OLTRE IL COMUNE SENTIRE: DUNCAN EDWARDS


DENNIS BERGKAMP - THE NON-FLYING DUTCHMAN

La faccio corta: io odio volare. 
Per cui ho cominciato a prestare attenzione ai disastri aerei e ai vari inconvenienti di cui parlano spesso i giornali e ho successivamente cercato di capire se fossi l'unico essere umano ad avere questa maledetta paura, scoprendo invece e/o facendomi tornare in mente che altri, addirittura personaggi più che celebri, sono o sono stati affetti dalla stessa patologia. 

Best goal ever?

Tra questi, tanto per restare in tema pallonaro, il fantasista olandese Dennis Bergkamp, famoso poiché in ogni suo contratto puntualizzava fin da subito che non avrebbe mai effettuato trasferte a bordo di aeroplani. Qualora avesse potuto, avrebbe raggiunto la destinazione della trasferta della propria squadra in automobile ma, se non fosse stato possibile perché di mezzo c'erano o troppa acqua o troppa terra, avrebbe privato il proprio club e l'Olanda della propria presenza, con buona pace dei suoi compagni. Ho cercato di capire le ragioni della sua paura e, indagando, ho scoperto che la causa scatenante era da attribuire ad un incredibile incidente aereo occorso a quelli che erano stati battezzati con il nome di Colourful 11, una compagine di promettenti calciatori del Suriname che giocavano nel campionato olandese, il cui aereo, nel riportarli nel proprio paese natio, si schiantò durante l'atterraggio. 

The Colourful 11

Questa notizia venne accolta in Olanda con grande sensibilità e fu forse questo il peccato originale da cui dipese la grave decisione di Dennis Bergkamp. Se a questo addizioniamo anche scherzi di cattivo gusto che gli giocarono alcuni compagni delle sue squadre dell'epoca, il quadro è completo. Tuttavia la sua carriera, per quanto sfavillante, non ha avuto picchi degni di essere romanzati, non ha avuto quel quid in più che mi invogliasse a parlare di lui, che mi spingesse a sceglierlo per un mio racconto. 
Decido pertanto di metterlo in stand by e proseguire la mia ricerca finché non mi imbatto in una voce interessante:Air disaster e clicco. 
Il Grande Toro, e ok. 

Colourful 11: appena visto. 
Disastro aereo delle Ande.
Da leggere qui

Infine, The Busby Babes e, come dicono nei paesi in cui parlano la lingua del Pardo Shakespeare: disclosure perché, fermi tutti, questa è roba grossa, qui si spalanca un mondo che aspetta solo d'esser narrato.


THE BUSBY BABES: ACCENNI

Occorre fare un passo indietro. 
Con il termine Busby Babes era stato ribattezzato un incredibile Manchester United che, dopo una serie di secondi posti e la conquista della FA Cup, era tornato alla vittoria in campionato dopo quarantuno stagioni, nel 1952, schierando giocatori la cui età media era di ventuno, ventidue anni. Semplici ragazzini, Babes appunto, cresciuti e allenati rispettivamente dai dioscuri Jimmy Murphy e Matt Busby. Proprio dal nome di quest'ultimo, quello cui più di altri spettava il merito di averli riportati sul trono di Inghilterra, erano stati rinominati così: Busby Babes, i ragazzini di Busby. Una covata di enfants prodiges che non solo s'era tornata a laureare campione nel '56 ma aveva bissato il titolo l'anno seguente, certificando così che non si trattava di una casualità peregrina ma di una fenomenologia di talenti dalle potenzialità inaudite, pronta a riscrivere ogni ipotesi dell'impossibile calcistico.

