppio filo, ed il patto è stretto.

Entrambi ripartono alla volta della Contea di Derby e in sette anni Gemmill diventa capitano di una squadra che vince due titoli e arriva fino alla semifinale di Coppa dei Campioni persa contro una Juventus accusata di aver rubato la partita (per la serie "nòva").
Aneddoto curioso: ai tempi di Carlo Còdga non esistevano chissà quali mezzi di informazione, per cui studiare una squadra europea avversaria significava richiedere alla TV del rispettivo Stato d'appartenenza un filmato di qualche partita del club in questione, previa autorizzazione di concessione dello stesso.
Ma a Torino, da true motherfuckers sabaudi quali son sempre stati, non solo non domandarono nulla alla BBC passando da signori del Fair Play votati al volere del Fato (per poi inviare uno 007 a Londra in occasione di un match del derby nella Capitale, che passò talmente inosservato che oggi siamo qui a scriverne), ma s'adoperarono perché il filmato di una partita della Juve -richiesto alla RAI dalla società di Clough- non arrivasse mai in Inghilterra. Boniperti mandò a dire che:"Ci dispiace molto, ma c'è un problema in dogana e purtroppo il filmato non v'arriverà. Tanti saluti"
L'inconfondibile stile Juve: Pilato con Gesù l'aveva fatta meno sporca.

Vero o falso storico che la vedova scaltra (come la chiama L'Avvocato) abbia derubato pure i malcapitati Rams, rimane l'impresa di un club della merdosissima periferia inglese che sfiorò la finale della competizione più importante del Vecchio Continente, e restano anche le straordinarie dichiarazioni di Brian nei confronti dei giornalisti italiani:"No cheating bastards will I talk to; I will not talk to any cheating bastards!" che credo possiate capire anche senza traduzione.
Tuttavia la cosa più importante fu che la conquista della semifinale di coppa permise a Magister Clough di approdare nel Leeds United Super Campione di Inghilterra e orfano del grande ma discusso allenatore Don Revie. 
L'esperienza di Clough alla guida di Billy Bremner e compagni dura solo 44 giorni. Lo spogliatoio di Ellan Road è un autentico ginepraio di teste di cazzo totalmente ostili a Clough il quale viene silurato e relegato disgraziatamente in seconda categoria, al comando di una squadra di subumani e dilettanti in selvaggia parata.


OGNI CITTA' QUALCHE GUAIO HA

Bravo però è bravo, capace è capace, e in una squadra del cazzo come il Brighton & Howe rimane poco. Infatti, in the meanwhile, dalle parti di Nottingham si evidenziano alcuni problemi di sorta, di cui ben può illustrarci Cantagallo, un menestrello del tempo, in una delle sue canzoni più famose.


Per cui nel Gennaio del 1975, il Forest, appena uscito sconfitto dalla stracittadina con il Notts County per due reti a zero, gli dà una chance. Si rivelerà una delle migliori pensate dai tempi della ruota.
Per prima cosa raggiunge la promozione, da terzo della classe, ma poco importa. In secondo luogo fa qualche telefonata a Derby e convince alcuni suoi amici a raggiungerlo a Nottingham per fare un po' di balotta. Si tratta dei suoi fedelissimi, gli stessi carichi da undici con cui aveva vinto il titolo qualche anno addietro: McGovern, O'Hare e, naturalmente, Gemmill.

Se c'è un articolo del blog che abbraccia il maggior numero possibili di riferimenti della tag-cloud a fianco, è questo.
Perché se il Derby County di Clough e Gemmill rispecchia benissimo la tag-line "squadre improbabili che rischiano di vincere trofei", il Forest dei nostri due eroi ben si inserisce in "miracoli vari" e "scudetti incredibili".
Facile quindi dedurre la storia dei Rosso-Garibaldini, che vincono il campionato al primo tentativo e -tanto per gradire- in qualità di neopromossa, cosa che nella casistica delle imprese possibili si colloca tra "pace in medioriente" e "colleghi di lavoro simpatici".
Ma il Nottingham non si ferma qui, e a Clough riesce quello in cui non era riuscito ai tempi del Derby, e che non gli era stato dato il tempo di fare a Leeds: vincere una Coppa dei Campioni at the first strike e rivincerne un'altra l'anno successivo. 


Solito refrain: se vincere è difficile, ripetersi lo è di più, se poi il trofeo in questione è la Coppa dalle grandi orecchie, beh, bravo Elio bravo Fasi bravi tutti, ma soprattutto bravo Clough e bravo Nottingham!
Epperò: c'è un però. Nella prima delle due finali vinte, quella a Monaco contro il Malmoe, con rete di un personaggio di cui spero questo blog prima o poi parli (molto caro al mio brother in arms), Gem non gioca titolare.
Inevitabilmente questo porta ad una profonda spaccatura tra Clough e Gemmill e le strade dei due si separano.
Ma questa non è la più grande delusione di Arcibaldo nostro.
Il suo più grande rammarico è, paradossalmente e allo stesso tempo, il suo autentico capolavoro. Un goal straordinariamente bello e straordinariamente inutile.
Ma andiamo con ordine, torniamo indietro di un paio di estati e trasferiamoci nell'illuminata e democratica Argentina di fine anni '70.


DON'T CRY FOR ME, ARGENTINA


È il mondiale del 1978 e, caso più unico che raro, le due isole britanniche hanno una sola rappresentate alle fasi finali del torneo: la Scozia, la Tartan Army di Capitan Archie Gemmill, la quale, nel corso delle qualificazioni, s'era tolta la soddisfazione di aver bellamente escluso dai Campionati Mondiali niente popo' di meno che gli storici rivali gallesi.
Ovviamente questa situazione carica a bestia stampa, opinione pubblica ed entourage tutto, tant'è che il CT MacLeod, credendosi William Wallace, se ne esce con una dichiarazione quantomeno azzardata:"La Scozia vincerà la Coppa del Mondo!".
Come se questo entusiasmo non fosse già di per sé sufficiente quanto inutile, anche Rod Stewart pensa bene di dare il proprio contributo alla causa con una canzone cui la cosa che somiglia di più è la colonna sonora de L'allenatore nel pallone.
Ascoltare per credere.


