LARGO AL FACTOTUM


Prologo: siamo nella seconda metà degli anni sessanta e nella Repubblica Socialista della Romania da poco proclamata, l'uomo-regime Nicolae Ceauşescu, per spronare il paese ad occuparsi del problema degli orfani, ne adotta uno. Si chiamerà Valentin e, oltre alla passione per la fisica e per l'ingegneria nucleare, avrà un ruolo importante nella rinascita di quella che è diventata la squadra più blasonata di Romania: la Steaua di Bucarest. Molte storie, alcune vere e altre no, circolano su questo oramai anziano fisico nucleare di stanza a Magurele. Proprio uno di questi aneddoti ha dato il "la" alla stesura di questo articolo.


Facciamo un salto in avanti. Ora ci troviamo, temporalmente, negli anni immediatamente antecedenti alla caduta del muro di Berlino (9 novembre 1989). Come immagino saprete, i paesi a est della cortina di ferro non vedevano di buon occhio il passaggio dei loro atleti verso le squadre ad ovest della stessa. La Jugoslavia, ad esempio, proibiva di giocare all'estero a tutti i calciatori con età inferiore ai 28 anni. La Romania si poneva in questa diatriba in maniera ancora più estrema: in pratica vietava l'espatrio di qualsiasi calciatore (ed atleta in genere, ricordate la storia di "Sua maestà l'eleganza" Nadia Comăneci?) in maniera più assoluta. Questo, a mio avviso, per due fattori: evitare che si spargesse la voce del benessere che avrebbero in ogni caso intravisto lavorando fuori dai confini rumeni e mantenere gli atleti al pari di qualsiasi operaio/lavoratore vessato dal regime poiché all'interno del regime stesso, solo il "Conducator" Ceauşescu poteva ergersi al di sopra della popolazione. Inoltre, come ha già ben esplicato Zeman nell'articolo su Jurgen Sparwasser, le vittorie ottenute in campi sportivi avrebbero potuto essere sfruttate in maniera esemplare dal regime per darsi un tono e per dimostrare la supremazia della propria idea su qualsiasi altra (a questo proposito si veda la propaganda fascista in virtù dei due campionati del mondo vinti dall'Italia di Vittorio Pozzo nel 1934 e nel 1938 o quella comunista dopo la storica vittoria nella palla al cesto dell'U.R.S.S. sugli Stati Uniti alle Olimpiadi di Monaco di Baviera del 1972).


Bucarest: capitale della Romania. Se si parla di pallone qui si concentrano le due squadre più titolate della nazione: Steaua e Dinamo. Come nella maggior parte dei paesi sotto l'influenza comunista/socialista, le due squadre rappresentavano le sovrastrutture più importanti del regime: la Steaua l'esercito e la Dinamo il ministero dell'interno. All'inizio degli anni '80, complice anche una crisi economica societaria (e non chiedetemi come sia stato possibile dato che, a mia memoria, un esercito statale non può fallire), la Steaua attraversa un periodo di grave appannamento subendo oltremisura lo strapotere della Dinamo. Poi con l'arrivo in panchina del santone del calcio rumeno Emerich Jenei e grazie l'interesse sempre più "spinto" di Valentin  Ceauşescu la musica cambia. A cominciare dalla stagione 1984-1985 i rossoblù di Bucarest riprendono a vincere in patria con una costanza avvilente per gli avversari.
Con una squadra composta in toto da giocatori rumeni, la Steaua si presenta ai nastri di partenza della Coppa dei Campioni 1985-1986 senza i favori del pronostico (come di consueto per una squadra proveniente dall'altra parte della cortina di ferro) ma con un'unione di intenti e di spogliatoio ritrovata dopo il recente turbolento passato.

Piccolo memento su quell'edizione della Coppa dei Campioni: non sono ammesse squadre inglesi, poichè nell'edizione precedente i tifosi del Liverpool e la stupidità dell'UEFA e delle forze dell'ordine belghe annegarono la credibilità delle istituzione calcistiche e non nell'inferno dell'Heysel. E la tragedia, per il solito gioco del destino, escluse dalla Coppa dalle grandi orecchie l'altra metà del Mersey, più comunemente conosciuta come Everton Football Club. Inoltre ci fu il misterioso forfait della squadra campione d'Albania, che portò ad un sorteggio doppio per i sedicesimi di finale. Sorteggio doppio poiché, oltre agli accoppiamenti, venne pescata una squadra che avrebbe superato d'ufficio questo primo turno. Si trattava dei campioni belgi del Royal Sporting Club Anderlecht.

I sedicesimi di finale, contro i campioni danesi del Vejle BK, rappresentarono per i ragazzi di Jenei una formalità risolta con un sonoro 4-1 nel ritorno in terra rumena. Negli ottavi di finale la Steaua pescò gli ungheresi dell'Honved di Budapest, avversario che muoveva sentimenti solo in colui che era la testa pensante, nel rettangolo verde, degli undici di Jenei: László Bölöni. Ma le sue origini magiare non lo mossero a particolare compassione, tanto che anche gli ungheresi vennero seppelliti da un 4-1 nel ritorno di Bucarest. A quel tempo non esistevano le teste di serie e questo permise scontri poco raccomandabili già al primo turno (Porto-Ajax) e derby fratricidi già al secondo (Juventus-Verona). Al sorteggio degi quarti di finale giunsero anche i carneadi finlandesi del Kuusysi Lahti, appetiti da tutte le altre sette squadre rimaste in lizza come tortellini fatti in casa il giorno di Pasqua.
Siccome il calcio non è una scienza esatta, ma è la scienza che più ci si avvicina, gli amici di Babbo Natale vennero pescati dagli amici dell'esercito rumeno che, ovviamente, faticarono come non si dovrebbe mai fare contro squadre così. Il pareggio 0-0 a Bucarest non rappresentava un viatico particolarmente esaltante per affrontare il ritorno nelle terre finlandesi. Terre che, a quell'epoca, non erano preda delle scorribande degli "ingegneri" della Vivident.


