LUPO ULULÀ, CASTELLO ULULÌ – Il rifiuto del Lobo – PRIMO TEMPO

C'è solo una cosa che odio di più degli argentini, i catalani. (Freddy José Mendez Luna)

La fame viene e scompare, ma la dignità, una volta persa, non torna mai più. (Nonno Kuzja, Educazione Siberiana, 2013)

Capire poco, capirlo male

I primi segnali che sarei finito a raccontare questa storia, riannodando i fili dei miei ultimi mesi, cominciano a fine agosto a Barcellona.

Freddy, Ramo e il sottoscritto stiamo facendo tappezzeria al Ke Bar, provando il miglior mojito di Barcellona – come scritto nelle insegne di tutti i posti dove siamo finiti – e discorrendo di musica. Imbeccato dal maestro di vita Federico Buffa sono entrato nel loop di Andres Calamaro e sto monopolizzando la conversazione su questa nuova fase di ascolti della mia vita.

Dapprima vengo compatito, poi guardato con diffidenza ed infine trattato con l’accondiscendenza che si deve ad un parente ormai consunto dall’età e che ha lasciato per strada la maggior parte dei venerdì.

Poi, però, succede che Ramo si mette a canticchiare piano un pezzo “Flaca no me claves 
tus puñales…” e io evidentemente vado giù di testa.

Perché?


el mas grande de todos

Momenti di vero giubilo anticipano la mia risalita dall’oblio in cui i miei fratelli venezuelani mi avevano relegato. E la pezza musicale può continuare.
Scandagliamo abissi e vette del nostro ascoltato e finiamo, immancabilmente, a parlare di Shakira.
Esordisco piano: “Se fossi seduto ad un tavolo con Hitler, Donald Trump e Shakira e avessi due proiettili da spendere, sparerei a Shakira. Due volte.” I ragazzi si ammutoliscono: percepisco forte il loro fastidio e un’indignazione fuori luogo. Un’indignazione che mai mi sarei aspettato di sollevare nei loro animi, specialmente parlando di Shakira.
Nel dubbio ordino tre birre, le pago e cerco di capire che cosa avessi detto di così sbagliato. Freddy mi dice che non ho mai capito un cazzo e che prima di parlare della Shakira dovrei sciacquarmi la bocca con la candeggina. Due volte. Touchè.
Salta fuori che, a mia insaputa, Shakira prima di diventare una star del mainstream era già un idolo in Sudamerica poiché di indole rock e in possesso di un pensiero e attività sociale per nulla scontati.
“Santu ascoltati Pies Descalzos invece di dire delle cazzate.” A poche persone presto il mio orecchio ma Freddy e Ramo sono sicuramente tra quelle. Per cui mi segno di passare dalla stazione Shakira appena ne avessi avuto tempo.  E prometto di mantenermi, per il resto della giornata e della vacanza, a distanza di sicurezza dallo spinoso argomento onde evitare altri cali di mood.
Lontano dagli occhi, lontano dal cuore.

Sol che.

Sol che, una notte, appena rientrato in casa ed impossibilitato a prendere sonno (Freddy non russa, testa motozappe smarmittate!), mi appoggio in balcone a fumare una sigaretta e a pistolare col telefono. La luna è grande e voglio ascoltare una canzone di Shakira, voglio capire. Finisco ovviamente lontano da qualsiasi singolo di Pies Descalzos – consigli? Thanks but no thanks! – ed incappo (?) su uno dei video più erotici della storia.
Indovinate un po’?

e così mi son messo ad ululare alla luna

Dalla Loba al Lobo

Poche cose sono imprevedibili come la mente umana. Una di queste è la capacità di profilazione degli utenti da parte dell’internet: il giorno seguente alle 17 visualizzazioni del video di Shakira, sulla mia timeline di Facebook compaiono – come consigliati – due articoli che riguardano un certo Jorge “el Lobo” Carrascosa.

proprio lui, il più atteso!