A onor del vero la compagine che parte da Edinburgo non è una brutta squadra: tutt'altro! Tanto per citare qualche illustre sconosciuto della selezione scozzere: Greame Souness, Kenny Dalglish e, non ultimo Joe Jordan detto lo Squalo (sì, proprio quello con cui non troppo tempo fa ebbe un simpatico scambio di punti di vista il buon Rino Gattuso).


Pronti via, nel corso della partita d'apertura del girone contro il Perù del sornione Teofilo Cubillas e del Loco Quiroga, il proclama di MacLeod viene decisamente ridimensionato in un:"Spazzate la palla il più lontano e il più forte possibile", non appena l'allenatore della Tartan Army s'accorge che i peruviani -solo apparentemente una squadra di monumenti ai caduti- hanno più birra nella gambe dei suoi ragazzi in maglia blu.
Il Perù prende a pallate i sedicenti futuri Campioni del Mondo, rifilando loro un 3 a 1 che non ammette repliche o discussioni di merito/sfiga/congiunzioni astrali favorevoli o meno.


Da parte di MacLeod, la cosa giusta da fare sarebbe stata urlare ai suoi:"Fate schifo al cazzo, tutti quanti!" ma non è Mister Clough, bensì solo un povero sfigato che si improvvisa mago di campagna.
Iniziata la spedizione in Argentina nel peggiore dei modi, l'occasione di riscatto si presenta illico et immediate contro la squadra materasso dell'Iran, match nel quale però la Tartan Army non va oltre un miserrimo 1 a 1, grazie all'autogol del terrorista di turno sorteggiato a caso da un campo militare di Teheran e reinventato difensore.

Scatta quindi il momento "O vai, o stai!" (sì, lo so, ai più burloni fra voi verrà in mente come questo sia il motto che precede uno Jagerbomb alla goccia), ma nel nostro caso specifico riguarda invece l'inesorabile atto cruciale, quello che decreta il passaggio del turno.
A la Escocia tocca l'impresa, deve giocarsi il tutto per tutto contro l'Olanda dei vari Crujff, Neeskens, Rensenbrink e Krool (tutta gente che oggi come oggi farebbe la differenza nel Milan anche a 60 anni suonati), e vincere con almeno tre reti di scarto. La partita non comincia bene per la Tartan Army che al 34' va sotto, con un calcio di rigore trasformato in gol da Rob Rensenbrink. Poco più tardi però è Dalglish a trovare la rete del pari.
1 a 1, palla al centro, e la Scozia, come da più classica delle tradizioni britanniche, ci crede nonostante manchi solo un tempo e, come daccapo, servano ancora tre gol per passare e sperare di vincere la Coppa del Mondo. Nella ripresa the boys in blue entrano col piglio giusto e in men che non si dica passano in vantaggio su penalty, procurato da un indiavolato Souness e trasformato da Gemmill.

Al 68' Dalglish viene accerchiato e steso da tre macellai di Amsterdam, e il pallone finisce ad Archibald Gemmill che, per i poteri conferitegli dal Dio del calcio, si esibisce in quanto segue.



3 a 1, e l'impresa tanto sospirata appare più vicina: do the math (e non the meth) e converrete che manca solo un gol e il passaggio al turno successivo sarà assicurato. C'è tempo, l'adrenalina è quella giusta, e agli scozzesi adesso sembra riuscire tutto, se poi Gemmill ha cagato una viola come il gol enciclopedico di cui sopra, nulla vieta altre prodezze improbabili o miracoli vari ed eventuali.
I tifosi scozzesi e la popolazione tutta sono al 90% fatti d'ansia; dolente tremante ardente il loro cuore domanda il gol che manca, ma questo non arriva, o meglio, arriva, ma nella porta sbagliata. E arriva solamente cinque minuti dopo lo straordinario gol di Gem, per cui la doccia è molto più che gelata.
Il boia è Johnny Rep, che parte da casa sua, si prende un caffè in mezzo al centrocampo scozzese insieme a Ruud Krol, quindi decide di sganciare un missile terra-aria che gentilmente rimette nel cassetto scozzese il sogno proibito della Tartan Army e manda tutti a casa.


Da questo video si vede meglio anche il gol di Gemmill, infatti da una diversa angolatura si nota anche un tunnel pazzesco, ed entusiasmante è pure il commento del telecronista (the miracle is beginning to happen che dà il nome all'aricolo). Partite dal 3' e 30''.

Si può dire ogni cosa del gol di Gemmill e probabilmente ogni cosa è stata detta. È stato considerato il più bel gol del Mondiale argentino, se n'è parlato in lungo e in largo, ne è stato scritto e, addirittura qualcuno ne ha anche cantato. Ma nell'immaginario collettivo, come anticipavo all'inizio, è entrato grazie ad un memorabile film dei nineties so nineties.
La scena è questa e Atomic di Blondie è una colonna sonora perfetta.


"Non mi sentivo così da quando Archie Gemmill ha segnato con l'Olanda nel '78."

SEI GRADI DI SEPARAZIONE, OVVERO DELLA TEORIA DEL MONDO PICCOLO: DA MARRAKESH EXPRESS AD EUGENIO FASCETTI.


La Partenza. Marrakesh express.

La Notte degli Oscar del 1992 regalò una grande emozione all'Italia: la simpatica voce di Sly (al secolo Sylvester Stallone) annunciò al mondo che la statuetta per il miglior film straniero era andata a "Mediterraneo" di Gabriele Salvatores.