In Finlandia decide il bomber Victor Pițurcă. Ve lo ricordate? No? Oltre ad essere stato un attaccante particolarmente prolifico in patria è diventato (e lo è tuttora) commissario tecnico della nazionale rumena. Dovremmo ricordarci di lui o come avversario nella spedizione europea dell'Italia nel 2008 (1-1 nella seconda partita del girone) o, e io propendo per questa ipotesi, per la clamorosa somiglianza con il Conte Dracula.


Oltre a lui, molti altri giocatori di quella Steaua, divennero C.T. della Romania: i sopracitati Emerich Jenei e László Bölöni, Anghel Iordănescu (che arrivò fino ai quarti nel mondiale americano del 1994) e Marius Lăcătuș e Gavril Pelé Balint (anche se solo come assistenti). A proposito del secondo nome di Balint si potrebbe scrivere un articolo a parte, ma ora come ora c'è troppa carne al fuoco e non vorrei perdermi.
In semifinale i ragazzi venuti dall'est pescano l'Anderlecht che a livello europeo, tra la metà dei seventies e la fine degli eighties, raggiunge i migliori risultati della sua storia. Un avversario che definire rognoso sarebbe stato riduttivo. Nella terra di Re Baldovino e delle birre trappiste la Steaua limita i danni e contiene il passivo a solo una rete, ribaltando, con una doppietta di Pițurcă inframezzata da una rete di Balint, il risultato e strappando il biglietto per Siviglia, per la finale della Coppa dei Campioni (prima squadra dell'est ad essere giunta così avanti nella competizione). Nell'altra semifinale il Barcellona si impone sui temerari svedesi dell'IFK Göteborg, capaci di dilapidare il 3-0 dell'andata e di farsi sconfiggere ai rigori dalla squadra allenata da Terry Venables.

Siviglia, 7 maggio 1986, "Estadio Ramón Sánchez Pizjuán".


Dei 60000 presenti quella sera a Siviglia, in pochi potevano presagire che avrebbero assistito ad una serata storica, forse nemmeno i tifosi della Steaua. I ragazzi di Jenei mettono in atto l'unica strategia, data la disparità teorica delle forze in campo, consentita: difesa ordinata e contragolpe.
A comandare la difesa della Steaua Bucarest c'è Miodrag Belodedici difensore enfant-prodige della sua generazione. Nato a Socol nel 1964, di origini jugoslave (nella sua regione d'origine si parla slavo e rumeno indifferentemente, una sorta di Trentino Alto Adige nell'ovest della Romania) e tifosissimo della Stella Rossa di Belgrado, fuggì contro l'opinione del regime verso la sua squadra del cuore alla fine della stagione 1987-1988. Ceauşescu e compagnia non la presero benissimo e, in maniera sobria e legale, entrarono in possesso del contratto appena firmato e lo occultarono sapientemente. Morale della favola: Belodedici dovette stare fermo un anno e riuscì ad accasarsi alla Stella Rossa solo l'anno seguente. Si rifece con gli interessi nella finale di Bari contro l'Olympique Marsiglia del 1991, tirando anche uno dei rigori che permisero di portare la Coppa dei Campioni fino a Belgrado.
Miodrag comandò la difesa nel miglior modo possibile e la Steaua riuscì a portare il superfavorito Barcellona fino ai calci di rigore. C'è anche da dire che il rapporto tra blaugrana e i tiri dal dischetto, durante quell'edizione della Coppa dei Campioni, era diventato una stupenda luna di miele che aveva portato all'eliminazione di Porto e IFK Göteborg (questi ultimi con uno dei rigori decisivi segnato dal portiere Urruti).
A questo punto deve entrare in gioco il factotum che dà il nome a questo spossante post: Helmuth Duckadam.


Helmtuh indossa una maglia verde, bardata su spalle e maniche con le tre righe bianche dello sponsor tecnico e gioca in porta. Anche i pantaloncini sono verdi, lucidi e in poliestere. Tipicamente anni '80. Helmuth ha i baffi folti e castani come i suoi capelli ed è un bel marcantonio dall'alto del suo metro e 90 centimetri. Ha nella reattività la sua dote di spicco e, quando si arriva ai calci di rigore, decide che quella sarà la sua serata.
L'arbitro Michel Vautrot lancia la monetina e stabilisce che ad iniziare saranno proprio i rumeni, che per l'occasione inodssano la maglia bianca da trasferta. Sul dischetto si presenta l'onesto Mihail Majearu che però si fa intercettare il tiro da Urruti. Lo stadio è una bolgia e già pregusta una facile vittoria dei blaugrana che mandano a tirare il capitano José Ramón Alexanko. Destro a mezz'altezza incrociato, alla destra di Helmut che intuisce e respinge con naturalezza. Tutto da rifare. Il secondo tiratore scelto della Steaua è il dentista László Bölöni che si avvicina al dischetto con una paura fottuta negli occhi. Tira di sinistro, aprendo il piattone. Ma Urruti intuisce e evita il gol. Il "Sánchez Pizjuán" esplode nuovamente e i vessilli barcelonisti sembrano voler straripare dagli spalti. Ángel Pedraza non si scompone e, dopo aver posizionato il pallone sul disco bianco, parte per scaricare il suo destro. Il rigore sarebbe perfetto, un altro destro incrociato che si sarebbe incastonato nella porzione di rete situata tra il palo e il paletto di sostegno della porta ("Tra palo e paletto, rigore perfetto" diceva Michele Padovano) ma Pedraza non ha fatto i conti con Duckadam: felino, il nostro, compie un intervento ai limiti dell'incoerenza fisica e devìa il pallone fuori dallo specchio della porta. Tifosi spagnoli di nuovo in silenzio e il futuro viola Marius Lăcătuș si presenta al cospetto della porta stregata con un'idea vincente: tirare la botta. Siluro centrale che sbatte sulla traversa ed entra in porta. 1-0 Steaua e più di un tifoso catalano comincia a pensare che potrebbe non essere la serata giusta per portare a casa il trofeo. Ora la pressione si sposta su Pichi Alonso, entrato nel secondo tempo supplementare proprio nell'evenienza di una conclusione di partita dal dischetto. Duckadam gli legge nella mente: l'attaccante iberico infatti pensa che è impossibile che il portiere si tuffi di nuovo sulla sua destra e calcia, anche lui ad incrociare, proprio lì. Ma Helmuth, che è partito per quell'angolo molto prima rispetto ai canoni standard di un portiere che si rispetti, vola e para. Jenei non crede ai suoi occhi, mentre il quarto rigorista Gavril Pelé Balint ha l'animo più sereno sapendo di potersi permettere anche un errore. Così non sarà perchè Balint, nonostante il rumore infernale delle trombette spagnole (la cosa più simile alle vuvuzelas che esista nel vecchio continente), spiazza facile facile Urruti e costruisce il primo match-ball per i rumeni. Marcos Alonso non è tranquillo e, nel tragitto dal cerchio di centrocampo all'area di rigore, pensa a che delusione sarebbe per la sua gente perdere la coppa proprio sul terreno spagnolo. Ma Marcos Alonso non è un tipo che sa reggere certe pressioni e tira un rigorino molliccio sulla sinistra dell'eroe di Siviglia che para anche quello. Impazzisce di gioia la Steaua Bucarest, se la piglia in saccoccia il Barcellona. Coppa in Romania e storia finita.