Inizialmente, come consuetudine, me ne sono battuto altamente le palle, poi, nel vedere quei baffi così ben curati e quello sguardo fiero che puntava sempre altrove, ho pensato che una possibilità al Lobo andava data.
Ed in effetti sì: la storia è interessante e possiede tutti i crismi necessari perché venga vergata sulle pagine degli 11 Illustri Sconosciuti. Solo che tra me ed “el Lobo” si frappone, in marcatura stretta e ineluttabile, la vita reale la quale torna a bussare con la consueta strafottenza richiedendo indietro con gli interessi il tempo speso in ferie. E i baffi del Lobo vengono inevitabilmente riposti nella soffitta del mio cervello.
I pianeti però hanno deciso di allinearsi seriamente e di fare di me la mano che darà altra visibilità alla storia.
Dopo il soggiorno a Barcellona e in virtù dell’amicizia che ci lega, Ramo ed io decidiamo che se anche siamo ad oltre 2000 km di distanza avremmo dovuto darci un’altra possibilità per suonare insieme.
Per questo motivo ricevo, ad intervalli vagamente regolari, registrazioni di canzoni che il mio songwriter preferito concepisce in terra di Catalogna. In questa maniera io ho la possibilità di sovraincidere pezzi di chitarra o di aggiungerci qualsiasi cosa mi venga in mente.
Sto un po’ divagando ma vi prego di avere pazienza perché poi il cerchio si chiuderà.

il nuovo giorno arriverà

Pochi giorni or sono mi arriva un vocale su messenger e distrattamente lo faccio partire. Onestamente non avevo nemmeno guardato chi potesse essere il mittente ,anche se, al secondo accordo di chitarra, mi ero già fatto un’idea ben precisa.
Giovi sapere a chi legge che Ramo adesso scrive nella sua lingua natìa (lo spagnolo) e questo piccolo inconveniente mi permette di comprendere poco dei suoi testi salvo alcune parole basilari. Entiendo un poco ma no hablo espanol, carajo.
Il fatto grosso è che il ritornello parla di un lupo che ulula alla luna e, come potete immaginare, è evidente che Jorge Carrascosa fuoriesca dall’oblio dove l’avevo parcheggiato e diventi la principale questione che mi occuperà la vita nei giorni a venire.

la distanza è solo nella testa fratello

In Europa contromano – che poi dici che non ti porto mai da nessuna parte ATTO I

Il 20 marzo 1976, nella prima sfida della tourneè europea in preparazione ai mondiali casalinghi del 1978, la nazionale argentina aveva espugnato una Kiev innevata e sconfitto la temibile U.R.S.S. col punteggio di uno a zero, grazie al gol dell’uomo forse più rappresentativo dell’11 allenato dal "Flaco" Menotti: Mario Kempes.

gol di Kempes? non pervenuto

Dico forse perché sicuramente a livello mediatico è quello più riconoscibile, ma dentro lo spogliatoio c’è qualcun altro che – per carisma, personalità e tenacia – tiene le fila degli undici in campo: lo vedete dopo pochi secondi nel video, con il numero 3, la fascia al braccio e due baffi da uomo: è Jorge “el Lobo” Carrascosa.
È una squadra di gente tosta quell’Argentina: ci sono “el Tolo” Gallego, il funambolo Housemann, Tarantini, “el Loco” Gatti, Daniel Passarella, Bochini e perfino Ardiles. Tutta gente che ha scritto pagine brense del gioco del calcio: non solo in Argentina o in Sudamerica. E pensare che tra tutte queste personalità la fascia la tenga al braccio Carrascosa rende l’idea del rispetto, della personalità e di che giocatore e, soprattutto, uomo fosse “el Lobo”.

l'amore al tempo delle reflex

Approfondimento dovuto: quien es “el Lobo”? – La primera parte

Ma chi o cosa era Jorge Omar Carrascosa? E soprattutto: dove voleva andare?
“El Lobo” nasce a Valentin Alsina nel partido di Lanùs, a cinque minuti da Villa Fiorito (la Betlemme di molti amanti de fùtbol) e a undici km da Plaza de Mayo (centro di Buenos Aires), il 15 agosto 1948 e tira i primi calci professionali – imponendosi immediatamente - con la camiseta bianco-verde del Banfield non ancora ventenne.
Curiosità: per il ruolo, terzino, ma soprattutto per generosità e carisma un altro terzino che esordisce in un Banfield-River Plate del 1993 verrà paragonato al Lobo: la sua scrima è sempre perfetta e il suo nome è Javier Zanetti.