La cosa bella dell'indagare tra le pieghe di un calcio antico è che si trovano sempre e solo le stesse immagini, le uniche ad essere state scattate al tempo


I LOVE YOU ZEMAN

Procedendo con la mia indagine, e cercando di scoprirne di più sulla tragedia aerea di quel Manchester United, capito su un blog che catalizza il mio interesse, non tanto per come viene trattato il tema o per la qualità della penna virtuale, ma per il nome stesso del sito: I LOVE YOU ZEMAN
Realizzo che c'è qualcosa nell'aria, che i pianeti si stanno allineando perfettamente e che il sentiero da battere è quella giusto. Ma, soprattutto, se il disastro aereo occorso alla squadra di Busby stava avendo la mia curiosità, era uno di quei Babes che cominciava ad avere la mia più completa attenzione, vale a dire il calciatore con più classe dell'intera brigata, il genius loci di quello United: Duncan Edwards.

Uno di quegli omini che è meglio aver con anziché contro


DUNCAN EDWARDS – SO THE STORY BEGINS

Il mio professore di Chimica (che non era Walter White altrimenti ora sarei un tossicodipendente di Albuquerque) diceva sempre:”Parto da lontano ma arrivo al punto alla svelta”. Ebbene, lui lo faceva veramente mentre io non sono stato così di parola, ma, come dicono dalle mie parti “ci sono a tès”.
Duncan Edwards debutta in prima squadra a sedici anni e centoottantacinque giorni e, quattro dopo, quando vince quello che può essere considerato il suo primo titolo, è già da ritenersi un veterano. Nasce come centrocampista difensivo ma è dotato di una versatilità sorprendente, essendo in grado di interpretare diversi ruoli, a volte addirittura nel corso della stessa partita, alternandosi tra attaccante aggiunto e difensore centrale. Sì, avete capito bene, non mi sono sbagliato. 
Nonostante il fisico massiccio da interdittore puro, ha quello che i giornalisti inglesi definiscono un fantastic football brain, ossia un'intelligenza calcistica periscopica, la cui naturalezza ne fa l'indiscusso baricentro del gioco dei Babes. È ambidestro, gioca nello stretto con eleganza accademica, immediatamente dopo il primo tocco è in grado di lanciare il pallone in profondità esattamente dove dice lui; granitico nei contrasti a terra tra gli avversari di buona volontà e vigoroso nell'alto dei cieli, è altresì inarrestabile nella corsa e letale in area. Come se non bastasse tira sassate tali da esser soprannominato “Boom Boom” dalla stampa britannica “because of the Big Bertha in his boots”

Io passerei le mie giornate a vedere video di questo genere

Cosa gli manca? Niente. A Duncan Edwards non manca niente: avrebbe saputo anche fare i guanti alle mosche; se fa tanto di presentarsi con le scarpe allacciate non ce n' è per nessuno, le chiacchiere stanno a zero.

Una ciclica curiosità del calcio risiede nel fatto che ogni volta in cui non si riesce a specificare il ruolo di un giocatore lo si definisce “moderno”, e questo perché si è spinto oltre le collocazioni conosciute comunemente, è andato al di là dell'architettura calcistica ricorrente. 
Edwards è più del paradigma del giocatore moderno, né l'archetipo, l'iperuranica idea platonica, perché di calciatori come lui s'è perso lo stampo ma se ne è, contestualmente, alla continua ricerca.

Ascolto e visione consigliati: Blurred Lines - Robin Thicke ft T.I., Pharrell

A parte il fatto che questa canzone fa parte dei miei guilty pleasures, cosa c'entra? 
C'entra perché Duncan Edwards era l'iperuranica idea del calciatore moderno così come Emily Ratajkowski lo è ora della figa.

Per necessità di catalogazione, un tipo antropologico simile può essere identificato in alcuni centrocampisti di matrice o adozione britannica dei nostri tempi, che ne so: Steven Gerrard, Frankie Lampard o, più attualmente, Yaya Toure, 

Immagine meravigliosa, un'epicità che neanche in Holly e Benji quando c'è Julian Ross.

Anche se di ruolo diverso ma per stupefacente completezza si potrebbe pensare a Gareth Bale, ma siamo ancora lontani dal paragone secco; difettano di qualcosa, non saprei nemmeno dire io cosa. O molto più semplicemente, non sono abbastanza moderni, non sono Duncan Edwards: non fanno definizione da soli, per lo meno non ancora.