Storia finita? Nemmeno per sogno.
L'idea di scrivere questo lunghissimo post è nata da un racconto di cui sono venuto a conoscenza tempo addietro.
In quel 1986 Juan Carlos di Borbone, re di Spagna, promise in regalo una Mercedes al miglior giocatore della finale. Forse era troppo sicuro che la macchina sarebbe rimasta in Spagna, ma non potè rimangiarsi la parola data e consegnò la vettura all'atleta più meritevole di tutti: Helmuth Duckadam, ovviamente. Ma tornati in Romania il regime di Ceauşescu decise di confiscare la macchina in nome del "popolo" rumeno. Duckadam oppose il suo più netto rifiuto.
Nello stesso periodo Sir Alex Ferguson stava incominciando a gettare le basi per il suo progetto United e, dopo averlo visto all'opera durante quella Coppa dei Campioni, chiese espressamente alla sua dirigenza di ingaggiare Duckadam. Helmuth, evidentemente, non disdegnava l'idea. Ho già spiegato, un centinaio di righe or sono, sia che il figlio adottivo di Ceauşescu, Valentin, aveva molto molto molto a cuore le vicende della Steaua e che gli atleti rumeni non avevano la possibilità di trasferirsi all'estero.
Ora fate finta di essere davanti ad un bivio, anzi ad una storia a bivi: secondo voi come sarà mai andata a finire?
Ci sono due versioni: una ufficiale ed una ufficiosa. Ma sia ben chiaro che io non sostengo nè l'una nè l'altra (nonostante mi ritrovi pienamente nella definizione di complottista) perchè da sempre "i nostri uomini ti vedono". In questo caso quelli della Securitate rumena.


Versione ufficiale: proprio nel 1986 a Helmut viene diagnosticata una trombosi arteriosa alla mano destra a causa di un grumo di sangue spostatosi dal braccio alla mano. Carriera finita e nessuna possibilità di confermare il titolo di Calciatore rumeno dell'anno appena conquistato.
Versione ufficiosa: lo sgarbo per il rifiuto di consegnare la Mercedes sommato alla voglia di trasferirsi alla corte di Ferguson, fecero sì che qualche scagnozzo di Valentin Ceauşescu ponesse fine alla carriera del portiere della Steaua Bucarest utilizzando un bastone o un fucile a seconda di chi racconta questa storia.

Come ho precisato sopra io non so a cosa credere, anche se le ferme smentite di Helmut a proposito della seconda versione e la sua permanenza nei confini rumeni fino alla prima metà degli anni 2000 mi fanno pensare...


ARRIVATO PRIMO: BACI TENNI



Il titolo del post corrisponde al telegramma che Tommaso Omobono Tenni era solito mandare a casa al termine di ogni vittoria. Poche parole che ben descrivevano il motociclista nato a Sondrio ma trevigiano di adozione, un uomo schivo e riservato, ma dannatamente veloce e furioso in pista, tant'è che venne ribattezzato THE BLACK DEVIL.
Con la Moto Guzzi vinse caterve di gare e fu due volte Campione Europeo. Ciò che gli conferì maggior gloria fu però vincere il più famoso Gran Premio del suo tempo, ovvero quello dell'Isola di Man, primo non inglese a riuscire nell'impresa, dando -per dirla con mio padre- "mezza giornata" al secondo. 
Disgraziatamente morì in moto, a Berna, durante le prove ufficiali della corsa stessa.


Come si ricollega questo motociclista agli 11IS?
Per due motivi.
Il primo è che Omobono Tenni potrebbe tranquillamente essere ricordato come uno dei più grandi motocilcisti italiani di tutti i tempi, quando invece è un ILLUSTRE SCONOSCIUTO, propriamente detto, noto solo agli addetti ai lavori e alle popolazioni della Marca.
Il secondo è che lo stadio di Treviso è intitolato proprio a lui, ed io, sentendolo sempre chiamare così:"OMOBONOTENNI", nella mia infinita ignoranza ho sempre creduto che -per esclusione- TENNI fosse il cognome e OMOBONO il nome, e ho sempre pensato che i genitori avessero avuto una bella fantasia. 
Invece no, invece mi sbagliavo, il nome di battesimo era Tommaso ed il cognome OMOBONO TENNI, un altro bel nome che riempie la bocca come piace a noi.
 