Nello stesso anno la Danimarca vinceva, da ripescata causa conflitto in Jugoslavia, il primo ed unico campionato europeo della sua storia sbancando la rassegna organizzata in Svezia, regolando 2-0 in finale la solita, coriacea Germania. E, sempre in quel maledetto 1992, il Barcelona conquistava la sua prima Coppa dei Campioni (da quell'anno ribattezzata Champion's League) battendo, senza alcun merito a voler essere precisi, la Sampdoria in una notte di maggio in quel di Wembley.
In tutta sincertà, Mediterraneo non è un film che mi abbia fatto impazzire. Anzi, paragonato a "Lanterne Rosse" (il film che sconfisse nella corsa all'Oscar), risulta ancora più indigesto. Rimanendo nella filmografia di Salvatores, però, c'è un lungometraggio che mi ha sempre fatto tenerezza e, a dirla tutta, mi è persino piaciuto. Risale a due anni prima del sopracitato e si intitola "Marrakesh express". In breve è la storia di un gruppo di amici, inattivo da una decina d'anni, che decide di rivedersi e di intraprendere una spedizione in Marocco (a Marrakesh appunto) per cercare di liberare dalla carcere magrebina un altro membro della vecchia cumpa, al gabbio per possesso di stupefacenti. Il viaggio è lungo e pieno di avvenimenti, alcuni strani, altri divertenti, altri drammatici che porteranno, come da classico risvolto da film on the road, a rendere più importante il percorso rispetto all'obiettivo finale. In linea di massima questo è Marrakesh express, anche perché se uno non se l'è visto mica voglio fare troppi spoiler.
Il perché io voglia citare questo film all'interno di questo blog è presto detto: c'è una scena che mi rimarrà sempre impressa ed è la partita Italia-Marocco "si va ai 10" che i protagonisti giocano sulla spiaggia marocchina contro una delegazione locale. Durante l'incontro c'è una simpatica uscita di Abatantuono/Ponchia che, riferito alla parata di Teresa (la fidanzata spagnola dell'amico in gabbia), esclama: "La grande tradizione dei portieri spagnoli: da Zamora a Zubizarreta!".



Primo grado. Just Fontaine, un mondiale da 13 gol.

Il diciotto agosto 1933 nasce il più grande golaedor della storia d'oltralpe e, come la maggior parte dei campioni di football di quella nazione, non nasce in Francia. Dove nasce secondo voi? Beh, se guardate il punto 1 e siete un pò fatalisti, comincerete anche a capire il perchè del titolo di questo post. Just Fontaine nasce proprio a Marrakesh e comincia a giocare, da 9 fatto e finito, nell'U.S. Casablanca. Venne acquistato dal Nizza nel 1953 e lì si impose segnando 44 reti nell'arco di 69 partite. Fu, quindi, prelevato nel 1956 dallo Stade de Reims (allora la più forte compagine francese) per sostituire Raymond Kopa che se ne era andato nel Real Madrid degli invincibili; il Real di Di Stefano, Puskas, Gento, Santamaria e delle 5 Coppe dei Campioni consecutive. Non certo un Castel di Sangro qualunque. In ogni caso il buon Just si trova appioppato l'ingrato compito di sostituire un campione vero ed amatissimo dai suoi tifosi.
Monsieur Fontaine non si fa pregare e segna, segna e segna ancora. Alla fine dei cinque anni in maglia biancorossa saranno 121 in 127 partite. Ovvero come partire sempre con un gol di vantaggio sugli avversari. Non male, direi. Anzi, come in uno spot di una nota marca di scarpe paladina dello sfruttamento minorile, Just do it. A corredo di questi numeri "alluginandi"(parola di Antonio "Crozza" Conte), Fontaine porta in dote tre Ligue 1, una Coppa di Francia e una finale di Coppa dei Campioni drammaticamente persa contro il Real Madrid degli invincibili e del grande ex Raymond Kopa.
In nazionale, il nostro, esordisce nel 1953 contro la corazzata del Lussemburgo e segna tre gol. Poi rimane fuori dal giro, o comunque non rientra nel novero dei titolari, fino al 1958 anno dei mondiali di calcio organizzati dalla Svezia. E, diventato titolare, in Svezia Just stupisce il mondo del pallone. Ne piazza tre nel morbido esordio vincente (7-3 il finale) contro il Paraguay, ne segna altri due nella sconfitta di misura contro la Jugoslavia (3-2) e sigla l'acuto decisivo nel sudden-death match contro la Scozia vinto dai transalpini per 2-1. Nei quarti di finale la Francia affronta l'Irlanda del Nord che nelle qualificazioni aveva obbligato l'Italia a guardarsi il mondiale da casa. Il punteggio rispecchia la pochezza dei britannici: 4-0, altra doppietta dell'implacabile Fontaine e semifinale in ghiacciaia.
Dalla parte del tabellone dei mangia-rane arriva in semifinale il sempiterno Brasile trascinato da un ragazzetto di colore che ha un nome molto, troppo lungo (come la maggior parte dei brasiliani del resto) e che per comodità viene chiamato Pelè. Ma Fontaine non è uno che si spaventa facilmente e pareggia l'iniziale svantaggio, sporcando la fin lì immacolata rete verdeoro. Peccato di lesa meastà che viene lavato con un sonoro 5-2 finale, che relega i transalpini a giocarsi la finale di consolazione contro i campioni uscenti della Germania Ovest (vincitori in Svizzera in quello che è arcinoto come "Miracolo di Berna" e a cui ha accennato il mio consorte di blog qualche mese addietro).
Finalina pirotecnica che si chiude 6-3 per "les bleus" trascinati dal poker del buon Just che tocca così quota 13 gol in una singola manifestazione. Record insuperato e, senza timore di smentita, insuperabile. Come il tonno in olio d'oliva.



Secondo grado. Nils Liedholm "il barone": in 10 si gioca meglio che in 11.

In assoluto il miglior giocatore svedese di sempre? C'e chi dice di sì, c'è chi dice no, c'è chi non sa e, turandosi il naso, vota ancora DC. In ogni caso stiamo parlando di un giocatore, innanzitutto Campione olimpico con la sua nazionale a Londra nel 1948, che ha fatto dell'eleganza e della costante presenza nelle partite che contano un marchio di fabbrica. Centrocampista di fosforo e di classe pura, di lui racconta Gigi Garanzini di quando San Siro scoppiò in un lungo applauso quando sbagliò il suo primo passaggio, dopo anni di militanza, con la maglia rossonera.
Era il capitano della Svezia che nel 1958 ospitò i mondiali di calcio (pensate un pò, quelli di Just Fontaine!) e trascinò, insieme all'uccellino Hamrin, i padroni di casa al miglior piazzamento di sempre in una competizione mondiale: secondi dietro il Brasile. Il Brasile di Pelè, ergo i primi dei normali. Nils ebbe anche l'ardire di aprire le danze nel pomeriggio del Råsunda di Stoccolma, uccellando dopo appena 4 minuti la retroguardia verdeoro che, come in semifinale contro la Francia, ripresasi dalla sorpresa, vomitò smitragliate di tiri in porta contro gli scandinavi padroni di casa. Un 5-2 che si porta in dote anche la rete più bella mai realizzata (non lo dico solo io) in una finale mondiale. La segna, manco a dirlo, Pelè: stop di petto per saltare il primo difensore, sombrerone al secondo e conclusione al volo di esterno destro. Come direbbe il mio compagno di viaggio: CHE BELLO! MA CHE BELLO!