C'è stato un tempo in cui Gareth Bale era brutto come il peccato

Ma torniamo a noi. È significativo quanto dicono di lui i compagni e gli avversari del tempo. Per Bobby Charlton è stato:”The only player that made me feel inferior. I played with Moore, Best and Law, and against Pele... but Duncan Edwards was the greatest”

Una vita col riporto

Colpisce anche quanto sentenzia Stanley Matthews, primo e per molto tempo unico calciatore inglese ad aver vinto il Pallone d'Oro, uno su cui si dovrebbero aprire parentesi tonde, quadre, graffe e di altre forme non ancora precisate, che lo descrive come “a rock in a raging sea”

A pensarci bene ora le sigarette sono l'unica cosa per cui non si fa pubblicità

E questa è una definizione eccezionale sia perché spiega in poche parole le abilità fisiche e tecniche di Duncan Edwards, sia perché ne raccoglie ogni poesia e prosa umane da lui rappresentate. Edwards, il calciatore, è il centro emozionale della squadra: quando i compagni ne incrociano lo sguardo danno qualcosa di più, capiscono di doverlo fare, sanno di poterlo fare. 

Duncan, l'uomo, born and raised in the Black Country, una tetra area mineraria a ovest delle Midlands, una roba che più scura non c'è posto, è il marito che ogni padre di famiglia vorrebbe per la figlia. È riservato, ha interessi ordinari come giocare a carte, pescare, andare al cinema e ballare. È astemio e fidanzato con un'impiegata di un'industria tessile, conosciuta -perché nostro Signore, come vedremo, ha uno strano e contorto senso dell'ironia- all'aeroporto di Manchester. 
Soprattutto, però, è bello come dev'essere bello un eroe del tempo, scevro dalle brutture della guerra e latore di un messaggio di serena normalità che lo rende un fiore tra la caligine del Black Country e le macerie di una Manchester che cerca di tornare alla quotidianità dopo le sventure della guerra. È la dimostrazione, la prova provata che si può riprendere a vivere con spensieratezza: un faro, il baluardo di pace e sicurezza cui rivolgersi mentre tutto intorno è ancora scosso:“a rock in a raging sea”, appunto.

Diamo qualche coordinata geografica in più


NICE GOING

Il cielo di Duncan Edwars è lastricato di stelle, tutto sembra dirgli bene. A 18 anni viene convocato dalla Nazionale maggiore e, in poco tempo, ne diventa un giocatore chiave. Da fuoriclasse qual è parla la stessa lingua calcistica di compagni più navigati di lui e a soli 22 anni è già in predicato di indossare la fascia di Capitano dei Tre Leoni ai Campionati Mondiali del 1958. 
Nella foto che allego sotto compaiono lui, poco più che ventenne, il Pallone d'Oro Stanley Matthews e Capitan Billy Wright. Non è percepibile alcuna differenza di grado tra loro, è come se fossero tre amici di vecchia data che si stanno raccontando la settimana appena trascorsa. 

Patrimonio calcistico britannico

Sebbene chi scrive i testi della sua vita lo abbia preso in simpatia, ha previsto per lui un epilogo inaspettato. Oppure, in maniera molto più poetica ma di più difficile comprensione, ha deciso di render la sua storia un racconto incompiuto o, per meglio dire, una malinconica leggenda.

Cimelio di inestimabile valore

Il 5 Febbraio del 1958 i Busby Babes giocano la gara di ritorno dei quarti di finale dell'allora Coppa dei Campioni, a Belgrado contro la Stella Rossa. Il Manchester United, dopo aver sconfitto Shamrock Rovers e Dukla Praga, viene dalla vittoria per 2 a 1 all'Old Trafford contro i campioni jugoslavi. Si gioca il rematch e, all'inquinata foschia dell'inverno mancuniano si sostituisce la fredda brezza della Mitteleuropa balcanica, acquietata però dal calore dei cinquantaduemila tifosi di Belgrado che non solo conoscono l'intrinseca importanza della partita, ma ne riconoscono istintivamente un significato più profondo, come se sapessero di trovarsi di fronte ad una partita dal valore epico. 