Insomma, un campo di calcio (tra l'altro coinvolto nella porcheria del decreto AD SQUADRAM, voluto dai capestri leghisti), dedicato ad un uomo di motori. 
Curioso, no?

"Mi ritirerò solo quando avrò trovato uno più veloce di me".
(cit. Tommaso Omobono Tenni) 

L'ONORE E IL RISPETTO

Per ovvi motivi, mi ero imposto una sola regola nello scegliere gli argomenti di cui scrivere: evitare accuratamente l'Unione Calcio Sampdoria. Sostanzialmente per un motivo: ne sono un fervente sostenitore.
Come spesso mi accade, essendo portatore sano di una sindrome bipolare esagerata, ho deciso di andare contro questo diktat autoimposto.


È il due aprile del 2001 e la Sampdoria sta disputando il secondo campionato consecutivo in serie B dopo la truffaldina retrocessione della stagione 1999-2000. In panchina c'è Luigi Cagni e in campo c'è, per l'ultima stagione agonistica della sua storia, Attilio "Popeye" Lombardo. Si disputa il derby di ritorno contro l'altra squadra di Genova (quella fondata dagli inglesi per il gioco del cricket, per capirci) allora imbottita di tunisini e allenata dal professor "ad minchiam" Scoglio.
Morale della favola: il Doria perde 2-0 e Carparelli, un ex livoroso come le rock star fallite, sul finir della partita decide di sbeffeggiare i sampdoriani con un torello condito da "giochi da foca" sotto la gradinata nord (per chi non fosse avvezzo alla geografia di "Marassi" in nord ci vanno quelli là). In quella Sampdoria militava un roccioso mestierante della difesa che aveva tirato i primi calci da pro nel Bologna e nel Milan: Martino Traversa. Il buon Martino, come si può notare al minuto 1:55 del video che riporto, non accettò di buon grado il comportamento di Carparelli.



"Scorretto io? Carparelli deve crescere, nella vita ci sta di vincere e di perdere, ma essere presi per il culo (testuale) no."
Martino Traversa



LE GOD


Stadio The Dell, città di Southampton, Inghilterra del Sud, 19 Maggio 2001.
È l'ultima partita di quello che è stato definito il più brasiliano dei giocatori inglesi ed è l'ultima volta del
The Dell.


Va in scena Southampton - Arsenal, Santi contro Cannonieri.
Matthew Le Tissier concluderà la propria carriera al termine del campionato e il
Dell verrà sostituito da un nuovo e maestoso impianto: il St. Mary Stadium, 33.000 posti contro i soli 15.000 scarsi della vecchia dimora dei Saints.
Finisce un'epoca. Anzi, ne finiscono due.
Abbandona un calciatore dal talento cristallino, interprete di un calcio che scompare, un calcio per il quale non c'è più posto nella nuova Premier League che avanza. Tattica, velocità e corsa; in una parola: conformità. Non c'è più spazio per la tecnica sciolta, per la libertà di espressione e per la fantasia. Spariscono i calciatori-liberi pensatori. È destino che l'uniformità ingabbi la poesia.

L'Arsenal è il nuovo, è l'espressione di un calcio innovativo, moderno (per quel che può significare), brillante ed europeo (sempre per quello che può significare) e chiarendo fin da subito che forse non c'è più spazio per le favole, al 28' Ashley Cole, terzino dei Gunners e promettente mercenario, firma l'uno a zero per i londinesi.
Nonostante al 46' Kachloul pareggi i conti per i Saints, è il punk omosessuale svedese, quello che sembra uscito da Camden Town a certificare che Babbo Natale è morto e sepolto da un bel po', che Cristo non è morto dal freddo, ecc, e a segnare il gol del due a uno per l'Arsenal al 54'.
Tuttavia è l'ultima partita al The Dell, a Milton Road i tifosi non verranno più se non per sbaglio o nostalgia, e i giocatori lo sanno, non possono deludere i propri tifosi. Se vincere è difficile, pareggiare in casa, in un clima così, non lo è.
61', sette minuti dopo il vantaggio ospite è di nuovo il centrocampista marocchino del Southampton a rimettere in pari la conta dei gol: 2 a 2, e fondamentalmente potrebbe anche andare bene così. Non è un happy ending, ma è pur sempre qualcosa in più di una bittersweet symphony, se si considera che la sorte, o dovremmo dire, il cervellone elettronico della F.A. ha messo contro ai Saints, in una partita così delicata per i deboli di cuore e i ricchi di sentimenti, una corazzata come l'Arsenal.

C'è che spesso vincono i buoni, e diciamocelo, ci siamo anche un po' rotti il cazzo che succeda.
O forse, diversamente, è una finzione che si vede solo al cinema, per cui diventa difficile credere che possa succedere anche nella realtà e preferiamo non illuderci troppo perché sappiamo che la disillusione è la condizione meno peggiore cui possiamo aspirare, dal vero.

89', un minuto dalla fine della partita e un minuto dall'interruzione di sogni, favole e amarcord vari da raccontare ai nipotini di quando si andava al The Dell per vedere i Saints di Le Tissier.
Le God, il numero 7 del Southampton, con una volée che solo un fuoriclasse avrebbe anche solo potuto lontanamente pensare in una partita così, ormai pareggiata per pareggiata, da festeggiare magari non con tarallucci and vino ma con fish & chips forse sì, regala il 3 a 2 ai suoi.
Matt era partito dalla panchina, giocava l'Arsenal e non si poteva chiedere ad un fantasista la corsa, la disciplina tattica, insomma, tutte quelle cazzate di protocollo da rispettare nei confronti della moderna interpretazione del calcio esibita dal club capitolino. E poi s'era anche un po' irrobustito negli ultimi tempi.
Già, si poteva ricorrere ai suoi servigi solo in casi eccezionali. Magari gli si potevano concedere alcuni minuti di gloria al termine della partita, del resto lui era stato la bandiera del Southampton, come non farlo? Nel caso la partita fosse andata male poteva entrare, e nella migliore delle ipotesi il suo ingresso avrebbe portato al pareggio. Oppure si poteva provare a mandarlo in campo sul 2 a 2, a pochi minuti dalla fine, nel caso fosse mai capitato. Del resto un 2-2 casalingo è pur sempre un over notevole, difficilissimo da prevedere.