1993-2016: il tempo è solo una chimera

Potrebbe sembrarvi una curiosità fine a se stessa, ma - credo io - se dopo venticinque anni la squadra in cui hai militato due stagioni da pischelletto ti prende ancora come termine di paragone per chi calca la tua area di campo qualcosa l’avrai pur lasciato in dote, non trovate? 
O magari, più prosaicamente, tutti quelli che sono venuti nell’interregno Carrascosa-Zanetti facevano schifo al cazzo. Delle due l’una.
Personalmente propenderei per la prima, ma, assodato che l’operazione nostalgia di recupero di tutti i terzini che si sono succeduti in biancoverde nel periodo 1970-1993 mi attira come correre scalzo su cocci di bottiglia, ognuno è libero di schierarsi dalla parte che lo stuzzica di più o darmi lumi sulla prima o seconda ipotesi.
Nel caso, grazie in anticipo amico/a: avanzi una birra.

senza baffi, in piedi, il secondo da destra è proprio Jorge "el Lobo" Carrascosa

Da lì, nel 1970, si veste di giallo-blu e si sposta a Rosario sponda canalla, facendo felice, seppur in anticipo sui suoi tempi, l’avvocato più importante dell’Emilia Romagna e forse del mondo.

belli, belli, belli in modo assurdo

Jorge Carrascosa resta all’ombra del Gigante de Arroyito fino al 1972 accumulando esperienza e partecipando, seppure in maniera marginale (conterà solo 6 presenze in quell’annata sulle quasi 90 totalizzate nei tre anni al Central), alla conquista dello storico campionato Nazionale 1971: il campionato del cuore per i tifosi canallas.

sballoso vedere, sballoso fare

La palomita

Mi sarebbe piaciuto che Carrascosa avesse partecipato maggiormente alla vittoria del Central nel Nazionale del 1971, perché così questa connessione neurale sarebbe stata meno discutibile. Ma resta il fatto che non si può passare da Rosario, parlare di calcio e non dire nulla sulla palomita. Per fare un paragone: andare a Roma e non vedere il Papa sarebbe un peccato infinitamente meno grave.

Poy: baffi, nasone e palomita

Come già ribadito su queste pagine, l’organizzazione dei tornei in Sudamerica ha sempre risentito – o sempre beneficiato – della fantasia dei piani alti delle federazioni. Nello specifico la stagione argentina – dal 1969 al 1984 – era così suddivisa: per i primi sei mesi si concorreva al titolo di campione “Metropolitano”, nei secondi sei mesi al titolo di campione "Nazionale”. A testimonianza di questa meravigliosa schizofrenia nell’organizzazione aggiungo che il numero di squadre partecipanti, la loro suddivisione e la tipologia della fase finale sono mutate quindici volte in diciannove anni. E parlo solo del Nazionale. Immaginate il resto.

Nel 1971 le squadre erano divise arbitrariamente in due gironi e le quattro migliori si sarebbero sfidate in gara secca in campo neutro sia per quel che riguarda le semifinali (la prima di un girone contro la seconda dell’altro) che per la finale.
I bizzosi dei del pallone stabiliscono che una delle due semifinali metta di fronte il Rosario Central e gli odiati leprosos del Newell’s Old Boys. Stiamo parlando delle due squadre più importanti e seguite (eufemismo!) di Rosario, città che respira e vive/muore a ritmo di fùtbol. E per questo, forse, si tratta delLA rivalità più sentita del calcio argentino. Qualcosa di assimilabile più ad una guerra culturale, anche se guerra è un termine del cazzo. Per capirci: le dispute tra guelfi e ghibellini o tra unionisti e lealisti o, addirittura, tra Maggie Simpson e il bambino monociglio, se paragonate al sentimento che contrappone leprosos y canallas, vengono derubricate a piccole ed infantili scaramucce.
Ma su questo sarebbe poco serio che mi dilungassi: Vi invito perciò, se interessati all’argomento, ad abbeverarvi ad una delle mie fonti maestre che, non troppo tempo addietro, ha esaustivamente trattato l’argomento. 