Esistono partite che, semplicemente, raccontano un'altra storia

È una battaglia memorabile, in cui lo United, dopo essersi portato in vantaggio per tre reti a zero, subisce la furiosa rimonta di un'indomita e orgogliosa Stella Rossa, che impatta il risultato sul tre pari. Malgrado il direttore austriaco e alcune sue decisioni definite double-dutch dai cronisti inglesi, e nonostante la folla oceanica riversatasi a supportare la squadra di Belgrado, in virtù del 2 a 1 dell'andata a favore dei Red Devils, l'aggregate finale è di 5 a 4: sono quindi i Babes ad approdare alle semifinali di Coppa Campioni. 
È la seconda volta che riesce loro e, sebbene li aspetti il Milan di Maldini, Trapattoni e Schiaffino, questa volta è diverso, possono arrivare in finale, quest'anno è cambiato il registro: i Busby Babes, per quanto possa suonare paradossale, hanno raggiunto una maturità professionale e agonistica che non li rende secondi a nessuno.

Come in un film romantico intriso di buoni sentimenti e senza finali che facciano male, a partita finita lo scontro diventa incontro e si sposta nelle sale dell'Hotel Majestic di Belgrado dove i giocatori, le dirigenze e i giornalisti a seguito dei due club si rilassano davanti ad un sontuoso banchetto organizzato per l'occasione. Nonostante sia solo una squadra ad essere passata, il clima è amichevole e i toni sono estremamente cordiali. 

A referto letterario va la simpatica domanda rivolta da un giornalista inglese ad un collega jugoslavo:"Why didn't you score just one goal then we could have met for a third time?" 
Altri tempi, un altro calcio, un bell'andare.
Purtroppo però il piacevole intermezzo si rivelerà una profezia di sventura.


MALA TEMPORA CURRUNT

I Red Devils sono pronti per il ritorno in patria, ove li attende il delicatissimo big match contro il Wolverhampton, rispetto cui i Babes accusano un ritardo di sei punti in classifica. 

In testa il leggendario Capitano Billy Wright

Sebbene non abbiano ancora partecipato ad alcuna competizione continentale, i Wolves sono considerate una delle squadre più forti d'Europa, avendo battuto, tra le mura amiche del Molineux, alcuni tra i club più forti in circolazione: Real Madrid, Borussia e Honved. Certo, si trattava di incontri dimostrativi, ma se c'era una squadra che in Inghilterra potesse impensierire i Babes, quella era il Wolverhampton, e se c'era una squadra in Europa che potesse sconfiggere i Wolves, quella era il Manchester United.

Il volo che riporta a casa lo United prevede una sosta a Monaco di Baviera per un rifornimento di carburante. Non appena effettuato, a causa del surriscaldamento del motore, il decollo risulta difficoltoso e dopo due tentativi falliti, i passeggeri vengono fatti scendere e ritornano nella hall dell'aeroporto, in attesa che i piloti comunichino loro il da farsi. 
Mala tempora currunt: comincia a nevicare sempre più pesantemente e a giocatori e staff appare chiaro che non sarebbero partiti se non l'indomani mattina. È proprio Duncan Edwards ad inviare un telegramma a casa in cui spiega che non sarebbero tornati se non il giorno successivo:"All flights cancelled. Flying tomorrow"
Tuttavia pilota e copilota decidono di tentare la sorte e, nonostante la tempesta di neve si stia facendo sempre più insistente, azzardano un terzo decollo. Ma questa volta non è il motore a tradirli ma un cumulo di neve ghiacciato sulla pista che rallenta la velocità dell'aereo, rendendola insufficiente per il decollo. 
Quel che succede immediatamente dopo ha dell'inverosimile. L'aereo sfonda la recinzione dell'aeroporto, si schianta contro un'abitazione, si spezza in due, e di questi lati quello destro della fusoliera caracolla su un magazzino al cui interno è parcheggiato un camion pieno di carburante che, al contatto, esplode. Venti passeggeri, tra giocatori, giornalisti e membri dell'equipaggio muoiono sul colpo; altri tre muoiono immediatamente dopo.