Matt Le Tissier, classe '68, originario delle isole di Guernsey, per la particolarità governativa delle stesse (un Bailato autonomo facente capo alla corona inglese), poté scegliere per quale delle quattro nazionali britanniche giocare.
Scelse i Leoni, scelse l'Inghilterra. Chi lo può dire cosa sarebbe successo se ne avesse scelta un'altra? Sta di fatto che la sua decisione non fu azzeccata. Quando l'Inghilterra venne battuta uno a zero dall'Italia a Wembley, Matt fu considerato il capro espiatorio della sconfitta, e mandato fuori dal giro della Nazionale. Le God non fece altro che rinnovare la propria fedeltà ai Saints, a quelli che erano sempre stati i suoi unici colori, sempre bianco e sempre rosso, ma rappresentativi di una città e non di una nazione.

Strana storia, la sua.
Poter scegliere a quale nazione appartenere e sbagliarla.
Capitare casualmente in una città e venirne adottato, fin anche a rappresentarla e diventarne l'idolo incontrastato di generazioni e generazioni e così sia.

Sedici anni nella file del Southampton, più di 200 reti tra campionati e coppe. 54 rigori segnati su 55 tirati: un record, anzi, il record assoluto.
Un gol, decisivo solo per concludere una favola che altrimenti nessuno avrebbe mai raccontato perché ogni opera di fantasia deve comunque essere verosimile, più importante degli altri.
Forse non è il suo gol più bello e neppure il più cruciale, nonostante si tratti pur sempre di un tiro in controbalzo, di sinistro, pur sempre nel sette, allo scadere del tempo. Di sicuro è il più favoloso, per ogni ragione il migliore.


Potrei far su baracca e burattini e salutarvi, raccomandandovi di risintonizzarvi presto su questi teleschermi, ma non lo farò, e vi tedierò con uno di quei dibattiti surreali e inutili che non fanno più nemmeno al Circolo Arci di Sozzigalli.

Io e il mio vicino di casa, che in questa sede chiameremo Ridge Forrester per la folta capigliatura che lo ha accompagnato nei suoi migliori anni di Becca (strano che il Noto Scrittore Emiliano Emanuel Gavioli non abbia menzionato l'importanza di avere una fluente chioma tra le dieci regole essenziali per conquistare l'altra metà del cielo quando non piove), parliamo di calcio da quando respiriamo. E discuto spesso con Ridge circa il primato di un campionato su un altro.
Molto spesso il dibattito finisce che qualcuno dei due si spazientisce (nove volte su dieci si tratta del sottoscritto) e il Becca conclude con un secco:”Non posso parlare con chi vede il pallone triangolare!, modo sarcastico per dire che non capisco un cazzo.

Quello che mi fa veramente incarognire è che anche solo dieci anni fa nessuno nemmeno li cagava i campionati che ora sono di spicco, nessuno li conosceva. Quando io seguivo, per esempio, la Premier League (e ne sono testimonianza libri in lingua madre, libercoli comprati su e-bay a prezzi esorbitanti, pagine di giornali o riviste strappate qua e là) il mio vicino Ridge Forrester manco sapeva la differenza tra l'Arsenal, l'Athletic di Bilbao e l'Audax di Casinalbo, anzi, il fatto che iniziassero tutte con la A lo traeva in inganno e lo confondeva.

A pensarci bene, la mia generazione ha iniziato a rivolgere lo sguardo oltremanica in seguito ad alcune pubblicità della Nike o dell'Adidas, che mai come in quel tempo si dimostrarono lungimiranti, facendo leva sul sempre valido detto “l'erba del vicino è sempre più verde” e puntando su un diffuso sentimento di anglofilia.
Certo tutti ci ricordiamo dell'AU REVOIR di Eric Cantona (tra l'altro suggerito di recente pure sul gruppo Facebook degli 11IS), sbaglio?


Ora vi chiedo: ma Cantona era poi questo grandissimo calciatore?
Sicuramente si trattava di un campione capace di giocate straordinarie; questo è pacifico. Ma era paragonabile ai 7 che sarebbero passati anni più tardi dall'Old Trafford, che ne so, sparo: Cristiano Ronaldo? Io dico di no.
Però questi personaggi avevano un fortissimo fascino, (ci) sembravano alieni che però parlavano la nostra stessa lingua, ovvero quella del calcio, e che eravamo pertanto in grado di capire e recepire subito, senza sapere niente del campionato in cui, dello stadio nel quale, e della squadra per cui giocavano.
Fascino: niente di più, niente di meno.

Col tempo però questo concetto è stato ripetutamente travisato, e si sa, il tradimento è sterile (altrimenti non sarebbe tale) per cui ciò di cui si sente parlare adesso, quando ci si riferisce alla Premier League (o alla Liga) non è certo il “fascino” di cui sopra, ma qualcos'altro, qualcosa che sa di barocco, di enfatico, di esagerato.