Rosario Central vs. Newell's Old Boys 

La suddetta semifinale tra Rosario Central e Newell’s Old Boys si disputò allo stadio Monumental di Buenos Aires il 19 dicembre 1971. La partita, ovviamente nervosa e tirata fino allo spasmo, venne decisa, al minuto 54, dal volo di Aldo Pedro Poy.

La palomita de Poy

Cuore canalla e attaccante vocazionale, Poy trascorse tutta la sua carriera al Rosario dimostrando un attaccamento ai colori ai limiti del patologico.
Un esempio per tutti: dall’esordio in giallo-blu datato 1965, Poy vede la porta con il contagocce (ok corre tantissimo, ok il sacrificio e il sudore, ma un attaccante deve buttarla dentro sennò vale tutto) segnando – fino al 1970 - 15 gol in 130 partite. Una miseria.
Così i dirigenti del Rosario si accordano con un’altra squadra di Primera Division – il Club Atletico Los Andes - per cederlo. Poy non accetta e fa saltare il trasferimento fuggendo di casa e riparando, da un amico, in un ranch situato su un’isola del Paranà. Lì rimane fino al salto della trattativa -  prendendo per sfinimento il presidente canalla Victor Vesco - e ripresentandosi soltanto sul pullman che stava portando il Rosario Central ad una partita a Buenos Aires qualche giorno più avanti.
Da lì in avanti, come per una macumba riuscita bene, Poy diventa sostanzialmente inarrestabile timbrando le reti avversarie regolarmente e diventando fulcro imprescindibile per il grande Rosario di quegli anni (2 titoli Nazionali e tre secondi posti tra Nazionale e Metropolitano tra il 1970 e il 1974).
Però per capirne l’immortalita bisogna tornare al 19 dicembre 1971. Quello che succede alle 19 e 09 è presto detto: la partita è bloccata che più bloccata non si può, ma Gonzalèz – “el Negro” Gonzalèz – scende sulla destra e la butta in mezzo all’area dove sbuca in tuffo, la palomita appunto, Aldo Pedro Poy che, de cabeza, griffa la sua eternità sportiva anticipando De Renzo.

el mas grande de todos, vol. 2

Il Rosario Central andrà in finale contro il San Lorenzo e vincerà 2-1. E visto che le cose se possono prendere una piega beffarda non si fermeranno mai a metà del guado, quella finale che consegnerà il titolo ai canallas, si disputò al Coloso del Parque (oggi Estadio Marcelo Bielsa) di Rosario, la casa degli acerrimi rivali del Newell’s Old Boys.


Ed è per questo motivo, per celebrare la palomita di Poy e renderla immortale ed immutabile nei secoli dei secoli amen, che ogni 19 dicembre, dovunque il puntero si trovi o dovunque venga convocato, ci sarà qualche sostenitore canalla nelle sue vicinanze pronto a crossargli un pallone più o meno regolamentare. E Poy, con una pancia più o meno regolamentare, si tufferà e colpirà quel pallone per indirizzarlo in una porta più o meno regolamentare e tramandare una, dieci, cento volte la leggenda de la palomita, del Campionato Nazionale 1971 e dell’orgullo canalla.
Esattamente come quel giorno a Buenos Aires e come quel 10 gennaio 1972 al Polo Norte - bar di Rosario - dove la celebrazione della sacra trinità cross-palomita-gol ha posto le sue fondamenta.

il 1971 per sempre

Approfondimento dovuto: quien es “El lobo”? – La segunda parte

Dopo l’ultimo positivo anno a Rosario, che gli aveva spalancato anche le porte della nazionale albiceleste, Carrascosa cambia per l’ultima volta casacca. Dal 1973 al 1979 la sua maglia sarebbe stata biancorossa e il suo domicilio eletto sarebbe stato a 5 km da Valentin Alsina, suo luogo natìo, al “Palacio” Tomás Adolfo Ducó casa del Club Atlético Huracán.

