QUESTIONE DI SOPRANNOMI

Tre sono i requisiti che occorre soddisfare, in pieno o almeno in buona parte, affinché un giocatore diventi memorabile, o che, se non altro, lo diventi almeno per me.

Punto primo. Occorre che sia stato un guascone dal piede scanzonato, dalla chioma folta e mescalera, e dalla lingua lunga, quella lingua che taglia, cuce e fa l'orlo a giorno. 
Punto secondo. È importante che sia stato un Signor giocatore o, per dirla con Righe Sacchi:"Un calciatore", nella vera accezione del termine, ossia quella che rende implicito qualsiasi altro aggettivo di enlarge-your-penis della capacità pedatoria. Il giocatore gioca a pallone; il calciatore ne è artefice, un demiurgo del gioco. Pressapoco è la stessa differenza che corre tra chi viene chiamato a fare numero per la partitella del torneo aziendale del giovedì, e chi non ti puoi dimenticare di invitare al tuo matrimonio. 
Punto terzo. Il Nostro deve avere un nome ed un cognome la cui pronuncia riempia la bocca del cronista di turno e degli spettatori tutti. Se poi il cognome è un insolito composto di due termini, siamo a dama.


"Quando giocavo a calcio dicevano che assomigliassi a Re Cecconi! Ma tu sei troppo giovane, non lo avrai mai visto. Non saprai nemmeno chi sia", mi diceva sempre il factotum di un azienda per cui ho lavorato anni fa, mentre, dopo aver finto una gomitata, mi faceva pagare la mossa al solo accenno di guardia che alzavo istintivamente. Al tempo non avevo inteso quale fosse la strampalata correlazione tra Luciano Re Cecconi e il-paga-la-mossa.
Ogni volta che me lo ripeteva era come se mi sentissi privato in partenza di un fondamentale passaggio della storia pallonara d'Italia, l'unica storia fatta tanto certa dagli annali, quanto rivedibile dalle opinioni di ogni bar del Belpaese Unito.
A mia discolpa avevo l'unica attenuante all'ignoranza: il tempo calcistico che non avevo visto o vissuto.
Luciano Re Cecconi era del '48 e avrebbe giocato i campionati di venti stagioni più tardi, e io negli anni di Piombo non ero nemmeno un progetto erotico di mio padre, che nemmeno conosceva mia madre e, quel che è peggio, girava conciato come Renato Vallanzasca (o forse era stato proprio il Bel René ad aver copiato mio padre); ma questa è un'altra storia.
Ad ogni buon modo mi ha sempre infastidito sentire i vecchi parlare di giocatori estranei al mio tempo: anche se li avessi conosciuti di fama o per sentito dire, rimaneva il fatto che non li avessi mai visti in manovra, mai maledetti da avversari, mai seguiti se beniamini della mia squadra, e non li avessi mai, infine, condonati e redenti quando bardati di azzurro savoia in un qualche spaventoso stadio straniero, indio, teutonico o sovietico.
Più intenso ancora diveniva il mio sentimento di privazione quando quei giocatori erano entrati nella Leggenda per aver combinato qualcosa di unico, di straordinario rispetto al calcio, qualcosa che solo lo spettatore che baratta la carriera di curvaiolo o la tessera arci del bar di paese con ogni momento di libera uscita da mogli, compagne e amiche, può capire e, soprattutto, sentire come suo.
Tutti gli altri possono o potranno farsela raccontare, o leggerla su Wikipedia.
Non è né sarà la stessa cosa.

Il factotum, un uomo sulla cinquantina di nome Pietro, era la risposta del settore alimentare di Castelvetro a Re Cecconi. Una risposta dalla cadenza marcatamente umbra sporcata da qualche inflessione (ahimè) bolognese, dalla pancetta da italiano ben più che medio e dalla calvizie galoppante. Per fisionomia un sosia solo un po' più alto di Carlo Verdone.
Comunque fosse: una risposta postuma, purtroppo.
Probabilmente gli amici che avevano avvistato in lui una parvenza di Re Cecconi o erano ciechi, o seguivano un altro sport, o addirittura altri pianeti di intrattenimento, e avrebbero potuto paragonarlo a chiunque: a Pelé, a Simon Templar, a Pippobaudo, un qualsiasi nome ricorrente del tempo.
Oppure erano stati incredibilmente lucidi, e avevano colto in Pietro quell'intramontabile voglia di restare il compagnone ridanciano e naif che era stato fin da bambino, capace di scherzare di ogni cosa e, di contro, lasciarsi travolgere dall'istinto per la più insulsa delle sciocchezze.
Proprio come il ragazzo di Nerviano che, tra un campionato vinto ed uno perso di niente, aveva fatto di una Roma violenta e intimorita dal buio il parco giochi personale suo e dei compagni di squadra, stessa cosa aveva fatto Pietro, trasformando un ambiente di lavoro frenetico, stressante e detestante, in un'oasi di divertimento cameratesco, dove i colleghi erano amici, sottoposti o responsabili che fossero.

La Lazio con cui vinse lo Scudetto del '74 era una combriccola di prime donne, spaccaspogliatoi di professione e instancabili portatori d'acqua, guidati da uno dei vecchi grandi condottieri del calcio italiano, Maestrelli.
Sì, perché non vinci un campionato a Roma a meno che tu non abbia undici amorevoli teste di cazzo che sanno tirare calci al pallone e hanno una vaga idea di a cosa servano le linee bianche sparse qua e là, che sappiano insomma sia cantare che portare la croce (e non propriamente in quest'ordine).
Gente irrequieta ma di buon cuore, insomma: dura ma spensierata.