Exempli Gratia.
Se il Chelsea perde contro la penultima in classifica si parla di fascino della Premier League mentre se lo fa il Milan significa che i rossoneri fanno schifo, la Serie A è una merda, gli stadi sono da rifare, le tifoserie sono oscene, ecc.
No, vi tolgo dal dubbio, non è così, semmai è il contrario.
Poi se volete parliamo di un livellamento verso il basso della Serie A, e quindi della conseguente facilità nell'incappare in risultati rocamboleschi, ma il CLAMOROSO AL CIBALI è tutta roba nostra, l'abbiamo inventato noi, è un trade mark italiano vecchio come il cucco. Altro che fascino del foresto, di quel che viene da via: bisogna saper discernere.
Il Chelsea perde contro la penultima in classifica perché Villas Boas, a parte il nome da Cocktail frignanese, non sembra avere niente di buono, e pare che per ora abbia avuto più fortuna che meriti.

Poi una cosa va detta, sottoscritta e confermata.
La Premier League è senz'altro il Campionato più imbottito di stelle e di, come va di moda dire adesso, Top Players (il fuoriclasse che, per inciso, è una parola strepitosa, non esiste più; un po' come non esiste più “la sorpresa” sostituita nelle notti di Champions dall'Underdog), ed è l'unica serie che fa sold out in ogni stadio in cui si gioca, qualsiasi giorno della settimana. Chapeau.

In “Tanto rumore per nulla” William Shakespeare ha scritto:”Solo questo posso riconoscerle di buono: che se fosse diversa da com'è non sarebbe bella, e che, essendo com'è, non mi piace.”
Credo proprio si riferisse della Premier League di adesso.

Quando ero al Liceo (circa quarantanove anni fa) un mio amico calciofilo sfoggiava con orgoglio una maglia del Liverpool quando io, a parte i Beatles, non riconducevo al nome della città nient'altro. Ora invece tutti sanno cos'è la Kop, chi sono gli Scousers, cos'è Anfield.
Peccato però che quando tutti sanno tutto di tutto è come dire che nessuno sa niente di niente.
Ma è bello così, è bello che il mio amico Ridge Forrester me la meni sugli stadi sempre pieni, è bello che mio padre e il suo vicino di casa si trovino la sera a guardare un'insulsa partita del Sunderland che gioca la Carling Cup che nessuno ha ancora capito cosa sia, è bellissimo che tutti possano dire di essere stati ad Upton Park (che ormai compare in tutte le guide turistiche di Londra prima di Trafalgar Square), è fantastico che esistano millemila siti italiani dedicati al calcio inglese che fanno deliberatamente il tifo per le squadre di Sua Maestà e se ne sbattono bellamente il cazzo delle nostre (che, non dico di tifare Inter o Napoli, ma una tra Milan, Juve, Samp, Udinese, Roma, Lazio, cazzo: sceglietela!)
Così com'è, tornando a Shakespeare, a me non piace, ma manc'o po' cazz'e.

Chiarisco, non sono qui a scrivere che rimpiango i banchi di fòrmica delle elementari, e lo so benissimo che tutto cambia e che niente -eccezion fatta per il chewing-gum di Cafu- è per sempre; dico solo che se ora Luis Suarez ed Evra non si danno la mano scoppia un polverone che finisce diretto sulle prime pagine dei giornali sportivi e sull'home di ogni sito di calcio che si rispetti, ed è nota a tutti, anche il gatto di Baranzone si fa una propria opinione in merito.

In compenso la storia di Matthew Le Tissier non la conosce nessuno.
Se c'è o c'è stato qualcuno in Premier League cui andrebbe fatto credito non solo di birre, ma anche culturale, è proprio questo omarino e sono quelli della sua stessa beata razza.
Non sono i Van Persie, i Dzeko, i Lampard, i Bale: questa è tutta gente con lode, laurea e fiocco: e proprio per questo motivo mi rimangono belli ma senz'anima, un po' come le modelle magre stenche che sfilano in passerella.

In un bellissimo libro che ho finito di leggere lo scorso autunno e che mi guardo bene dal citare perché lo sto deliberatamente derubando di parole, frasi e locuzioni varie, l'autore scrive:”Indomabili come solo certi amori sbagliati sanno essere”.
Ecco, e quando Noel Gallagher ha definito Balotelli il più grande essere umano vivente nonché l'unica rock star esistente (e tra l'altro, tanto per cambiare, un esule lumbard: roba nostra) ho avuto una sorta di folgorazione anche se non stavo andando a Damasco.
È vero. Purtroppo però è vero ma è uguale a zero. Aveva forse scelta? No, perché non c'è più nessuno in Premier League che si scosta dal branco, nessuno che sniffa la linea di fondo campo, nessun sbronzone che finisce in rehab, non ci sono più i portieri ciechi che danno palla agli altri, non ci sono più i Gazza ma, soprattutto, non c'è più nessun Matthew Le Tissier, un giocatore che, se fosse finito a Manchester sponda rossa sarebbe diventato un dioscuro del calcio, ma non aveva nessuna voglia di essere uno dei tanti devils quando era Le God a Southampton.
In Inghilterra non c'è quasi più nessuno di cui valga la pena parlare, nessuna storia da raccontare, non ci sono più fedi da vivere con passione, cuori da gettare oltre l'ostacolo del tifo senza alcuna possibilità di andarseli a ripigliare. Non ci sono più amori indomabili.
E se viene a calare tutto questo, è come se venisse a mancare una sola cosa: il fascino, lo stesso di cui ho tanto sbabbelato qualche riga sopra.

Pochi anni fa io e alcuni cari amici siamo entrati in un pub di Liverpool con la sciarpa del Milan al collo. Dopo aver offerto un giro a tutti i presenti giusto per mettere in un angolo una o due cose per cui ci si sarebbe potuti accapigliare, uno di loro mi chiede:”Siete del Milan, avete San Siro, cosa venite a cercare qui?”
È che una volta, prima che svendeste fascino e tradizione ad americani, sceicchi e compagnie aeree, avevate delle favole meravigliose da raccontare, my friend.


Il PIZZINO DI RIVELINO

Durante le lezioni di letteratura uno dei miei compagni di Liceo mi passava autentici pizzini ante-litteram in cui mi descriveva a sommi capi giocatori la cui memoria sembrava persa. Uno di questi era proprio Rivelino.