Huracán 1973

Jorge questa volta tocca la storia con mano perché sarà titolare inamovibile dell’undici che vinse in maniera magistrale il Campionato Metropolitano del 1973. È lui, nell’idea di Menotti, il trat d’union perfetto tra la sfrontatezza guascona e geniale di molti suo compagni (“el Loco” Housemann su tutti che, per dirne una, si permise di zittire il “Monumental” di Buenos Aires segnando da sbronzo marcio riportandoci alla memoria un compianto protagonista di questo blog) e l’equilibrio che necessita ad una squadra che vuole vincere.
Una squadra che ancora oggi viene ricordata, oltre che dai propri tifosi, da tutto l’establishment del calcio argentino come una sorta di avvento del messia: sostanzialmente la storia del futbòl albiceleste si divide in prima e dopo quella squadra celestiale.
Allenato da Luis Cesar Menotti alla prima esperienza in panchina – che dopo la vittoria del Metropolitano e complice il fallimento della nazionale a Germania 1974 verrà ingaggiato come C.T. dell’Argentina quasi a furor di popolo – quell’Huracán si distingue per il gioco brillante fatto di fantasia e possesso, inusualmente scevro dai consueti giochetti borderline sudamericani, per la coesione estrema tra i giocatori e, soprattutto, per la continua spinta verticale volta a trasformare le partite in continui assalti alla porta avversaria indipendentemente dal risultato e dalla posta in palio.
In definitiva uno spettacolo coi controcazzi.

dal vangelo del calcio argentino: un equipo que marcò un antes y un después 

Menotti trasforma l’insieme di buoni giocatori ed eccellenti individualità in una macchina perfetta con due concetti fondamentali: bel gioco e rispetto umano per i suoi uomini. Crea rapporti simbiotici con molti di loro e riesce a spronarli nella giusta maniera, fino a portarli al – finora – unico titolo della storia del club. Infatti i 4 titoli vinti tra il 1921 e il 1928 non hanno valenza per l’AFA (federazione argentina) in quanto conquistati in epoca pre-profesiònal.
Le basi gettate da Menotti rimangono salde e permettono all’Huracán, anche in assenza del “Flaco”, di restare nelle posizioni che contano anche negli anni seguenti in cui i biancorossi raggiungono la semifinale di Coppa Libertadores (1974) e giungono due volte ad un passo dal titolo (1975 e 1976).
La bandiera, però, rimane “el Lobo” Carrascosa il grintoso terzino che decide di rimanere a vita e di lasciare, dopo 7 anni, quasi 300 presenze e con due anni in anticipo sulla scadenza naturale del suo contratto, alla fine dell’anno 1979 per ritirarsi a vita privata.

Un petit dejà-vù

Dal 1973 in poi l’Huracán ha avuto alcune ghiotte occasioni per tornare sul tetto di Argentina ma le ha gettate al vento. La più clamorosa è sicuramente quella del “Clausura” 1994 (non voglio più tornare sui cambiamenti a sentimento del format del campionato argentino): l’Huracán è in testa con un punto sull’Independiente – allenato dal grande ex Miguel Angel Brindisi, uno dei protagonisti del Metropolitano 1973 - e con una sola partita da giocare che, mi sembra ovvio, è proprio contro i rossi di Avellaneda.
La chiudo easy: l’allenatore dell’Huracán era Hector Cuper. Per cui 4-0 Independiente e bona lè.
Every day is the 5th of may Hector!

sempre per restare in tema Inter: 2 gol li segna Rambert meteora che ebbe un solo grande pregio: fare in modo che Moratti comprasse anche Javier Zanetti


continua...

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