Aveva un cervello finissimo Nils, che gli permise di intraprendere, con enormi soddisfazioni anche la carriera da allenatore. Vinse uno scudetto al Milan nell'annata 1978-79 e poi si trasferì a Roma, dove le sue gesta rimarranno scolpite per sempre nella storia dell'A.S. Roma. Portò i giallorossi a vincere il secondo scudetto, dopo quello fascistissimo del 1941, scatenando l'euforia di almeno metà dell'urbe e lanciando in orbita giocatori che avrebbero scritto pagine di storia anche con le maglie delle rispettive nazionali. Faceva pochi piagnistei "Il Barone" che, come da titolo del paragrafo, commentava "In 10 si gioca meglio che in 11" ad ogni domanda che faceva riferimenti polemici all'espulsione di un suo giocatore. C'è chi racconta che lo scudetto della stagione 1982-83 a Roma fosse merito di Pruzzo, chi di Falcao, chi di Bruno Conti. Ma io, che come ben sapete condivido il cervello con l'altro scrivente di questo blog, ritengo che il tricolore sia stato cucito grazie alla mossa geniale di spostare il capitano Agostino Di Bartolomei nella posizione di libero, che un centrocampista ad impostare in difesa è meglio avercelo anzichè no. Anche perchè Liedholm fu uno dei primi, se non il primo, a portare il gioco a zona in Italia, patria di catenaccio e contropiede sin dalla notte dei tempi. E anche per questo, che di Gigi Simoni ed Emiliani Mondonico ne avevamo le tasche stracolme già negli anni '70, dovremmo essergli grati. Il bel gioco, la signorilità, l'intelligenza tattica e nella vita. In due parole: Nils Liedholm.



Terzo grado. Agostino Di Bartolomei: Tutto fa un pò male.
 
Anno di suicidi il 1994. In aprile si fa fuori, con una sapiente fucilata, l'angelico eroinomane Kurt Cobain provocando indignazione e sgomento nella società incivile, e permettendo a chiunque di scrivere e di parlare dell'orrendo disagio che nemmeno la musica e l'onnipotenza nirvaniana erano riusciti a curare. Situazioni ingombranti, rock'n'roll ed eroina, beh niente di nuovo sotto al sole pazzerello di aprile. Fiumi di inchiostro gettati al vento se, almeno una volta nella vita, non si è ascoltata "Drain you" ad un volume così alto da pensare di essere il plettro nella mano sinistra del sopracitato Cobain.


Ma, come mia consuetudine, sto divagando.
Alle 10 e 50 del 30 maggio del 1994, nella sua casa di San Marco di Castellabate, la fa finita il capitano del secondo scudetto della Roma. Ma questa è una storia meno mediatica della precedente, non c'è droga, non ci sono (più) folle adoranti, non c'è masochismo. C'è solo un uomo, prima di un grande ex-calciatore, che si sente tradito dal suo mondo. E dalla sua squadra del cuore. E Agostino di Bartolomei, il centromediano fatto libero da Nils Liedholm, abbandona la sua famiglia e la sua vita così, con un colpo autoinferto al cuore dalla sua Smith & Wesson. E con lui finisce al di là dei sogni un pezzo di storia, forse non il più bello ma sicuramente il più romantico, del calcio della capitale. Capitano della Roma di Dino Viola, decisa ad abbattere i poteri forti del nord Italia, a riportare la capitale là dove le sarebbe spettato di diritto: in cima all'Italia e, perchè no, anche all'Europa. Il centrocampista di belle speranze scoperto da Helenio Herrera, che lo fa esordire appena diciottenne contro l'Inter, porta via con sè i rigurgiti acidi di un calcio senza riconoscenza e di una personalità introversa e carismatica, mai dedita all'elemosina, fosse essa di attenzioni o di aiuto. Mai un gesto (una sola espulsione in carriera) o una parola fuori posto, il "DiBa", come veniva appellato dalla curva sud, se ne è andato con la signorilità con cui ha vissuto e giocato. Da leader silenzioso. Un leader che mai perdonò a Falcao di non aver avuto le palle di tirare un rigore in quella finale Roma-Liverpool, e che, passato al Milan, mal tollerò le parole ambigue dell'ex compagno Bruno Conti che lo definì uno “Tranquillo, pulito, che non esce mai dal campo sudato”. Tutto questo dopo un duro scontro tra Di Bartolomei a l'allora centravanti giallorosso Francesco Graziani, scontro che provocò una solenne rissa durante quel Milan-Roma. "Ti hanno tolta la Roma, non la tua curva" recitava lo striscione esposto prima della sua ultima gara in giallorosso (finale di Coppa Italia Roma-Verona 1983-1984) e mai verità fu meglio scritta.


Agostino sperava di poter essere utile, anche da dirigente, alla sua squadra del cuore ma quella chiamata non arrivò mai. Fece un'ultima breve comparsata nel ruolo di commentatore tecnico per la Rai durante i mondiali italiani del 1990, ma poi rientrò nel suo ritiro di San Marco di Castellabate da cui non uscì più.
Curiosità: a lui si è ispirato Paolo Sorrentino per il personaggio di Antonio Pisapia, l'omonimo calciatore del Tony Pisapia cantante nel magnifico film "L'uomo in più".



Quarto grado. L'Italia mundial: Non ci prendono più.

"Nel calcio come nella vita" amava ripetere Nereo Rocco, il mentore dell'allora C.t. Enzo Bearzot. E nel calcio, come nella vita, la nazionale italiana ha sempre preferito riuscire nelle imprese più difficili. Maestri nell'attirarsi le antipatie estere, nel catturare l'astio della stampa e del tifo locale, nell'invischiarsi in scandali di proporzioni sempre maggiori (dal totonero al calcioscommesse attuale, passando per la costruzione degli stadi di Italia '90, per Luciano Moggi ed altre piccole e medie imprese), "Nel calcio come nella vita" solo con le spalle al muro e con la merda in una linea di galleggiamento ben più alta del sopportabile, l'Italia pallonara ha sempre trovato un modo per riscattarsi. E' un assioma trito e ritrito, ma, come ama ripetere un mio amico reduce dall'Afghanistan: "Se le dicerie esistono è perchè c'è sempre un fondo di verità." Ed io concordo con lui.
Comunque sia, gli azzurri arrivano in Spagna nell'estate del 1982 già con un discreto fondo di dissenso nella carta stampata, in particolare in quella capitolina che avrebbe voluto un numero di giallorossi più corposo rispetto ai soli due giocatori convocati, ovvero Conti e Graziani. Ma Bearzot non rinnegò le il suo credo e continuò ad affidarsi al cosiddetto blocco-Juve che comprendeva anche un certo Rossi Paolo che aveva appena finito di scontare la sua condanna per le vicende legate alla questione Totonero.