Mai soprannome fu più azzeccato per lui, il fu-carrozzaio di Nevriano, l'italo-svevo del pallone: Cecconetzer, gioco di parole che richiamava il cognome del centrocampista italiano e quello del crucco Gunther Netzer, un unno che ricordava Luciano non solo per i capelli biondo-ariani, ma anche per la fisionomia rude e coriacea, e per i modi ostinati e grintosi.
Telaio tedesco e improvvisazione italiana, se così si può dire (un po' "quel paga la mossa" di cui sopra, ti tiro un pugno e nel frattempo ti faccio ridere: ok, grazie!)

Una volta ho letto da qualche parte che gli stolti s'affrettano ad arrivare laddove nemmeno gli angeli oserebbero mettere piede. E purtroppo Luciano degli angeli aveva solo i capelli.
Cecco quel giorno dimenticò d'essere Netzer, si spogliò della corazza di mediano vecchio stampo e sbagliò indirizzo per manifesta spensieratezza, per ingenua spacconeria, e invece che riparare -per l'ennesima volta nella sua carriera di guascone- nel paradisiaco mondo dei casini schivati, si ritrovò freddato dal gioielliere Tabocchini.
"Datemi tutto, questa è una rapina!", aveva esordito una volta dentro la gioielleria, convinto che il commerciante, come tanti che prima di lui erano stati allo stesso modo scherzati da Luciano e compagni, s'accorgesse dell'enorme burla, e passasse dall'improvviso spavento per aver visto un uomo camuffato, alla sonora risata dopo aver riconosciuto dietro al bavero alzato il noto centrocampista laziale.
Re Cecconi e i suoi avevano però scelto l'uomo, il posto e il momento sbagliati.
Tabocchini non seguiva il calcio, forse l'unico romano mai esistito a poterlo dire, ed era già stato rapinato altre volte e chissà, forse come tanti altri commercianti lavorava con addosso quel terrore che non aveva mai toccato minimamente il biondo Luciano, troppo occupato a far della sua vita capitolina un'enorme gioco di quartiere.

Una storia incredibile, di quelle che varrebbe la pena ricordare e tramandare, così da rispondere con un solerte: "invece so chi è!" alla provocazione del factotum di Castelvetro circa l'ignoranza in materia. Ma questi racconti sono file troppo pesanti per essere scaricati, salvati e passati, e l'amore per il lieto fine e l'obbligo di chiosare con morali cinematografiche americane ci ha imposto di tacere le avventure rovinose in cui i buoni non vincono e, quel che è peggio, dei cattivi non viene accertata la colpa.

In uno dei suoi libri Paolo Sorrentino ha scritto:"Perché questo è il gioco. Bisogna comprendere gli altri anche nel momento in cui ti stanno uccidendo. Senza mai sottovalutare la forza sbilenca dell'ironia."
Come paragone ci siamo, una forza fin troppo sbilenca se vogliamo, tale da rivoltarsi e tornare indietro, ma il senso rimane. Il libro si intitola, e senza volerlo calza a pennello, "Hanno tutti ragione", bellamente in barba, come se ce ne fosse bisogno, al concetto di happy ending di cui sopra.

Re Cecconi aveva trasformato inusuali cavalcate-scudetto biancocelesti in partitelle scapoli-ammogliati da dopolavoro, ossia classiche sfide alla morte in cui sfoderare gomitate a oltranza e a oltraggio di ogni avversario, per poi uscirci assieme, riderne e scherzarne. E aveva reso Roma la sua Nevriano, la sua piccola città di provincia dove essere qualcuno senza essere nessuno in particolare se non un Ariano trapiantato all'Olimpico, e nessuno pur essendo qualcuno, perché uno qualunque, uno da bar, diffidato dalla moglie.
Un tipo di calcio così, oggi, farebbe notizia.
Forse gli amici di Pietro il factotum non erano ciechi, anzi: mai e poi mai avrebbero avuto di nuovo un occhio così lucido, critico e lungimirante.
Finte e alzate di gomito, rimbrotti e sorrisi generosi distribuiti in equamente fanno uguale notizia in un mondo del lavoro, come quello odierno, dove tutto è pianificato, rigido, dove perfino una strigliata arriva al mittente dall'ufficio accanto tramite una mail informale e asettica contornata da distinti saluti.

Di mille partitelle che ho giocato, ho conosciuto scapoli, ammogliati, ubriaconi fenomeni, ubriaconi e basta, mezzeseghe, promesse mancate, promesse mantenute solo a metà, tutta gente dai soprannomi più bizzarri.

Tra i miei compagni ho l'onore di aver avuto: Fascianu, Baggio, Zanetti, nientemeno che Essien.
Posso dire di aver randellato Boban, Savicevic, Mazzola, addirittura Maradona. 
Purtroppo ho solo sentito parlare del Baresi di Formigine, del Crujiff di Reggio Emilia, del Lampard della Padania, del Cantona delle nebbie ferraresi.
Solo una volta ho conosciuto, e fuori da un rettangolo di gioco (perché era proprio lì che andava imparata la lezione), uno che fosse stato ribattezzato honoris causa e, per una volta, non a caso.
È stata l'unica volta in cui ci hanno preso. 

 
Era Pietro, il factotum di Castelvetro, quello che assomigliava a Re Cecconi nonostante non gli assomigliasse per niente.

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