È una tragedia che ha del paradossale sotto ogni punto di vista, non ultimo quello dell'esperienza dei due piloti, due ex-assi della RAF, nel cui ruolino militare (e per chi scrive questo ha dell'incredibile nell'incredibile) vantavano anche l'abbattimento di caccia tedeschi. Essere aviatori di Sua Maestà gegen Nazis, aver surclassato la Luftwaffe nei cieli di Albione e poi morire a bordo di un aereo civile, in Germania, che non è nemmeno riuscito a decollare. Quando Dante aveva pensato a "La Legge del Contrappasso", non sarebbe riuscito ad essere più fantasioso, o più contorto.

La buona notizia è che ci sono dei sopravvissuti. 
La storia più sensazionale è quella del portiere Harry Gregg, il quale, mentre riprende conoscenza, pensa d'essere morto e sentendo il sangue scorrergli sul volto, non osa toccarsi la testa temendo che lo schianto gli abbia portato via lo scalpo e chissà cos'altro, quasi sia ridotto alla stregua di un uovo alla coque. Ma è miracolosamente tutto intero e, non appena scongiurata la paura, mette in salvo sé stesso e tutti quelli che riesce a recuperare tra i rottami dell'aereo.
La storia più triste e allo stesso tempo più commovente e leggendaria è quella, e non poteva essere altrimenti, di Duncan Edwards. Il ragazzone del Black Country è più morto che vivo, ma respira ancora. Viene tradotto all'ospedale più vicino e, seppur in condizioni pessime, prova con tutte le proprie forze a riprender vena. Deve tenere fede all'epiteto che gli ha cucito addosso l'amico Stanley Matthews:"A rock in a raging sea", e Big Dunc "The Tank" dà l'ennesima dimostrazione di cosa voglia dire lottare e riacquistare la serenità di tutti i giorni. 

Dovere di narrazione impone di raccontare che abbia chiesto al manager Murphy:"What time is the kick off against Wolves, Jimmy? I mustn't miss that match". Storia straordinaria, assolutamente fuori dal comune, cui io credo perché non può essere altrimenti, se consideriamo la biografia del personaggio e il titolo del racconto. 
Per quanto i medici nutrano flebili speranze circa un suo recupero completo, sono abbastanza certi che Duncan Edwards non potrà mai più giocare a calcio. Nonostante questo Duncan ha in testa solo un pensiero: il Wolverhampton, la squadra cui è legato a doppio, triplo, quadruplo filo; quasi un'ante litteram di Harry Potter e Serpeverde, una sorta di attrazione fatale, un ineluttabile incrocio di destini. 
Erano stati i Wolves i primi a interessarsi a lui quando, appena sedicenne, firmò per lo United. Erano e sarebbero stati i Wolves i più acerrimi nemici dei Babes. 
E ancora, capitano del Wolverhampton era Billy Wright, proprio quel Billy Wright che -rebus sic stantibus- gli avrebbe ceduto la fascia della Nazionale inglese.

Ma l'armband dei Tre Leoni sarebbe andata a Bobby Moore, e sarebbe stato proprio il centrale del West Ham ad alzare la Coppa del Mondo del 1966, e non Edwards, come sarebbe stato normale che fosse, se il 21 Febbraio del 1958, due settimane dopo lo schianto, non avesse abbassato la guardia, per la prima e ultima volta della sua carriera, ma soprattutto, della sua vita.