Il cammino degli azzurri nel girone eliminatorio fa piazza pulita anche dei pochi sostenitori rimasti: 0-0 con la Polonia del "bello di notte" Boniek, 1-1 col Perù (in gol Conti) e 1-1 col Camerun (a segno Ciccio Graziani). Qualificazione alla seconda fase solo per differenza reti e, per la prima volta nella storia della nazionale, il C.t. Bearzot impone il silenzio stampa. Non è un silenzio stampa totale, ma, dato che l'unico componente della squadra che ha il permesso di parlare con i giornalisti è il loquacissimo capitano Dino Zoff, è come se lo fosse.
Anche i sassi conoscono il prosieguo della storia, con le due vittorie nel girone di ferro con Argentina e Brasile e la rinascita di Paolo Rossi proprio contro i verdeoro.
Curiosità: il Brasile era così sicuro di sconfiggere l'Italia che aveva già prenotato l'albergo per il prosieguo del torneo. Inutile ricordare come i conti fatti senza l'oste siano rischiosi, tant'è che ancora oggi in Brasile la sconfitta con gli azzurri viene ricordata come la Tragedia del Sarriá.
In semifinale gli azzurri, ora idoli di tifosi ed addetti ai lavori, asfaltano la Polonia e vanno in finale contro la Germania Ovest.
L'11 luglio 1982 al "Santiago Bernabeu" di Madrid, l'Italia conquista il suo terzo titolo mondiale battendo 3-1 gli onnipresenti crucchi. La terza rete, quella che farà togliere la pipa di bocca all'indimenticato Sandro Pertini facendogli esclamare il famoso "Non ci prendono più", la segna "Spillo" Altobelli subentrato dopo pochi minuti in luogo di un Graziani maltrattato dalla difesa teutonica.



Quinto grado. Antonio Cassano: Fai pure con calma, io ti aspetto qui.

Nella notte tra l'11 e il 12 dodici luglio 1982, mentre l'Italia impazzita festeggiava la vittoria del mondiale spagnolo, a Bari vedeva la luce ed emetteva i primi vagiti (in dialetto barese strettissimo) un bambino che, a modo suo, avrebbe lasciato impronte indelebili nella storia del calcio: Antonio Cassano.
Lasciamo perdere l'infanzia in cui viene scartato (troppo piccolo, troppo brufoloso, troppo terrone) da Inter, Parma, Casarano e da un altro paio di squadre ed arriviamo a Bari-Inter-2-1 della stagione 1999-2000 in cui Antonio mostra il suo biglietto da visita a Laurent Blanc, Christian "Umiltè" Panucci e a Marcello Lippi: stop di tacco volante su lancio dalle retrovie, palla addomesticata con la testa, dribbling a rientrare sul destro e botta sul primo palo. Inter al tappeto, Bari in delirio e il figlio di Bari vecchia già proiettato nell'olimpo del calcio italiano. Poi, come chiunque mastichi un briciolo di pallone sa, Antonio passa alla Roma per una cifra vicina ai sessanta miliardi, litiga con Totti, con la società, coi tifosi, con Capello, fino a trasferirsi, nel gennaio 2006, nei galacticos di Madrid. E' leggermente sovrappeso (leggermente è un eufemismo bello e buono) e gioca col contagocce, perdendo così la possibilità di giocare il mondiale in Germania. Poi a Madrid ritrova Capello e, quando sembra che le cose stiano finalmente andando per il verso giusto, decide di sbeffeggiarlo in mondovisione con una delle sue imitazioni più riuscite.


Viene messo fuori rosa, ma grazie alle sette partite racimolate durante quella Liga riesce comunque ad intascarsi il premio-scudetto. Nell'estate duemilasette passa alla Sampdoria grazie ad una magia messa a segno dallo stratega dallo sguardo sbilenco che risponde al nome di Giuseppe Marotta. Al Doria Antonio mostra tutto il suo repertorio: giocate di classe sopraffina (al suo fianco Pazzini ha segnato tipo 50 gol in due anni. E ho detto Pazzini, non Gigi Riva), cambi d'umore improvvisi come i temporali di Cardiff ed, ovviamente, sceneggiate degne del leggendario Mario Merola.
E' il 2 marzo 2008 e la "summa Cassaniana" è servita. Sampdoria-Torino-2-2.
Il Torino va in vantaggio grazie alla dabbenaggine di Luca Castellazzi, che diviene bersaglio della gradinata blucerchiata. Antonio propizia il pareggio di Luigi Sala e corre ad abbracciare il portiere, cercando di spiegare ai tifosi che continuare a fischiarlo sarebbe stato controproducente per tutti. Poi, dopo il nuovo vantaggio granata, segna un gol delizioso con un colpo da biliardo di piatto destro. Per festeggiare, il genio, vuole spaccare la bandierina (come in un vecchio Roma-Juventus-4-0), ma la bandierina non si rompe e, anzi, rimbalza sul terreno andando poi a colpire Cassano sulle labbra, lasciandogli una bella ferita. Poi il sale sulla coda. Al minuto 87 ad Antonio viene fischiato un fallo inesistente dall'arbitro Pierpaoli. Vena chiusa e delirio puro. Guardare per credere.
"Io gli (all'arbitro ndr) avevo detto che facesse pure tutto con calma. Io l'aspettavo lì, nel sottopassaggio." Come a scuola o in discoteca.



Sesto grado. Eugenio Fascetti: De salvaetia cum penalitate.