Durante una rimpatriata gli ho chiesto se ricordasse di quest'abitudine e se si ricordasse del brasiliano. "Se mi ricordo della sua punizione contro la Cecoslovacchia? Certo, anche perché è stata l'unica punizione così veloce che anche la CIA ha comprovato che la palla è sparita al momento della battuta ed è ricomparsa in fondo alla rete".


Se volete rivederla da un altra angolazione schiacciate QUI e portate il cursore a 1'24'', ma state attenti, a 1'25'' la palla, in meno di un secondo, è in porta. Saranno 25 metri: fate voi la proporzione in km/h, ma credo sia contrario alle leggi della fisica.

DIZIONARIO SEMISERIO DI GIOCATORI CHE MI SONO RIMASTI IN TESTA SENZA UN MOTIVO APPARENTE

Aloisi John: a mia memoria fu il primo "socceroo" a calcare i campi del massimo campionato italiano. Venne acquistato e presentato in pompa magna dalla Cremonese di Gigi Simoni nel novembre del 1995: si rivelò un bel mago ma un vergognoso bluff. Di lui resta il record (poi eguagliato da Ernesto Javier Chevanton) del gol più veloce di uno straniero in serie A.
Beiesdorfer Dietmar: meteora di passaggio alla Reggiana, nome impronunciabile, fascino teutonico, cognome farmaceutico. Nella mia memoria turbinava vago il ricordo di aver letto la sua triste storia: infortunatosi al ginocchio i medici che lo avevano in cura gli diagnosticarono un male incurabile. Pensavo fosse morto, invece si trattava di una buffonata del mio cervello e l'impronunciabile Dietmar sta bene e lavora nel direttivo dell'Amburgo, squadra tedesca di prima divisione.
Cossato Michele: un eroe del periodo veronese di inizio millennio. Segnò il gol decisivo nelle spareggio salvezza contro la Reggina nella stagione 2001-02. In quel Verona c'era anche Oddo. Immaginatevi che festa.
Dieng Oumar: difensore coloured francese che arrivò alla Sampdoria nel 1996 e subito diventò mio idolo personale. Giocatore grande e grosso che però aveva due difettucci: non riusciva a colpire bene il pallone e a marcare correttamente il suo avversario diretto. Ma era uno che si impegnava. Mi è rimasto impresso un gol subito dalla Sampdoria in cui il mio eroe del momento, completamente solo, sbaglia il tempo del colpo di testa e manda in porta un giocatore avversario basta sia. Nella stessa sessione estiva il Parma comprò un difensore francese di nome Lilian Thuram. Qualcosa era andato storto.
Emerson Ferreira da Rosa: centrocampista totale, dalla forza fisica e dall'intelligenza incredibili ma, soprattutto, dalla dignità infinita. Nel 2004 passò, insieme a Fabio "mai e poi mai allenerò la Juventus" Capello, dalla Roma alla Juve adducendo come motivazione il fatto che stava cadendo in depressione. Torino, infatti, è unanimemente nota come città solare e anti-depressione. Vinse il premio "Cretino dell'anno 2002" per essersi rotto la spalla durante un allenamento con la sua nazionale nel mondiale, poi vinto dal Brasile, di Corea e Giappone. Voleva dimostrare di essere un fenomeno anche tra i pali.
Frick Mario: arrivò dal Lichtestein e non era un banchiere. Con le sue reti esaltò Terni, Verona e Siena. LA VIE C'EST FANTASTIQUE QUANDO SEGNA MARIO FRICK.
Goycochea Sergio: portiere dell'Argentina durante i mondiali di Italia '90, fu il primo giocatore che maledissi con una cognizione di causa e cattiveria inaudita. Con quella divisa da clown fece piangere l'Italia tutta (o quasi).
Hendry Colin: scozzese, faceva parte del mitico Blackburn di Shearer e Sutton che vinse la Premier nel 1995. Aspetto da "Rosso Malpelo", interventi ai limiti del codice penale e dimenticanze clamorose, ricordo, e non so perchè, una sua doppietta in maglia scozzese contro San Marino. In foto veniva sempre male.
Inzaghi Simone: una sera dell'estate 2005 a Milano Marittima (dopo i sei mesi vergognosi giocati con la Sampdoria) incontrò una delegazione del Frignano '74 (squadra nella quale ho militato) e mi colpirono i suoi occhi vitrei. Dopo che lo ebbi insultato pesantemente "Hai rubato lo stipendo eh, bidone?", venne messo a terra da "Giana" Gianelli perchè, a suo dire, stava litigando con un altro compagno del Frignano, Denny. Finì tutto a tarallucci e cuba libre.
Jardel Mário Almeida Ribeiro: bomber del Porto di fine anni '90, arriva all'Ancona nella stagione 2004-05 e viene accolto come il salvatore della patria. Il problema che più che un salvatore aveva le movenze di un salvagente. O di una camera ad aria. Clamorosamente sovrappeso, si intascò gli spicci di Pieroni e se ne andò a concludere la sua carriera in Sud America.
Kallaste Risto: terzino estone di scuola classica, con una coordinazione infinita.
Lineker Gary: senza timore di smentita posso affermare che è stato il miglior centravanti inglese di sempre. Di lui ricorderò l'aforisma "Il calcio è uno sport semplice: si gioca in undici contro undici ed alla fine vincono i tedeschi", le caterve di gol segnate col Tottenham, la Coppa delle Coppe che vinse con la maglia del Barcellona contro la Sampdoria nel 1989 e che durante i mondiali del 1990 se la fece addosso in campo. E non mi riferisco alla pipì.
Marulanda: storico difensore sudamericano con il vizio di Riccardo Ferri e il dono dell'ubiquità.