Un'altra storia

Ma il Wolverhapton, la sua "altra metà del cielo privata", non è che un tassello di quell'incredibile puzzle che è stata la sua vita. 
Duncan Edwards gioca la sua ultima partita contro la Stella Rossa di Belgrado tra i cui pali gioca il miglior portiere d'Europa: Vladimir Beara. Ciò non è curioso o rilevante perché io ne abbia lungamente parlato in altre sedi ma perché c'era qualcosa che accomunava entrambi, un'abilità rara per quel tempo: la danza. Infatti entrambi, per quanto possa sembrare pazzesco, s'erano trovati a scegliere se ballare o giocare a calcio ed entrambi avevano scelto di esibirsi sul tappeto verde e non sul palco. Ma soprattutto, con un paragone nemmeno troppo azzardato, erano legati, chi in vita (Beara), chi nella morte (Edwards), dal volo: il primo ne fece del librarsi la sua principale abilità, al secondo costò la luminosa carriera, il diventare una stella di assoluta grandezza, il più grande giocatore britannico di tutti i tempi. 
E infine quella che sarebbe dovuta diventare sua moglie, conosciuta, tra tutti i posti in cui si sarebbero potuti incontrare, proprio nei dintorni dell'aeroporto di Manchester, quello in cui l'aereo decollato da Belgrado quella fredda notte del 6 Febbraio 1958, non fece mai ritorno.


TILL WE SCORE

Questa tragedia aerea, conosciuta come Munich Air Disaster, ha privato il calcio mondiale di una generazione di fenomeni, ma soprattutto ha privato il calcio inglese del suo miglior calciatore di tutti i tempi. 
Difficile, in Inghilterra, trovare qualcuno che sia, e sia stato, un giocatore illustre più sconosciuto di lui, o un giocatore sconosciuto più illustre di lui. 

Intervista fondamentale per il mio articolo: vista diecimila volte

Duncan sembrava essere la chiave di tutto: se fosse sopravvissuto, avrebbe trasmesso la sua forza e il suo spirito combattivo ai propri compagni e nulla sarebbe sembrato impossibile. Se non ce l'avesse fatta, per quanto i compagni fossero tutti promettenti talenti, sarebbe stato diverso. Duncan Edwards andava oltre ogni cosa, era come il nero sul rosso, qualcosa che rimaneva impresso, era, per dirla con Rudi Garcia (prima che si facesse prendere la mano ma soprattutto la lingua): la chiesa al centro del villaggio. 
La storia dei Busby Babes finì a Monaco di Baviera, i fiori di Manchester erano stati travolti quella triste notte del 6 Febbraio del 58, il resto lo scrissero i giocatori che vennero dopo, i sopravvissuti e quelli che Matt Busby affiancò a loro, cercando di trasmettere quello spirito vincente, quel "till we score", quell'essere professionista fino alle unghie che era stato di Duncan Edwards e che sarebbe stato comune a tutti i Manchester United che si sarebbero succeduti in futuro.

Visione consigliata: United

Ho visto questo film la sera prima dello spettacolo al Mattatoio
Un frame mi è sempre rimasto in testa, ed è quando Jimmy Murphy vola a Monaco e, non appena atterrato, si fa il segno della Croce.


MANCHESTER, AGOSTO 2008 – SPIN OFF

Nell'Agosto del 2008 insieme ad alcuni amici decidiamo di volare a Manchester per vedere un'amichevole estiva tra Manchester City e Milan. Atterriamo a Liverpool e, dopo aver visitato città, stadi e pub della Merseyside, pigliamo un indimenticabile treno alla volta della Capitale della Rivoluzione Industriale, del Brit Pop e del football dei maestri. Prima di assistere al match in programma al pomeriggio presso il neonato stadio del City, troviamo il tempo per una scappata all'Old Trafford. 

Io e tre mezzeseghe

È un signore anziano ad accompagnarci all'interno del Museo dello stadio e della squadra.