Alla guida del Bari di fine secolo scorso, e contestualmente il primo a riconoscere e valorizzare il talento del giovanissimo Antonio Cassano, è un toscano spigoloso che, da sempre e per sempre, schiera che le sue squadre con l'1-3-4-2 (dove l'1 è l'oramai vetusto "libero staccato"): Eugenio Fascetti da Viareggio.


A Bari, Eugenio, costruisce l'ultimo miracolo di una carriera da allenatore che lo ha visto sempre peregrinare in squadre (provinciali o nobili decadute che fossero) in cerca non solo d'autore, ma anche di scenggiature e location decenti. Come primi exploit porta in B il Varese (annata 1979-80) e firma la prima storica promozione in A del Lecce (1984-85). Rimane ai salentini anche l'anno successivo non riuscendo a centrare la salvezza, ma impedendo (il dio pallone l'abbia sempre in gloria) alla Roma di vincere il suo terzo scudetto, sbancando per 3-2 l'Olimpico alla penultima giornata con una squadra matematicamente retrocessa. L'anno successivo, guarda te il destino, Fascetti si trova ad allenare proprio a Roma. Sponda Lazio, si capisce.
Preambolo: come accennato in precedenza l'Italia pallonara ha sempre convissuto con scandali vari e quell'estate non differì dalle precedenti nè da quelle che sarebbero venute dopo. Venne scoperto un giro di scommesse e "combine" (che prese poi il nome di Totonero-bis) che interessava una ventina di squadre professionistiche italiane e molti dirigenti e giocatori.
Piccolo OT: fu ritenuto colpevole e squalificato per tre anni il general manager del Foggia. Il suo nome? Chiedete a Galliani, e già che ci siete chiedete chi erano i Beatles, e lui vi risponderà: Ernesto "curo io i rapporti col mercato spagnolo" Bronzetti.
Rientrando in tema, Fascetti e la Lazio si trovano 9 punti di penalizzazione (giovi ricordare a chi legge che prima del campionato 1994-1995 le vittorie valevano ancora 2 punti) da scontare nella serie cadetta che andava cominciando. In soldoni i biancocelesti avevano un piede e mezzo in C1.
Partita fortissimo, ma calata alla distanza la Lazio raggiunge il quart'ultimo posto (che non garantiva la salvezza, ma la possibilità di andare agli spareggi) a pochi minuti dal termine dell'ultima giornata, battendo il Vicenza 1-0 all'Olimpico grazie ad una rete di bomber Fiorini.
Sul neutro di Napoli, la Lazio si trovò a spareggiare con Taranto e Campobasso. Una sorta di triangolare estivo che avrebbe deciso chi, delle 3, sarebbe finita nelle forche caudine della serie C1.
Biancocelesti k.o. di misura contro il Taranto (0-1) nella prima partita, con i rossoblù pugliesi che certificavano la propria salvezza pareggiando con il Campobasso nel secondo incontro. Nella terza e decisiva sfida, pochi cazzi per Lazio: solo una vittoria avrebbe evitato l'umiliazione della retrocessione.
E, sostenuta da 40000 tifosi accorsi al San Paolo, l'aquila biancoceleste piega di misura il Campobasso con un gol di Fabio Poli.


L'anno successivo, senza penalità e con una proprietà più generosa, Fascetti riportò la Lazio nella massima serie in cui ancora si trova.
Nota di colore sulle simpatie politiche del buon Eugenio: una volta, commentando a "stadio Sprint" la classifica del suo Bari a quel tempo ottavo, disse: "L'unica volta che mi sento di sinistra è quando guardo la classifica."

A VOLTE SI VINCE, A VOLTE SI PERDE, A VOLTE PIOVE

Dedicato a Matteo Santunione e Riccardo Cavani.

È in un prato verde in fondo a qualche statale che si nasconde Modena, o per lo meno la città che, tra tutte le Modena possibili, scelgo io. 


Una collina di case del dopoguerra miscelate a distinte villette a schiera ed ecomostri denuclearizzati, una chiesa come ce ne sono altre mille, un castello in malora, un bar con appeso dentro uno sbiadito poster di una qualche gloria piccolo-locale e, naturalmente, la classica sagra estiva.

Fiere di inizio estate di mezzestate di ferragosto di fine estate; feste della birra, del vino, dei lamponi, dei mirtilli o dei trattori; sagre del sole, della luna, della campagna, del bosco o della crescenta; infine, immancabili, le ricorrenze dei Santi (Giovanni e Lorenzo su tutti) e un paio di feste della Madonna, giusto per fare pari patta con le quote rosa nella conta delle solennità religiose.
Fascino e mistica sconosciuti all'homo sapiens varietà cittadinus, quelli delle fiere di paese, dove per paese si intendono borghi che non superano i 418 abitanti, bestie da trogolo debitamente annotate.
Tanto per capirci: polente bollenti bellamente messe in tavola a dispetto dei 38 gradi l'aria ferma non una foglia che si muova e mica un filo di brezza; caraffe scarse di lambrusco scadente servito a temperatura ambiente; e mangiari unti ciunti tamugni, e de hoc satis, ad abudantiam e alla salute dei salutisti, che Dio li strafulmini tutti!


Insomma: una straordinaria raccolta di idee povere trasformate in benessere popolare e business collettivo: la miglior Modena possibile, a m'è d'avis, e, a pensarci bene, l'unica socialista mai realizzata.
Capita che nelle sagre duepuntozero, venga pure dedicato una spazio ad una grande pesca di beneficenza. E capita anche che io prenda un biglietto e la pescatrice mi premi con due almanacchi calcistici del '90 e del '92, ed un librone intitolato UNA STORIA IN GIALLOBLU, nome quantomai discutibile, considerata la copertina verde del tomo. 


 La giovane volontaria me li consegna con fare distratto e occhi bassi, quasi vergognandosi del risultato dell'estrazione o, che so, immaginando che sarei stato più contento se avessi vinto COSI' PARLO ZARATUSTRA o CRITICA ALLA RAGION PURA. Quel che la ragazza non sa è che dare a me un annuale di calcio -se retrodatato ancora meglio- è come portare un bambino alle giostre. Esco da questo mondo ed entro in una dimensione all'interno della quale è del tutto trascurabile che ci possa essere un futuro oltre domani, che ci siano incendi nei boschi e incidenti dappertutto, o che il prezzo della benzina sia vicino ai 2 euro.