Napoleoni Stefano: per le serie "italiani popolo di emigranti", romano, classe 1986, gioca nella serie B greca con il Levadiakos. Si dice che venne scoperto da Zibì Boniek nel 2006 mentre giocava nel Tor di Quinto, squadra della periferia romana, che lo ingaggiò nella squadra polacca di cui allora era dirigente: il Widzew Lódz. Da lì passò in Grecia nel 2009. Se ve lo state chiedendo, sappiate che la serie B greca esiste davvero.
Osmanovski Yksel: simpatico apripista dei bomber zingari provenienti dalla Svezia, formò nel Bari di Eugenio "Fascio" Fascetti una strana ma prolifica coppia gol col sudafricano Philemon Masinga. Da ricordare, oltre alle difficoltà che incontrava Franco Strippoli nel pronunciare il suo nome a '90° minuto', una doppietta a San Siro contro il Milan. Strepitoso gol in pallonetto e cuore di ghiaccio nello sfruttare uno dei tanti svarioni del "butteratissimo" Ziege.
Provitali-Caruso: coppia d'attacco storica del Modena (anche se Caruso era più una mezza punta ad essere onesti). Storica poichè non erano solo compagni di reparto, ma anche di figurina. Per la serie B, infatti, i giocatori ritratti in una singola figurina erano due. Provitali-Caruso nell'annata 1992-93, me li ricordo ovunque. Dio mio, persino due nello stesso pacchetto! Anche se non belli me li immaginavo almeno simpatici, pronti alla battuta ecco.
Quaresma Ricardo Andrade Bernardo: per la serie "All'improvviso uno sconosciuto", una calda estate di 5 anni addietro l'Inter acquista dal Porto una trivella da 25 milioni di euro. Peccato che l'unica cosa che forò furono le palle dei suoi tifosi. A fare i "boni" in Turchia son bravi tutti. Guardate Felipe Melo...
Riquelme Juan Romàn: in Argentina hanno lo strano vizio, da quando El Pibe de Oro ha appeso gli scarpini al chiodo, di definire qualsiasi giocatore che assomigli vagamente ad un numero dieci "Il nuovo Maradona". Anche Riquelme non sfuggì al paragone leggermente ingombrante, ma sta concludendo una bella carriera nella quale si è anche messo alla prova col il calcio europeo. Dimostrando di avere il sangue freddo nei momenti che contano.
Salenko Oleg: semi-sconosciuto centravanti russo vinse (e credo sia l'unico caso nella storia del calcio) il titolo di capocannoniere ai mondiali di calcio pur venendo eliminato al primo turno. Era il mondiale americano e, dopo un gol su rigore alla Svezia, segnò 5 reti contro il Camerun. La partita finì 6-1 e per i leoni indomabili segnò Roger Milla, il realizzatore più anziano in una fase finale della Coppa del Mondo.
Tøfting Stig: le apparenze spesso ingannano, ma in questo caso no. Dietro al look da galeotto e il fisico da picchiatore di professione, c'è un ex galeotto e un picchiatore di professione. Nel tempo libero era un centrocampista di rottura. Inoltre, caso più unico che raro, rifiutò, dopo essere stato regolarmente eletto, la carica di sindaco della sua cittadina perchè, alla fine della fiera, non gliene importava un granché.
Ungari Luca: uno dei protagonisti (?) della cavalcata che portò il Modena dalla C-1 alla serie A, difensore arcigno che venne definito da più parti "scarso come il peccato". Dicono che fosse, però, molto gentile ed educato fuori dal campo.
Valderrama Carlos Alberto: con quella criniera leonina ha stregato il Sud America e anche il sottoscritto. In molti parlarono di lui, ma la frase che lo rappresenta di più la sentii al mare durante i mondiali americani del 1994. Romania-Colombia si disputava ad un orario improponibile e nella sala tv dell'albergo c'erano poche persone a gustarsi quello spettacolo. Un signore seduto non distante da me e dal mio vecchio, dopo l'ennesimo pallone perso da Valderrama sentenziò: "Quello lì è una moviola pettinata da battona!". Io lo difenderò sempre, anche perchè Matias Cornia mi raccontò che tirava i rigori senza alcun passo di rincorsa. Sarà vero?
Wörns Christian: classico centrale difensivo di scuola teutonica, grande, grosso e dallo sguardo poco raccomandabile. Partecipò con la nazionale tedesca alle fallimentari spedizioni del mondiale '98 in Francia (espulso nei quarti di finali persi 3-0 contro la Croazia) e dell'europeo del 2004 (Germania fuori al primo turno). La Gialappa's Band, durante le radiocronache di quel mondiale, tradusse il suo cognome in "vomito molto caldo" e questa cosa mi fece molto ridere.
Xavier Abel Luís da Silva Costa: terzino portoghese dal gusto trash per le acconciature, approdò a Bari nel 1995 e venne silurato otto partite dopo. Peregrinò in lungo e in largo per l'Europa senza mai rinunciare al suo marchio di fabbrica: i capelli da trattamento sanitario obbligatorio. Giocò da titolare gli Europei del 2000 e causò, con un fallo su Zinedine Zidane, il rigore che decise la semifinale Francia-Portogallo. Protestò come se non ci fosse un domani e, credo anche a causa del suo aspetto, si beccò 9 mesi di squalifica.
Yorke Dwight Eversley: protagonista nel Manchester United del "treble" di fine secolo scorso, formava con Andy Cole una straordinaria coppia d'attacco sia dentro che fuori dal campo. I "Calipso Boys" regalarono magie e, si narra, portavano il loro buon umore ad ogni festa per scambisti che si rispettasse.
Zoro Marc: durante un Messina-Inter, sfinito dagli insulti razzisti, prese il pallone in mano e, proprio come si farebbe in un qualsiasi campetto di asilo o scuola elementare, decise che "Il pallone è mio e adesso smettiamo di giocare". Una scena pateticamente perfetta.
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