Come una volta mi ha detto uno degli amici che era con me:”Zeman, non abbiam capito un cazzo di quello che ci ha spiegato perché abbiam bevuto Guinness tutto il week end!”. Beata gioventù.  
Comunque sia, vero ma non verissimo, perché non so se siate pratici della lingua inglese, ma a Manchester parlano qualcosa che, se dovessi fare un paragone, sta al linguaggio standard della BBC come il calabrese stretto sta all'italiano corrente: per uno straniero è impossibile da comprendere e decifrare. Tanto per capirci: colloquiare con qualcuno a Liverpool, è di contro, come ascoltare la Professoressa d'inglese del Liceo che parla al rallenty. 
Ebbene, nel corso della visita percorriamo anche un'ala dedicata al Munich Air Disaster. Il mio stato è molto vicino a quello di ebbrezza, capisco tre parole ogni cento, ma nel momento della narrazione del vecchio, non ho bisogno di conoscere l'inglese di Manchester, perché le corde che tocca sono quelle del cuore. Sta parlando con gli occhi e con la pancia. Riesco a capire tutto senza intendere niente: non mi è mai più successo nulla del genere.

Quanto descritto può apparire stucchevole ma son tornato a Old Trafford nel 2016, ho rifatto la visita e non è stata la stessa cosa.

Probabilmente quell'anziano signore era un bambino quando si schiantò l'aereo che riportava indietro il suo favoloso Manchester United, e quando seppe la notizia e scoprì che i suoi idoli erano quasi tutti morti, gli crollò il mondo addosso. In quel momento non ci sta raccontando dei Busby Babes, ci sta raccontando la propria vita, e lo sta facendo col cuore in mano, con due occhi che sanguinano ancora, difficili da scordare. Non sono lucidi, non sta piangendo: è qualcos'altro, come se gli avessero portato via il rifugio della propria infanzia, come se da allora non ci fosse mai più stata nessuna “rock in a raging sea”
Non gli sono di alcun interesse o non sembrano riscuotere alcuna passione i gloriosi Manchester venuti dopo (non più di tanto, per lo meno) o che tutti conosciamo, a lui la storia ha portato via i propri eroi e conta solo questo, è come se lasciasse un po' della propria pelle in ogni parola che regala a noi.
L'anziana guida ci fa strada lungo il Munich Tunnel, una galleria che si sviluppa al di sotto del South Stand dell'Old Trafford, al cui interno sono contenuti alcuni significativi memoriali dell'incidente aereo. Oltre ad una placca commemorativa ed alcune immagini d'epoca, rimango colpito da un vetusto orologio in cui sono riportati il giorno e il luogo del disastro “Feb 6th 1958” e “Munich”. Il vecchio cicerone ci spiega che ad ogni anniversario le lancette vengono fermate all'ora dello schianto, le 3 e 04.

C'è chi ha detto che essere nostalgici non è propedeutico: credo sia tutto da dimostrare. 
Perché sì, forse aveva ragione l'amico che era con me, forse eravamo avevamo sbicchierato un po' troppo, o forse, per capire quello che l'anziano signore ci stava raccontando occorreva conoscere una storia, quella di Duncan Edwards e dei Busby Babes, che io avrei imparato solo qualche anno più tardi, e allora anche quell'intensità e quel trasporto che aveva reso con il suo racconto, li avremmo percepiti a pieno e non solo nella pancia. 


Per la mera cronaca e sempre perché non credo che le coincidenze esistano o siano casuali, proprio in quell'anno, nel 2008, senza che io ancora lo sapessi, ricorreva il cinquantesimo anniversario della tragedia. 
Era già stato deciso che dovessi scriverne, o molto più umilmente, interessarmene. Difficile dirmi contento di averlo fatto, se non altro per la tristezza del racconto, ma poche altre volte mi sono sentito rapito dalla storia di un calciatore come in questa occasione.

Non credo sia un caso che a Manchester, sponda United, il pallone sia una questione dannatamente seria, e questo perché vive di storie che vanno oltre il comune sentire e di una, in particolare, che è decisamente oltre ogni comune sentire, quella di Duncan “The Tank” Edward, a rock in a raging sea.

Jimmy Murphy l'ha sempre toccata piano

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