Prendo l'almanacco del '92, con foto in copertina dei gemelli del gol, maglia blucerchiata della Samp d'oro, gusto vero e sapore autentico di un calcio toccato dalla grazia, ma ormai, purtroppo, in miseria se non proprio estinto. Lo guardo ammirato, lo leggo rapito, lo spulcio avidamente, rimango estasiato da tutti questi numeri, per me la sagra del San Qualcuno di turno è finita da mo', come avrebbe detto D'Annunzio: ME NE STRAFOTTO anche dei fuochi d'artificio. 

 
Che il cielo continui pure ad esplodere che tanto ho anche l'altro almanacco, quello del '90, in copertina la foto di quel maiale di Zenga, con tanto di catenina svulazzante al collo.

Del libro verde che parla del Modena invece -non me ne voglia quell'amorevole ragazzo che è Chicco Stanco- non me frega proprio un cazzo, non scendo a compromessi con una bistrattata squadra di provincia costantemente seppellita da mitragliate di debiti, da rifare ad ogni sessione di mercato, ed adatta solo a querimonia da bar di bassa risma. Lo regalerò a qualcuno o lo venderò su ebay, che, come è vero che la vita è troppo breve per bere vino cattivo, è troppo breve anche per dedicare cinqueminuticinque al Modena Football Club 1912.

Finiscono le feste di paese, finisce l'estate; scende la notte e il buio circonda le nostre vite. 


Ci si accorge dell'autunno quando ormai la bella stagione è già scappata con la refurtiva nel sacco, e accompagnati da piogge tristi e scure che neanche Blade Runner, assistiamo rassegnati all'arrivo prepotente dell'inverno.
Nelle notti da Novembre a Febbraio la seduzione è dormire e, a meno che queste stesse notti non spariscano una ad una in posto nuovo dell'Arci, o a meno che non si abbia la fortuna di poter fare all'amore anche quando fuori dice male, gli interminabili bui serali ben si prestano a serie TV, intere stagioni di Breaking Bad, amici che siano di cuscino, liquori forti che scaldino la pancia, e letture di libri impolverati, interrotti o dimenticati.


La mia professoressa di filosofia diceva che non esistono libri belli o libri brutti, ma che esistono momenti giusti o momenti sbagliati in cui leggerli. Aveva ragione. Lo stesso librone verde che l'estate appena trascorsa avrei defenestrato come un anarchico qualsiasi, ora m'intriga, sembra avere qualcosa da dire, qualcosa che prima non avevo sentito.

Lo apro e, nemmeno le dimensioni spazio-temporali si fossero allineate proprio in quell'istante, leggo -testuali parole- “dopo la Festa di San Giovanni iniziò l'estate, la stagione della grande calura, delle fiere di paese... Quell'anno il termometro arrivò a 38 gradi, con l'aria ferma, non una foglia che si muovesse e niente che fosse niente che accadesse”, e ancora:”degli incidenti e degli incendi nei boschi nemmeno valeva la pena incominciare a parlare”, e infine, a chiosa:“ancora si parlava del terremoto che aveva lasciato una grande impressione, la benzina era arrivata a 450 lire, i prezzi erano saliti alle stelle, chissà dove saremmo andati a finire... e poi, e poi finirono le olimpiadi, le vacanze, passò l'estate e restarono i discorsi di sempre, primo fra tutti il Modena, ancora in B, col bilancio dissestato, anche i se i tifosi non ne volevano sentire parlare, con millanta problemi, con la squadra da rifare”.
Punto, gioco, partita.

C'erano zero possibilità che trovassi il momento giusto per dedicare la mia attenzione ad un libro solo in apparenza sbagliato, eppure UNA STORIA IN GIALLOBLU di tale Giancarlo Silingardi aveva sbancato il banco alla prima giocata. Vale il detto:”Passare per un buco stretto”.
Facendo leva su inequivocabili richiami, riassaporavo i gusti della mia miglior Modena, quella delle sagre e del bel tempo, quella più pura del primo amore, quel place to be torrido e appartato al limitare della sua stessa provincia, in un prato verde in fondo a qualche statale.

Proseguo nella lettura e mi imbatto nei gol di un giocatore dal classico nome che riempie la bocca, proprio come piace a me: Roberto Bellinazzi, in arte BAFFOGOL. 


Descritto dall'autore del libro come:”Opportunista, rapinatore di gol, contrattacco dei migliori in circolazione, attaccante marpione”, realizzo di aver davanti la storia di un autentico bomber di razza, seppur della serie cadetta, ma comunque roba che un Pazzini di adesso probabilmente non gli passerebbe nemmeno vicino per spolverare.
Ma quel che più colpisce è che sembra direttamente uscito da un “Baffo Party”. Potrebbe tranquillamente sedersi a capotavola davanti ad un consesso di baffuti illustri, che so: Hulk Hogan, Lemmy dei Motorhead, i fratelli Luca e Alle D'Andrea, Walter White, Zorro, e Hitler (no, anzi, Hitler no, che a tavola nessuno parla tedesco) che non sfigurerebbe, anzi, direbbe a tutti come impugnare le posate.


Ma veniamo al Modena F.C. e -repetita iuvant sed scocciant- stiamo parlando di una squadra che, mentre cerca di darsi un qualsivoglia obiettivo stagionale (e recuperare quei due o tre punti canonici di penalizzazione che ha racimolato in seguito a qualche scandalo), vede gli altri club giocarsi mezzo campionato.
È un Modena che fa disperare ma è anche l'unico Modena a cui possono tenere i tifosi gialloblù, e a mia memoria, è stato sempre così e sarà così per sempre: a volte si vince, a volte si perde, a volte piove.

Il primo Modena di Bellinazzi è quello della stagione seventyfour-seventyfive, Serie C, quello del “a volte si vince”. Baffogol arriva a metà stagione, è il terminale offensivo di una squadra basata sul solido schema “pochi ciacri, bel zog”, e va in doppia cifra mettendo a referto 10 reti e trascinando i gialli in B.
Roberto da Caorle ha ventinove anni, è al culmine della sua carriera agonistica e nella serie cadetta segna svalangate di gol. Più volte hombre del partido, 13 marcature per lui, è protagonista assoluto di un'altra stagione del “a volte si vince”, in cui il Modena chiude sì, a mezza classifica, ma solo ad un pugno di punti dal paradiso.
Stagione '76/'77: “a volte piove”.
Già, perché il destino del Modena è un po' come il tempo, basta un niente perché si guasti. Da due annate che erano state tutto un carnevale di gol e risultati inaspettati si passa ad una stagione all'insegna della sofferenza, che i canarini strappano per i capelli, salvandosi all'ultima giornata con solo un punto di margine sulle cenerentole.
Il campionato era iniziato male, poche idee e confuse, era proseguito tra bassi, tanti, e alti, pochi, e, paradossalmente, s'era concluso in un clima di festaabestia popolare tra bandiere e clacsonate, giusto perché, vivaddio, s'era evitato il baratro della C (per la serie: questo è il calcio). Baffogol, accusato durante tre quarti di campionato di bulimia realizzativa, non aveva forse fatto vedere le streghe ai marcatori avversari, ma aveva comunque timbrato il cartellino tutte le feste che contavano, e aveva contribuito, un po' con la forza della disperazione, un po' perchè faceva tutt'altro mestiere rispetto ai quei pellegrini dei suoi compagni di banco, a tenere a galla il Modena con 11 gol-salvezza.
Ma l' “a volte si perde” è solo rimandato all'anno successivo.


Bomber Bellinazzi ce la mette tutta, va in rete dieci volte, ma non bastano per salvare i ragazzi. Il campionato del Modena è una compilation di figure di merda, un disastro via l'altro, un'annata di cui si spera solo di veder la fine, che culmina con la miseria di venti punti totali, e una sacrosanta, meritata e giusta retrocessione in Serie C.

Via tutti e dell'epurazione non è esule nemmeno Baffogol che se ne va nella squadra della città più sfigata di tutta la Toscana: Pistoia, che ormai non è più famosa nemmeno per lo Zoo.

Continuo a leggere il libro, ma privo del suo personaggio più folkloristico e con la prospettiva di un Modena allo sbando, costretto ad un'impervia ed interminabile risalita, lo abbandono.
Tuttavia resto incuriosito da Baffogol Bellinazzi e chiedo a Google, chiedo a Wikipedia, chiedo a mio padre, se avessi avuto un Iphone avrei chiesto anche a Siri, ma nessuno riesce a dirmi più di quel che già non sappia, cos'abbia fatto dopo, dove sia finito, se abbia compiuto qualche miracolo, se sia diventato un ubriacone o un panzone bontempone, se abbia ancora i baffi... Non potrò mai scrivere un articolo per il blog, Baffogol non comparirà mai tra gli 11 Illustri Sconosciuti, peccato.

Arrivano le Idi di Febbraio, comincia a nevicare e sembra non smettere più. Un amico mi chiede di uscire, di andare in pub, a Fiorano.  Entriamo ed il locale è stranamente pieno. Troviamo alcuni dei nostri e ci sediamo con loro, uno di questi lo chiamiamo Buso, ed è forse l'unica persona al mondo più logorroica di me.
“Allora, Zè, come va col blog dei calciatori, di chi parlerete la prossima volta?”
E rispondo:”Sai, Buso, mi piacerebbe molto parlare di un giocatore del Modena di qualche tempo fa, ma di cui non trovo alcuna informazione”.
Mi chiede come si chiama e gli rispondo:"Bellinazzi".
E al mio amico Buso si illuminano gli occhi e con entusiasmo replica:”BAFFOGOL?”
“Lo conosci?”
“Se lo conosco? È stato uno dei miei allenatori! Io e un mio amico, Gabbo, giocavano insieme per una delle tante squadre dilettantistiche che ha allenato qui in provincia. A me diceva di entrare, di fare un po' quel che mi pareva ma di non far passare nessuno. Mentre Gabbo lo schierava punta, e se non segnava, in venexian, gli urlava: diobono Gabbo, no te fa' mai gol! È andato avanti così fino a quando un sabato nella Bassa, contro la Mirandolese prima in classifica, non ha segnato il gol-partita, un gol di rapina, uno dei suoi...Ma come ti è venuto in mente?”

Storia lunga, Buso, molto meno interessante solo del fatto che mi ritrovi a parlarne con te proprio qui, e proprio ora, a t'al zur.

Non mi spiego cosa diavolo ci abbia trovato, il Bellinazzi, di tanto gradevole per rimanere qui ad allenare la berretti di una qualche squadra del comprensorio. Voglio dire: non s'è accorto del tremendo inverno emiliano, del buio avanti sera, delle ceramiche che sembrano petroliere spuntate tra la nebbia, delle campagne -quelle brulle e fangose- di novembre, degli orizzonti sbiaditi, delle case basse dai tetti rossi e dalle mille antenne? Insomma, non ha visto la vera Modena, la peggiore possibile? Cosa lo ha trattenuto qui? Le sagre estive forse? Le scampagnate amorose con tanto di plaid da monta? Sandrone e la Pulonia?

Si fa tardi e l'ora volge al disio, salutiamo gli amici, il vecchio Buso e le ragazze, e ce ne andiamo. Perdo lo sguardo fuori dal finestrino, e rimango stregato da questo paesaggio urbano ammantato di bianco. Strade innevate e deserte, senza limiti o confini, contornate da un cielo ossidato e perse in un silenzio surreale, interrotto solo dal rumore delle ruote che schiacciano la neve.
E che bello è stato aver fatto serata in un locale inspiegabilmente strapieno, con amici che hanno fatto da cuscino e liquori forti che hanno riscaldato alma y vida.
Rincaso con una sbronza fine, quella giusta per dormire da signore, e repentinamente cambio umore e idea. Già perché anche l'Emilia più paranoica può avere il suo porco fascino, e Modena può essere incantevole anche quando non è stagione di sagre, quando non è in modalità place to be, quando è attanagliata dal cattivo tempo e smarrita nel bel mezzo del progresso, tra simmetriche luci gialle e luoghi di concentrazione.


In fondo non è molto diversa dalla squadra che la rappresenta: a volte vince, a volte perde, a volte piove. È il suo bello: imprevedibile come ogni cosa che sia veramente viva, irresistibile come solo un amore sbagliato riesce ad essere.

Che cosa ci costa aspettare che spiova? 
Forse Baffogol ha pensato lo stesso e non ha avuto tutti i torti ad essere rimasto per allenare dei ragazzi 
Peccato solo che abbia avuto la sfiga di giocare per il Modena.
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